INDICE DELLE CONFERENZE SPIRITUALI Prefazione I Conferenza: Il fine del monaco II Conferenza: La discrezione III Conferenza: Le tre rinunzie IV Conferenza: La concupiscenza carnale e spirituale V Conferenza: Gli otto vizi capitali VI Conferenza: La morte dei santi VII Conferenza: Mobilità dell’anima e degli spiriti maligni VIII Conferenza: Gli spiriti che si dicono principati IX Conferenza: L’orazione (Prima parte) X Conferenza: L’orazione (Seconda parte) Prefazione (al secondo gruppo) XI – 1.a Conferenza dell’abate Cheremone: La perfezione XII – 2.a Conferenza dell’abate Cheremone: La castità XIII – 3.a Conferenza dell’abate Cheremone: La protezione di Dio XIV – 1.a Conferenza dell’abate Nestore: La scienza spirituale XV – 2.a Conferenza dell’abate Nestore: I divini carismi XVI – 1.a Conferenza dell’abate Giuseppe: L’amicizia XVII – 2.a Conferenza dell’abate Giuseppe: Le decisioni irrevocabili Prefazione (al terzo gruppo) XVIII – Conferenza dell’abate Piamo: Sulle tre specie di monaci XIX – Conferenza dell’abate Giovanni: Sul fine della vita cenobitica ed eremitica XX – Conferenza dell’abate Pinufio: Sul fine della penitenza e sui segni della soddisfazione XXI – Prima conferenza dell’abate Teona: Sul riposo della Quinquagesima (di Pentecoste) XXII – Seconda conferenza dell’abate Teona: Sulle illusioni notturne XXIII – Terza conferenza dell’abate Teona: Sull’impeccabilità XXIV – Conferenza dell’abate Abramo: Sulla mortificazione
Giovanni Cassiano (360 circa – Marsiglia, 23 luglio 435) è stato un monaco, sacerdote e fondatore di monasteri, commemorato come santo dalla Chiesa cattolica e dalla Chiesa ortodossa. Si conosce poco di lui, pare che il suo nome originario fosse semplicemente Cassianus; il nome Johannes gli sarebbe stato aggiunto in onore a San Giovanni Crisostomo. Cassiano morì nel 435 e le sue spoglie sono state conservate nel monastero di San Vittore da lui fondato, fino alla sua distruzione durante la Rivoluzione francese. Esitando a lasciare partire Giovanni e Germano, il loro abate chiese loro di promettere dinanzi a tutti i fratelli che sarebbero ritornati entro breve tempo (Coll., 17,5; Cf. Ibid., 17,2; 18,2); ciò che essi fecero. “Volevamo giungere fino al deserto lontano della Tebaide, per visitare il più gran numero possibile di quei santi monaci la cui fama aveva sparso il nome per tutta la terra. Ci sospingeva a questa impresa il desiderio di conoscere questi santi uomini, se non proprio quello di gareggiare con loro in santità. Alla fine della navigazione giungemmo ad una città egiziana chiamata Tenneso. Essa è circondata dalle acque: da una parte ha il mare, dall’altra laghi salati „(Coll., 11,1; Cf. Prefazione dei libri 11-17). La scelta di questo luogo è probabilmente legata al fatto che l’abate Pinufio – la cui umiltà aveva impressionato Cassiano, in occasione del suo passaggio a Betlemme – aveva là il suo monastero. PREFAZIONE ALLA PRIMA PARTE AL VESCOVO LEONZIO E AL MONACO ELLADIO Estratto da “Giovanni Cassiano – Conferenze spirituali” – Edizioni Paoline – 1965 Con l’aiuto di Dio, e nonostante la pochezza del mio ingegno, ho mantenuto la promessa che feci al santo vescovo Castore nella prefazione ai dodici libri in cui tratto delle Istituzioni cenobitiche e dei rimedi da opporsi agli otto vizi capitali. Ora sarei curioso di sapere il vostro benevolo giudizio, e quello di Castore, sopra un’opera che tratta argomenti sublimi e profondi, finora mai capitati – così almeno penso – sotto la penna di qualche scrittore. Sarò riuscito a dire qualcosa che fosse degno della vostra attenzione e di quella dei nostri santi fratelli? Il vescovo Castore, infiammato com’era dal desiderio della perfezione, senza tener conto della mia incapacità a portare un peso sì grande, mi aveva comandato di comporre un’opera simile alla prima in cui dovevo riportare dieci conferenze spirituali tenute dai più grandi Padri del deserto, e precisamente dagli anacoreti che dimoravano nell’eremo di Scito. Ora che Castore ci ha lasciati per andarsene in cielo, io penso di dedicare « Le Conferenze » a voi, venerabile vescovo Leonzio e ottimo fratello Elladio. Il primo di voi merita questo gesto, perché è fratello di Castore nel sangue, nella dignità vescovile e – quel che più conta – perché lo segue nel desiderio della perfezione. L’altro si è messo a seguire la vita sublime degli anacoreti, non già per un superbo capriccio – come taluni fanno – ma dietro impulso del divino Spirito. Così egli s’è incamminato per la via della perfezione prima ancora di averla appresa per scienza, ed ha voluto essere guidato dalle esperienze dei grandi solitari, piuttosto che dalle sue personali inclinazioni. Io – ancorato ormai nel porto del silenzio – vedo aprirsi dinanzi a me un mare sterminato, mentre mi accingo a tramandare ai posteri la vita e la dottrina di uomini così grandi. La navicella del mio ingegno incontrerà scogli tanto più gravi in quanto la vita anacoretica e contemplativa, di cui quegli uomini inestimabili fanno professione, la vince assai sulla vita cenobitica e ascetica che si esercita nei nostri monasteri. Voi dunque dovrete aiutare il mio difficile lavoro con le vostre preghiere, affinché una materia santa, degna anche di una fedele esposizione, non sia disonorata dalla incapacità della mia lingua, e io non naufraghi in materia tanto profonda. Dall’aspetto esteriore e visibile della vita monastica di cui mi sono occupato in altri libri passerò ora a trattare la vita interiore e invisibile. Dalla preghiera delle ore canoniche, vengo ora a trattare di quella preghiera continua di cui parla san Paolo (1 Ts 5,17). Per tal modo colui che nella lettura dell’opera precedente si è meritato il nome di Giacobbe secondo lo spirito (Gn 27, 36) (dopo avere estirpato i vizi carnali), ora, attraverso lo studio degli insegnamenti dei Padri del deserto, potrà giungere alla contemplazione della divina purezza, sarà promosso a chiamarsi Israele (Gn. 32,28), imparerà quali doveri son da osservare sulla vetta stessa della perfezione. La vostra preghiera a quel Dio che mi elargì la vista, la scuola e la compagnia di tanti e ammirabili solitari, mi ottenga la grazia di tenere a memoria e ridire con parole fedeli i loro insegnamenti, cosicché io vi possa presentare quei santi uomini in tutto ciò che santamente e integralmente mi dissero, quasi incarnati nelle loro istruzioni e parlanti in latino, la quale cosa è tutt’altro che facile. Di una cosa voglio avvertire il lettore di queste « Conferenze », così come avvertii il lettore della mia prima opera: se egli troverà nelle mie pagine alcune cose che gli sembreranno dure o impossibili, in relazione al suo stato o al comune modo di vivere, non misuri quei fatti col suo piccolo metro, ma con la dignità e la santità di coloro che parlano. Non dimentichi che essi desiderarono e proposero a se stessi di vivere sciolti da tutti gli affetti ai parenti carnali e da tutte le occupazioni della terra, quasi fossero morti alla vita del nostro mondo. Faccia anche attenzione ai luoghi nei quali abitarono. Attorniati da una vastissima solitudine, separati dal consorzio umano, arricchiti per questo di illuminazioni soprannaturali, videro e dissero cose che potranno sembrare impossibili a chi – per la sua vita mediocre – manca della loro scienza ed esperienza. Se però qualcuno vuol dare un giudizio più sicuro e vuol provare se le cose qui narrate sono possibili, si affretti ad abbracciare quel metodo di vita col dovuto fervore; allora si accorgerà che le cose stimate prima sovrumane, nonché possibili, sono soavissime. Ma basta. Affrettiamoci a riferire le « Conferenze » di quei santi uomini e la loro dottrina. CONFERENZA DELL’ABATE MOSÈ IL FINE DEL MONACO Estratto da “Giovanni Cassiano – Conferenze spirituali” – Edizioni Paoline 1965 Indice dei Capitoli I Abitanti di Scito e propositi dell’abate Mosè; II L’abate Mosè domanda quale sia lo scopo o fine del monaco; III La nostra risposta; IV Altra domanda dell’abate Mosè sullo stesso tema; V Similitudine dell’arciere; VI Vi sono alcuni i quali, dopo aver rinunziato al mondo vogliono andare alla perfezione privi di carità; VII Ricercare la tranquillità del cuore; VIII Il nostro principale sforzo deve tendere alla contemplazione delle cose celesti. Esempio di Marta e di Maria; IX Si domanda perché le virtù non durano quanto l’uomo; X Risposta: la ricompensa della virtù rimane, l’atto termina; XI La carità non ha mai fine; XII Domanda sulla durata della contemplazione; XIII Risposta sul modo d’indirizzare il cuore a Dio e sul regno di Dio e del diavolo; XIV Immortalità dell’anima; XV La contemplazione di Dio; XVI Domanda riguardante la mobilità dei pensieri; XVII Risposta: ciò che l’anima può e ciò che non può riguardo ai pensieri; XVIII L’anima paragonata a una macina da mulino; XIX I tre principi dei nostri pensieri; XX Modo di distinguere i pensieri, preso dall’arte dell’abile banchiere; XXI Illusione in cui cadde l’abate Giovanni; XXII Le quattro specie del discernimento; XXIII Il discorso del maestro di spirito risponde al merito di chi lo ascolta. I – Abitanti di Scito e propositi dell’abate Mosè Il deserto di Scito fu sempre popolato da monaci rinomati: fu anzi la dimora della perfetta vita monastica. Ma fra tanti fiori elettissimi uno olezzava di più soave profumo, sia nella vita attiva che in quella contemplativa: l’abate Mosè. Io, desideroso di metter buone basi nella vita monastica, mi recai alla sua scuola insieme con l’abate Germano, col quale ho avuto una perfetta comunione d’intenti fin dai primi passi della milizia cristiana. Con lui sono stato nel cenobio, con lui sono stato nell’eremo, a tal punto che i nostri conoscenti, per esprimere l’identità dei nostri propositi, dicevano che eravamo un’anima in due corpi. Andammo insieme anche dall’abate Mosè e con molte lacrime gli chiedemmo una istruzione spirituale edificante. Sapevamo bene che egli non si decideva ad aprire le porte della perfezione se non a coloro che lo desideravano sinceramente e lo richiedevano di ciò con cuore Contrito. Egli faceva così per non correre il rischio di presentare la dottrina celeste a gente che non la desiderava affatto, o la desiderava tiepidamente. Quella dottrina, infatti, è un segreto da manifestare soltanto a chi arde dal desiderio della perfezione, e da nascondersi gelosamente a quegli indegni che raccoglierebbero annoiati, facendo ricadere anche su chi la rivela una parte della loro colpa. Commosso dalle nostre lacrime, il santo abate così prese a parlare. II – L’abate Mosè domanda quale sia lo scopo o fine del monaco Ogni arte, ogni disciplina ha un suo particolare scopo o fine. Chi vuol far bella prova in una qualsiasi arte, deve guardare al fine e sopportare con animo invariabilmente lieto fatiche, pericoli e perdite. Guarda il contadino. Egli fruga infaticabile la terra, rompe le dure zolle con l’aratro, senza punto curarsi dei raggi cocenti del sole, né della brina o del gelo. Quando egli libera la terra dai pruni e dalla malerba e la riduce poi trita e sciolta come rena, persegue lo scopo di ottenere un raccolto abbondante, messe strabocchevole, che possa dargli vita tranquilla e ricchezza cospicua. L’agricoltore vuota lietamente i granai pieni di frumento, e affida con assidua fatica il suo grano ai solchi umidi, perché la speranza della messe futura non gli lascia sentire la perdita presente. Osserva ora i commercianti. Essi non temono le tempeste del mare, non si spaventano d’alcun pericolo, mentre volano al loro fine con veloce speranza di guadagno. Non si dimentichino neppure gli uomini accesi di ambizione militare. Il miraggio lontano degli onori e della potenza li rende insensibili ai disagi, ai pericoli dei viaggi, agli affanni presenti, alle guerre: tutto per loro è nulla, pur di ottenere l’onore che si son proposti come scopo. Altrettanto deve dirsi per la nostra professione. Anch’essa ha un fine, e per raggiungerlo noi sopportiamo senza abbatterci — anzi con gioia — tutte le fatiche. Per quel fine non ci lasciamo vincere dai digiuni e dalla fame, troviamo gradevole il peso delle veglie, troviamo dilettevole la lettura continua della sacra Scrittura, né ci fa spavento la fatica senza sosta, la completa privazione di tutte le cose, la solitudine di questo eremo. Per questo medesimo scopo — ne sono certo — avete anche voi disprezzato l’amore dei parenti, la terra che vi dette i natali, le consolazioni del mondo, e avete attraversato tante regioni per venire da noi, uomini rozzi e ignoranti, sperduti nella desolazione di questo deserto. Ditemi dunque: qual è lo scopo o fine vostro? Che cosa vi spinge a sopportare lietamente tutte queste cose? III – La nostra risposta Poiché l’abate insisteva nel sollecitare la nostra risposta, noi rispondemmo che eravamo disposti a soffrire qualunque cosa per amore del regno dei cieli. IV – Altra domanda dell’abate Mosè sullo stesso tema E l’abate riprese: per quanto riguarda il fine, avete risposto magnificamente, resta ora da vedere quale deve essere lo scopo [1] al quale dobbiamo indirizzare ogni nostro atto, se vogliamo raggiungere il fine. Noi confessammo francamente di non saperlo, e quello continuò: Ogni arte, ogni disciplina — come ho già detto — deve avere dinanzi a sé un punto a cui s’indirizzano tutti gli sforzi e tutti i desideri. Se a quel punto non si tende con ardore e perseveranza, non è possibile raggiungere il fine desiderato. Il fine del contadino — già portato ad esempio — è quello di vivere in tranquilla agiatezza godendosi un raccolto abbondante, ma per giungere al fine, ecco che il contadino libera il campo dalle spine e dalle erbe dannose, né pensa di poter ottenere l’agognata agiatezza se non possiede prima, nel lavoro e nella speranza, quel che spera di possedere nella realtà. Un mercante che desidera ingrossare il suo capitale, mai cessa di ammassare mercanzie, perché vede che inutilmente vorrebbe il guadagno se non intraprendesse la via che ad esso conduce. Coloro che desiderano le più alte dignità del mondo, scelgono prima gl’impieghi da ricoprire e le carriere da percorrere, per assicurarsi di giungere alla carica agognata. Il fine del nostro cammino è il regno di Dio, o regno dei cieli; ma quale è la via da seguire? Il problema è della massima importanza, perché se non conosceremo la via, ci affanneremo inutilmente. Infatti il viandante che va fuori strada, si affatica tanto e non progredisce di un passo. Vedendo la nostra meraviglia a queste sue parole, il buon vecchio continuò: il fine della nostra professione è indubbiamente il regno di Dio, o regno dei cieli, ma la via che ad esso conduce è la purezza del cuore, senza la quale nessuno può raggiungere quel fine. Fissando lo sguardo sulla purezza del cuore, come per prendere da essa la nostra direzione, noi orienteremo i nostri passi sopra una linea sicura. Se da questa linea il nostro pensiero si allontanerà qualche poco, torneremo in noi stessi e, con l’occhio fisso alla regola scelta, correggeremo le deviazioni. Quella stessa regola che ha sollecitato tutti i nostri sforzi a indirizzarsi sulla via sicura, non mancherà di richiamarci al dovere se la nostra volontà avrà deviato anche leggermente, dalla direzione che s’era proposta. V – Similitudine dell’arciere Pensiamo ad alcuni tiratori d’arco che vogliono dar prova della loro perizia davanti a un re di questo mondo. Essi si sforzano di conficcare dardi e saette sopra certi piccoli scudi sui quali stanno dipinti i premi e sanno che, se non mirano diritto, non potranno ottenere il fine, cioè il premio desiderato. Supponiamo ora che il bersaglio sia sottratto allo sguardo degli arcieri; anche se la loro mira sarà lontana dalla buona direzione, non se n’accorgeranno, perché mancherà un punto di riferimento che indichi se la direzione è buona o sbagliata. Così fenderanno inutilmente l’aria, incapaci di conoscere il loro errore, perché non hanno una regola che li avverta della direzione sbagliata, o del punto verso il quale, la loro vista malcerta debba richiamare e raddrizzare la traiettoria del tiro. Applichiamo ora l’immagine alla professione monastica. Il suo fine è la vita eterna, dice infatti l’Apostolo: « Voi avete come frutto la vostra santificazione, come fine la vita eterna » [2]. La via che porta al fine è la purezza del cuore, che l’Apostolo giustamente chiama santità. Senza di essa è impossibile raggiungere il fine; è come dire in altre parole: la vostra via è la purezza del cuore, il termine d’arrivo è la vita eterna. Il santo Apostolo, parlando altrove della nostra meta, dice: « Dimenticando quel che mi è dietro le spalle, e slanciandomi alle cose davanti, vado dietro al segno, per raggiungere il premio della suprema vocazione di Dio » [3]. Il testo greco è in questo luogo ancor più chiaro: esso suona così: « Katà schopón dióco ». È come se l’Apostolo dicesse: « Nel mirare al bersaglio, io dimentico ciò che sta dietro a me — cioè i vizi dell’uomo carnale — e cerco di raggiungere il mio fine che è il premio celeste ». Dobbiamo perciò ricercare con ogni diligenza ciò che può condurci alla purità del cuore; dobbiamo pure guardarci da tutto ciò che da essa ci allontana. Si tratta infatti di cose pericolose e dannose. II bersaglio da raggiungere è la ragione del nostro agire e del nostro soffrire. Perché la sua vista ci segua sempre, chiara e inobliabile, abbiamo abbandonato parenti, patria, onori, ricchezze, piaceri del mondo. Perciò, dopo che ci siamo proposti questo bersaglio, tutti i nostri atti e pensieri debbono tendere a raggiungerlo. Se esso, per nostra disgrazia, non ci stesse sempre davanti agli occhi, tutti i nostri sforzi diventerebbero vani e sprecati, si disperderebbero senza alcun profitto. Peggio ancora: sorgerebbe in noi una folla di pensieri sregolati, contrastanti gli uni con gli altri. È inevitabile infatti che un’anima, la quale non ha più un punto a cui riferirsi e ancorarsi, cambi ad ogni ora e ad ogni momento, a seconda dei pensieri che sopravvengono e sotto la sollecitazione degli avvenimenti esteriori: cambi cioè il proposito, col cambiare delle impressioni. VI – Vi sono alcuni i quali, dopo aver rinunziato al mondo, vogliono andare alla perfezione privi di carità Ecco spiegato perché molti uomini spirituali, i quali avevano disprezzato ingenti beni di fortuna, cumuli d’oro e d’argento, sterminati possedimenti terreni, si lasciarono poi vincere da un nonnulla come un coltello, un pennino, un ago, una penna. Se essi avessero tenuto lo sguardo fisso al bersaglio, che è la purezza del cuore, mai si sarebbero persi in simili stupidaggini, dopo che si erano privati di beni considerevoli e preziosi per non trovare in essi un ostacolo all’unione con Dio. Ci sono persone le quali conservano così gelosamente un manoscritto da non lasciarlo né vedere né toccare da alcuno; così avviene che dove potrebbero trovare una preziosa occasione di pazienza e di carità, trovano una dannosa occasione d’impazienza e di morte. Certi uomini spirituali agiscono allo stesso modo: dopo aver distribuito tutte le loro ricchezze, per amore di Cristo, conservano l’attaccamento del cuore, trasferito in cose piccolissime, e si adirano per difendere queste sciocchezzuole, come se non avessero la carità di cui parla l’Apostolo. Per tal modo la loro vita diventa completamente sterile. S. Paolo prevedeva in spirito tutto ciò quando scriveva: « Se anche dessi in favore dei poveri tutto ciò che posseggo, e dessi il mio corpo per essere arso, e non avessi amore, non ne avrei alcun giovamento » [4]. Ciò dimostra che la perfezione non si raggiunge d’un tratto, rinunciando alle ricchezze e disprezzando gli onori, senza prima essersi arricchiti di quella carità della quale l’Apostolo descrive i molteplici aspetti. E la carità consiste nella purezza del cuore! Che cosa significano infatti le parole di S. Paolo che dice: « La carità non è ambiziosa, non si gonfia, non s’irrita, non agisce invano, non è egoista, non si compiace dell’ingiustizia, non pensa male?… ». Non è lo stesso che invitare ad offrire a Dio un cuore perfetto e purissimo, e a custodirlo intatto da tutti i moti della passione? VII – Ricercare la tranquillità del cuore La purezza del cuore deve dunque essere l’unico oggetto delle nostre azioni e dei nostri desideri. Per ottenerla e conservarla dobbiamo ritirarci nel deserto, sopportare digiuni, veglie, fatiche, nudità; applicarci alla lettura dei libri sacri e alla pratica delle altre virtù, convinti che in tal modo renderemo puro il nostro cuore e lo conserveremo inattaccabile a tutte le passioni perverse. Così saliremo — come per una scala — verso la perfezione della carità. Nel caso che un’occupazione buona e necessaria non ci lasciasse osservare con assoluta completezza il programma che ci siamo proposti, non cadiamo in tristezza, non andiamo in collera o sdegno; pensiamo piuttosto che quanto non abbiamo potuto fare, avremmo voluto farlo proprio per vincere questi stessi vizi. È minore il guadagno che si ha da un digiuno, che lo scapito derivante da un atto di collera; il frutto di una lettura spirituale, non basta a compensare il danno che proviene dal disprezzo di un fratello. Bisogna dunque esercitare le virtù secondarie — digiuno, veglie, vita solitaria, meditazione delle sacre Scritture — in subordinazione alla virtù principale, che è la purezza del cuore o carità. Guai a chi sminuisce la virtù della carità per dare il primo posto a ciò che è accessorio! Finché la carità resta integra e intatta, tutto va bene, anche se certe pratiche secondarie vengono per necessità tralasciate; se invece compiamo ogni cosa fedelmente, ma senza la carità, che dev’essere l’anima di tutto, le nostre azioni non valgono più nulla. Un artigiano non si studia di procurarsi gli arnesi del mestiere per tenerli inoperosi, o perché spera che tutto il suo guadagno derivi dal semplice possesso degli arnesi; egli, invece, col loro aiuto, vuol rendersi esperto nell’arte in cui quelli sono i mezzi per raggiungere il fine. Così i digiuni, le veglie, la meditazione delle sacre Scritture, la completa rinunzia al mondo, non costituiscono la perfezione, ma i mezzi o strumenti della perfezione. Essi non formano il fine di questa divina arte: sono i mezzi per arrivare al fine. Inutilmente perciò si applica a questi esercizi colui che li stima un bene supremo e fissa in essi la mira del suo cuore, senza spingersi più in alto, al fine per cui queste pratiche sono desiderabili. Chi facesse così, avrebbe tutte le nozioni della sua arte, ma non conoscerebbe il fine nel quale sta il frutto desiderato. Tutto ciò che ha il potere di turbare la purezza e la tranquillità dell’anima nostra, va dunque fuggito come dannoso, anche se potesse sembrare utile o addirittura necessario. Seguendo questa regola potremo evitare la divagazione dei nostri pensieri e potremo giungere — secondo una linea di sicuro indirizzo — al fine sospirato. VIII – Il nostro principale sforzo deve tendere alla contemplazione delle cose celesti. Esempio di Marta e di Maria Questo dev’essere il nostro principale impegno, questo l’orientamento continuo ed immutabile del cuore: stare incessantemente occupati di Dio e delle cose celesti. Tutto ciò che distoglie da questa meta, per grande che possa sembrare, è da stimarsi secondario e perfino spregevole e dannoso. Il Vangelo stesso ci invita a formarci una simile mentalità e a proporci un tal modo di vivere, quando mette a confronto Marta e Maria. Marta attendeva ad un’occupazione santa, serviva infatti Gesù e i suoi discepoli; Maria invece, preoccupata esclusivamente della dottrina spirituale, stava ai piedi di Gesù, e li baciava, e li ungeva col profumo di una sincera confessione. Noi sappiamo che al Signore fu più gradito il gesto di Maria, perché essa aveva scelto la parte migliore, una parte che non le sarebbe stata mai tolta. Marta, che s’affannava con devota premura nel suo lavoro di massaia, quando s’accorse di non poter sbrigare da sola tutte le faccende, domandò al Signore l’aiuto della sorella, e disse: « Non ti importa nulla che mia sorella mi lasci sola a lavorare? Esortala ad aiutarmi » [5]. Non era certo un’opera spregevole quella a cui Marta chiamava la sorella; tuttavia si sentì rispondere: « Marta, Marta, ti preoccupi e ti affanni per troppe cose: poche cose son necessarie, anzi basta una sola. Maria ha scelto la parte migliore, e non le sarà mai tolta » [6]. Si vede da ciò che il Signore ripone il bene supremo nella sola « teoria », cioè nella divina contemplazione. Ne consegue che le altre virtù — per quanto utili e buone — sono da mettersi in secondo ordine, perché sono tutte da praticare in vista della sola contemplazione. Quando il Signore dice: « Tu ti preoccupi e t’affanni per troppe cose, ma poche cose son necessarie, anzi ne basta una sola », ci fa intendere che il sommo bene non sta nell’azione — anche se buona e ricca di frutti — ma sta nella contemplazione divina. Bastano poche cose, dice il Maestro Divino, per la beatitudine perfetta; e così parlando Egli intende additarci il primo grado della contemplazione, nella quale l’anima è intenta a meditare gli esempi di un piccolo numero di santi. Chi nella vita spirituale è ancora allo stadio dei proficienti, con l’aiuto della divina grazia, e attraverso questa contemplazione, si eleverà fino all’unica cosa necessaria di cui abbiamo parlato, cioè alla vista di Dio solo. Emulando allora gli esempi e i mirabili inviti dei santi, l’anima avrà per unico alimento la conoscenza di Dio e il gusto della sua bellezza. È vero dunque che Maria ha scelto la parte migliore, una parte che non potrà esserle tolta. Ma queste parole vanno considerate più attentamente. Il Signore, dicendo che Maria ha scelto la parte migliore, non si pronuncia su Marta, e tanto meno la condanna; tuttavia mentre loda l’atteggiamento di Maria, dichiara che quello di Marta è meno bello. Quando poi aggiunge: « e quella parte non le sarà tolta », afferma implicitamente che a Marta potrà esser tolta la sua parte (un servizio di natura corporale non potrà infatti durare quanto l’uomo), ma l’occupazione di Maria, insegna esplicitamente il Signore, non avrà mai termine. IX – Si domanda perché le virtù non durano quanto l’uomo Profondamente colpiti da queste parole, noi rispondemmo: dunque l’afflizione dei digiuni, la continua lettura, l’esercizio delle opere di misericordia, di giustizia, di pietà, di cortesia, costituiscono beni deperibili che non resteranno con chi ne è stato l’autore? Ma a queste opere il Signore promette il regno dei cieli quando dice: « Venite, o benedetti dal Padre mio; possedete il regno dei cieli che vi è stato preparato fin dalla fondazione del mondo. Perché ebbi fame e voi mi deste da mangiare; ebbi sete e mi deste da bere » [7]… Come potrà esserci tolto ciò che ci introduce nel regno dei cieli? X – Risposta: la ricompensa della virtù rimane, l’atto termina Mosè — Io non ho detto che il premio delle buone opere ci sarà tolto; il Signore stesso afferma che « colui il quale darà a bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca ad uno di questi piccoli perché è suo discepolo, non perderà la sua ricompensa » [8]. Dico però che dovranno cessare le opere di misericordia, le quali sono ora richieste dalle necessità del corpo, dagli assalti della carne, dalle diverse condizioni degli uomini. La lettura assidua dei libri sacri, l’austerità del digiuno, sono utili per purificare il cuore e sottomettere la carne, nelle condizioni presenti di vita, finché la carne ha desideri contrari allo spirito [9], ma noi vediamo che questi buoni esercizi cessano anche nella vita presente allorché uno, per eccessiva difficoltà, o per malattia, o per vecchiaia, è impossibilitato a compierli. A maggior ragione, dunque, cesseranno nella vita eterna, quando la carne corruttibile si sarà rivestita di incorruttibilità [10] e il nostro corpo animale sarà diventato spirituale [11]; in una parola: quando la carne non avrà più desideri contrari allo spirito. Tutto ciò è detto chiaramente in S. Paolo: « L’esercizio del corpo è utile a poco, invece la pietà — e qui certamente si deve leggere carità — è utile a tutto: essa ha le promesse della vita presente e di quella futura » [12]. Dire che le opere di pietà esteriore hanno un limite, equivale ad affermare che non possono essere esercitate sempre, né possono dare — a chi in esse si affatica — la perfezione suprema. Infatti: quella parola dell’Apostolo: « utile a poco », può intendersi in due sensi. In relazione alla durata del tempo, vuol dire che l’esercizio corporale non è inseparabile dall’uomo, né in questa vita, né in quella futura; in relazione al poco profitto che si ricava dall’esercizio corporale, l’espressione di S. Paolo significa che le macerazioni della carne sono appena un inizio, non già la pienezza di quella perfetta carità alla quale sono assicurate le promesse della vita presente e futura. Con tutto ciò noi riteniamo che queste opere sono necessarie: senza di esse non è possibile salire alla vetta della carità. Quelle che voi chiamate opere di pietà e di misericordia sono necessarie in questo mondo, finché le condizioni degli uomini restano disuguali; non sarebbero più necessarie se non esistesse questo esercito di poveri, di bisognosi, d’infermi, i quali spesso son ridotti così dalla ingiustizia di altri uomini che hanno preso per sé — senza poi usarli — i beni che il creatore aveva destinati a tutti. Finché nel mondo esisterà la disuguaglianza ci sarà bisogno delle opere di misericordia: esse saranno utili in quanto restituiranno l’eredità eterna a chi le compie con retta intenzione. Ma nella vita eterna regnerà l’uguaglianza e cesseranno le opere di pietà, non essendoci più la ragione che le rendeva necessarie. Tutti, dalla varietà della vita attiva, passeranno all’amore di Dio e alla contemplazione delle cose celesti in perpetua purità di cuore. A questa contemplazione vogliono liberamente e generosamente dedicarsi — fin da questa vita — coloro che hanno premura di acquistare la scienza divina e di purificare la propria anima. Essi, applicandosi mentre sono nella carne corruttibile al compito che avranno da svolgere quando sia deposta la carne, hanno già gustato quella promessa del Signore che dice: « Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio » [13]. XI – La carità non ha mai fine E perché vi meravigliate se gli esercizi corporali enumerati sopra avranno un termine? Non ricordate che il beato apostolo Paolo ci indica come transitori gli stessi sublimi carismi dello Spirito Santo, e ci dà come permanente la sola carità? « Le profezie — egli dice — termineranno, le lingue cesseranno, la scienza finirà nel nulla; la carità invece non ha mai termine » [14]. I doni sono elargiti secondo le necessità e per un tempo determinato: terminato il tempo presente, essi spariranno; la carità invece non verrà mai meno. Essa opera a nostro profitto, non solo in questo mondo, ma anche nell’eternità. Quando avremo deposto il fardello delle necessità corporali, essa durerà ancora, fatta più efficace e perfetta, perché messa al riparo da ogni possibile corruzione e unita eternamente a Dio in una fiamma più viva e intima. XII – Domanda sulla durata della contemplazione Germano — Come può una creatura, rivestita di una carne tanto fragile, rimanere continuamente assorta nella contemplazione, tanto da non staccarsene, né per l’arrivo di un fratello, né per la visita ad un infermo, né per il lavoro manuale, né per i doveri di ospitalità da rendere a un pellegrino o ad altro viandante? Infine, chi potrà non essere distratto dalla necessità di provvedere al sostentamento e alla cura del corpo? Noi vorremmo imparare come e in qual misura l’anima si possa unire a questo Dio invisibile e incomprensibile. XIII – Risposta sul modo di indirizzare il cuore a Dio e sul regno di Dio e del diavolo Mosè — Unirsi a Dio senza interruzione, e rimanere inseparabilmente uniti a Lui nella contemplazione, nella modalità che voi dite, è veramente impossibile all’uomo appesantito dalla fragilità della carne. Tuttavia dobbiamo conoscere dov’è che l’anima nostra deve fissarsi e dove dobbiamo continuamente ricondurre la nostra attenzione. Se a quel segno abbiamo sempre tenuto fisso lo sguardo dell’anima, rallegriamoci; se invece ce ne siamo staccati, piangiamo e sospiriamo, convinti che ci siamo allontanati dal sommo Bene, ogni qualvolta ci siamo trovati a pensare ad altro. Ogni allontanamento — anche momentaneo — dalla contemplazione di Cristo, è da giudicare come un adulterio. Quando la nostra attenzione si è un po’ allontanata dal suo oggetto, riportiamo verso di quello gli sguardi del cuore, richiamandovi le potenze dell’anima come lungo una linea retta. L’essenza della vita spirituale sta nel profondo dell’anima: quando dal nostro intimo è stato cacciato il diavolo e non vi regnano più i vizi, si stabilisce in noi il regno di Dio. A questo proposito dice l’Evangelista: « Il regno di Dio non viene in modo da attirare gli sguardi. Non si dirà: eccolo qui, eccolo là; perché, ecco il regno di Dio è dentro di voi » [15]. Nel nostro intimo non ci può essere che una situazione: o conoscenza o ignoranza della verità; o amore del vizio o amore della virtù. Così noi prepariamo in cuor nostro un regno: o regno del diavolo o regno di Cristo. S. Paolo descrive anche la natura di quel regno che deve istaurarsi in noi; dice infatti: « Il regno di Dio non è cibo né bevanda, ma giustizia e pace e gioia nello Spirito Santo » [16]. Se il regno di Dio è dentro di noi e consiste nella giustizia, nella pace, nella gioia, chi vive in queste virtù vive certamente nel regno di Dio. Al contrario: chi vive nell’ingiustizia, nella discordia, nella tristezza generatrice di morte, è cittadino del regno del diavolo, dell’inferno e della morte. Da questi segni infatti si distinguono tra loro il regno di Dio e quello del diavolo. Ora leviamo in alto il nostro sguardo e osserviamo lo stato in cui si trovano le schiere celesti, quelle che appartengono veramente al regno di Dio. Che cosa pensare del loro stato, se non che esso è gioia senza interruzione e senza fine? Che cosa c’è di così essenziale alla vera beatitudine come la tranquillità continua e la gioia eterna? Ma io voglio che sulla verità di queste parole abbiate una prova assai più convincente di quel che possono essere i miei poveri ragionamenti. Vi porto l’autorità stessa del Signore; ascoltatelo descrivere con tocchi luminosi la natura e le condizioni del mondo futuro: « Ecco che io creo nuovi cieli e nuova terra; e le cose di prima non verranno più nella memoria, né più torneranno in mente. Ma godrete e gioirete eternamente di quelle cose che io creo » [17]. E ancora: « Il gaudio e la letizia si troveranno là, l’inno di ringraziamento e la voce di lode di mese in mese, di sabato in sabato » [18]. E infine: « Gioia e allegrezza saranno la loro eredità, il dolore e il pianto fuggiranno » [19]. Ma se desiderate saperne di più, sulla città celeste e la vita dei santi, ascoltate quel che dice il Signore rivolto alla celeste Gerusalemme: « …Alla tua sorveglianza metterò la pace, e alla tua sovraintendenza la giustizia. Non si sentirà più parlare di iniquità nella tua terra, né di devastazione e di sterminio dentro alle tue frontiere: la salute occuperà le tue mura, e la lode le tue porte. Non avrai più il sole per farti luce di giorno, né lume di luna ti rischiarerà la notte: il Signore ti sarà luce eterna e il tuo Dio sarà per te tua gloria. Il tuo sole non tramonterà e la tua luna non scemerà; perché il Signore ti sarà luce eterna e i giorni del tuo lutto saranno finiti » [20]. L’apostolo Paolo si accorda perfettamente a questi testi quando dice che il regno di Dio non è una gioia qualsiasi e indeterminata, ma è gioia precisa e specifica: è gioia nello Spirito Santo [21]. Egli infatti sa che esiste una gioia riprovevole, della quale sta scritto: « Questo mondo godrà » [22] e ancora: « Guai a voi che ridete, perché piangerete » [23]. Osserviamo finalmente che il regno dei cieli può essere inteso in tre significati. Il primo è che i cieli — cioè i santi — regneranno sopra gli altri uomini sottomessi alla loro potestà. A questo senso ci richiamano due passi del Vangelo: « Tu governerai cinque città, e tu dieci » [24], e l’altro rivolto ai discepoli: « Vi assiderete su dodici seggi a giudicare le dodici tribù d’Israele » [25]. Secondariamente « regno dei cieli » può significare che i cieli stessi diventeranno regno di Cristo, quando — per essere stato sottomesso a Lui tutto il creato — Dio incomincerà ad essere tutto in tutte le cose [26]. Infine « regno dei cieli » può significare che i santi regneranno in cielo col Signore. XIV – Immortalità dell’anima Ognuno sappia — fin da quando si trova in questo corpo materiale — che egli sarà assegnato a quel regno e a quella dignità di cui si è reso meritevole nella vita presente. Ognuno sarà in eterno consorte di colui al quale si sarà dato, come servo e seguace, nella vita presente. Così ci assicura la parola del Signore che dice: « Se uno si fa mio servo, venga al mio seguito. Dove sono io, là sarà anche il mio servo » [27]. Come vivendo nei vizi si entra nel regno del diavolo, così vivendo nelle virtù, nella purezza del cuore, nella scienza spirituale, si entra nel regno di Dio. E dove c’è il regno di Dio, là c’è infallibilmente la vita eterna; dove invece è il regno del diavolo, là ci sono — altrettanto infallibilmente — la morte e l’inferno. Chi si trova nel regno del diavolo non ha più neppure la possibilità di lodare il Signore: dice infatti il profeta: « Non saranno i morti a lodarvi, o Signore, né coloro che discendono nell’inferno (e quando dice « inferno » intende senza dubbio l’Inferno del peccato); ma noi che viviamo (non ai vizi o al mondo, ma a Dio), noi benediremo il Signore ora e in eterno » [28]. « Perché non v’è nella morte chi si ricordi di Dio: e nell’inferno (del peccato) chi gli renda lode » [29]. Nessuno mai — facesse anche mille volte professione di vita cristiana o monastica — può rendere gloria al Signore se pecca; nessuno può dire di ricordarsi di Dio, se fa ciò che Dio condanna; nessuno può chiamarsi sinceramente servo di Dio se ne disprezza i comandi con superba temerità. Colpita da questa morte era la vedova vivente in delizie, della quale ci parla l’Apostolo quando dice: « La vedova che si dà alla lussuria, pur vivendo, è morta » [30]. Ci sono tanti che vivono col corpo, eppure sono morti e giacciono nell’inferno senza poter lodare il Signore. Molti altri, al contrario, sono morti alla vita del corpo, ma la loro anima benedice e loda Dio, secondo quel detto: « Benedite il Signore, spiriti e anime dei giusti » [31]; oppure: « Ogni spirito lodi il Signore » [32]. Nell’Apocalisse, poi, non solo si dice che le anime dei giusti uccisi lodano il Signore, ma si afferma che esse intercedono presso di lui [33]. Con chiarezza ancor maggiore parla su questo argomento Gesù nel Vangelo, rivolgendosi ai sadducei: « Non avete letto quel che vi fu detto da Dio: Io sono il Dio di Abramo, il Dio d’Isacco, il Dio di Giacobbe? Non è il Dio dei morti ma dei vivi » [34]. Davanti a lui tutti vivono! E s. Paolo dice di quei Patriarchi: « E però Dio non si vergogna di esser chiamato il Dio loro, perché preparò ad essi una città » [35]. Anche la parabola evangelica di Lazzaro il mendicante e del ricco vestito di porpora, ci avverte che le anime separate dai corpi non restano inattive né prive di sentimenti. Dice infatti la parabola che Lazzaro meritò una dimora felicissima, cioè il seno di Abramo, mentre il ricco fu mandato a bruciare negli ardori intollerabili del fuoco eterno [36]. Se vogliamo considerare anche la parola rivolta da Gesù al buon ladrone: « Oggi sarai con me in paradiso » [37], qual altro senso le daremo se non questo: nelle anime perdurano le conoscenze anteriori, e in più esse hanno una sorte corrispondente ai loro meriti e alla loro vita precedente? Gesù infatti mai avrebbe fatto quella promessa al buon ladrone se quell’anima, dopo la separazione dal corpo, avesse dovuto rimanere priva di vita, o avesse dovuto dissolversi nel nulla. Non era il corpo, ma l’anima del buon ladrone, che doveva entrare in paradiso con Cristo. Bisogna stare attenti a respingere con tutte le forze un perverso modo di punteggiare le parole del Vangelo, un modo seguito da certi eretici. Non volendo ammettere che il Signore sia salito al cielo lo stesso giorno in cui discese agli inferi, essi leggono le parole dette al buon ladrone secondo questa punteggiatura: « Oggi ti dico in verità » e qui fanno punto. Poi aggiungono: « Tu sarai con me in paradiso ». Con questa maniera di leggere il Vangelo, non si dovrebbe considerare la promessa del Signore come destinata ad avverarsi subito, appena avvenuta la morte, ma come rimandata a dopo la resurrezione. Costoro però non capiscono ciò che — molto prima della resurrezione — Gesù disse ai giudei che lo credevano prigioniero dei ristretti limiti della carne e delle infermità del corpo: « Nessuno sale in cielo all’infuori di Colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’Uomo che è in cielo » [38]. Tutto ciò dimostra che le anime dei defunti non sono prive delle loro facoltà intellettuali, e continuano a provare sentimenti di speranza, di tristezza, di gioia, di timore: godono insomma un anticipo di ciò che è loro riservato dopo il giudizio universale. Non è dunque vero, come ritengono alcuni infedeli, che esse, all’uscir da questo mondo, si dissolvono nel nulla; vivono invece di una vita più alta e si applicano più intensamente a render gloria a Dio. Se ora vogliamo lasciare da parte le testimonianze della sacra Scrittura e ragionare un po’ sulla natura dell’anima secondo la debolezza della nostra intelligenza, non è vero che ci sembrerà sciocchezza, anzi vera pazzia, il solo supporre che la parte più preziosa dell’uomo, quella che a detta dell’Apostolo porta impressa l’immagine e la somiglianza di Dio [39], diventi insensibile appena avrà deposto il peso di quel corpo che tanto la grava? E può l’anima — principio ragionevole, sorgente di sensibilità per la materia inanimata e insensibile — perdere le sue facoltà spirituali perché ha deposto la carne? La buona logica fa concludere che l’anima nostra, liberata da questa carne che l’appesantisce, nonché perderle, possederà invece più pronte, più limpide, più affinate, le sue facoltà intellettuali. L’apostolo Paolo è tanto persuaso di questa verità da desiderare la separazione dalla carne per potersi più perfettamente unire a Dio : « Ho il desiderio di vedere sciolti i legami della carne e andarmene con Cristo. Questo è molto meglio, perché fino a quando alberghiamo nel corpo siamo, come pellegrini, lontani dal Signore » [40]. Perciò: « Stiamo fiduciosi e preferiamo staccarci dal corpo per incamminarci verso il Signore. E cerchiamo con ogni studio — sia che siamo usciti dal corpo, sia che vi rimaniamo — di piacere a lui » [41]. Così l’Apostolo proclama che la permanenza dell’anima nella carne somiglia ad un esilio lontano da Dio, ad una separazione da Cristo. Con maggior evidenza lo stesso Apostolo parla in altro luogo dello stato di vita intensissimo delle anime separate dal corpo: « Ma voi vi siete accostati al monte Sion, alla Gerusalemme celeste, alle miriadi di angeli, alla adunata e assemblea dei primogeniti iscritti nei cieli, a Dio giudice di tutti, e agli spiriti dei giusti che sono arrivati alla perfezione » [42]. Trattando ancora di questi spiriti beati, l’Apostolo dice: « I nostri padri secondo la carne, li avevamo castigatori, e pur li rispettavamo; non dovremo molto più sottoporci al Padre degli spiriti noi, per avere la vita? » [43]. XV – La contemplazione di Dio La contemplazione divina è da intendersi in più modi. Dio infatti non si conosce soltanto attraverso la visione della sua incomprensibile essenza — gioia, questa, ancora velata nella speranza e nella promessa — ma la magnificenza della creazione, la divina giustizia, la Provvidenza, manifestano Dio. Noi contempliamo Dio anche quando osserviamo con anima pura il modo da lui tenuto, di generazione in generazione, verso i suoi santi; quando ammiriamo, con cuore tremante, la potenza con la quale egli governa, tempera e regge tutto il creato. Quando consideriamo la sua scienza infinita, il suo occhio, al quale non possono nascondersi neppure i segreti del cuore; quando pensiamo che egli ha contato i granelli di sabbia che sono in riva al mare, e il numero delle onde; quando pensiamo, stupefatti, che tutte le gocce di pioggia, tutti i giorni e tutte le ore di cui son fatti i secoli, tutto ciò che fu e tutto ciò che sarà è presente alla sua conoscenza. Quando consideriamo — sopraffatti dall’ammirazione — la clemenza ineffabile che gli fa sopportare i delitti senza numero che ogni momento si commettono davanti al suo sguardo, senza che la sua longanimità venga mai meno; quando pensiamo alla vocazione con la quale ci ha chiamati; senza alcun nostro merito, ma per pura sua misericordia; quando guardiamo alle occasioni di salvezza che ci ha preparate al fin di adottarci come suoi figli… Egli — non dimentichiamolo — ha voluto che noi nascessimo in condizioni tali da poter godere fin dalla culla la sua grazia e la conoscenza della sua legge, e dopo aver trionfato in noi dell’Avversario, col solo consenso della nostra buona volontà, ci ricompensa col premio della felicità eterna. Quando infine pensiamo a Dio che intraprende l’opera della Incarnazione per la nostra salvezza, ed estende a tutti i popoli i prodigi dei suoi adorabili misteri: in tutte queste occasioni noi ci eleviamo alla contemplazione divina. Considerazioni sul tipo di quelle enumerate fin qui se ne possono avere in quantità quasi infinita: esse nascono nel nostro intimo in relazione diretta alla perfezione della nostra vita e alla purezza del nostro cuore. È però vero che nessun uomo potrebbe intrattenere continuamente simili considerazioni se lasciasse sopravvivere in sé qualche rimasuglio degli affetti carnali. Dice infatti il Signore: « Tu non potrai vedere il mio volto e continuare a vivere » [44]. S’intende, evidentemente, « vivere al mondo e agli affetti terreni ». XVI – Domanda riguardante la mobilità dei pensieri Germano — Come si spiega che i pensieri vani si insinuano in noi contro la nostra volontà, e persino a nostra insaputa? Essi inoltre hanno modi così sottili e nascosti che troviamo difficoltà non soltanto a cacciarli ma anche a riconoscerli. Può la nostra mente esser libera da questi pensieri e non esser costretta a sopportare illusioni di questo genere? XVII – Risposta: ciò che l’anima può e ciò che non può riguardo ai pensieri Mosè — È impossibile che l’anima non sia assalita dai pensieri, ma accettare o respingere quei pensieri, è possibile a chiunque lo voglia. La loro nascita non dipende totalmente da noi, dipende però da noi approvarli e accoglierli. Ho detto che la mente è necessariamente assalita dai pensieri; ma guardiamoci bene dal credere che tutto dipenda dal caso o dal suggerimento degli spiriti maligni, altrimenti non esisterebbe più il libero arbitrio e noi non avremmo più il dovere di correggerci. Io fermamente sostengo che dipende in gran parte da noi determinare la qualità dei nostri pensieri e stabilire se nel nostro cuore dovranno trovare accoglienza quelli santi e spirituali, oppure quelli terreni o carnali. La lettura assidua e la meditazione continua della sacra Scrittura, si pratica proprio per questo: per far sbocciare nella mente pensieri santi. Il canto continuato dei Salmi è destinato a far nascere in noi la compunzione; le veglie e i digiuni tendono ad ottenere che l’anima nostra perda il gusto delle cose terrene e voglia contemplare soltanto quelle celesti. Perciò, se abbandoniamo queste pratiche, a causa di un cedimento alla negligenza, è inevitabile che l’anima, gravata dalla pesantezza dei vizi, prima inclini verso la parte carnale, poi vi cada. XVIII – L’anima paragonata a una macina da mulino L’esercizio che si richiede al nostro cuore si potrebbe convenientemente paragonare al lavoro che compiono le macine di un mulino, mosse in giro dall’acqua che precipita da un canale. Le macine non possono assolutamente cessar di girare, perché son trasportate dalla spinta delle acque; resta però in facoltà del mugnaio far macinare grano, orzo, o loglio. Una cosa è fuori dubbio: potrà esser macinato soltanto ciò che il mugnaio avrà mandato alle macine. Così per l’anima nostra. Nella vita presente i torrenti delle tentazioni le cadono sopra da ogni parte e la muovono e la sollecitano con i pensieri più svariati; è però rilasciato al suo zelo e alla sua diligenza stabilire quali di quei pensieri dovranno essere ammessi e quali respinti. Se — come ho detto — ricorriamo alla meditazione continua della sacra Scrittura, ad elevare la nostra mente al pensiero delle realtà soprannaturali, al desiderio della perfezione e alla speranza della felicità eterna, i nostri pensieri saranno certamente spirituali e faranno abitare l’anima in quelle stesse altezze alle quali si elevò nella meditazione. Se invece — dopo aver ceduto alla pigrizia e alla negligenza — ci lasceremo trasportare da pensieri colpevoli, o prendere dalle conversazioni inutili, oppure ci faremo guidare da preoccupazioni mondane, da vane sollecitudini, nascerà in noi una specie di zizzania. Per l’anima nostra sarà molto dannoso macinare questo malseme, tuttavia, anche in questo triste caso avvereremo la parola del Signore che dice: « Dove sarà il tesoro delle nostre opere e delle nostre intenzioni, là necessariamente si troverà il nostro cuore » [45]. XIX – I tre principi dei nostri pensieri Dobbiamo innanzi tutto ricordare che tre sono le fonti dalle quali traggono origine i nostri pensieri: Dio, il demonio, noi stessi. I nostri pensieri vengono da Dio quando Egli si degna visitarci con una illuminazione dello Spirito Santo e innalzarci a un più sublime modo di vivere. Sono altresì da Dio i pensieri che ci recano una compunzione salutare per avere noi sciupate certe occasioni di progresso, o per esser caduti in qualche colpa a causa della nostra accidia. I nostri pensieri vengono da Dio anche quando ci scoprono i misteri celesti e richiamano i nostri propositi ad azioni e desideri migliori, come fu nel caso di Assuero [46]. Castigato da Dio, quel re si sentì spinto a scorrere i libri nei quali erano narrate le sue gesta; quella lettura gli richiamò alla mente i servizi resigli da Mardocheo. Ricordandosi che Mardocheo non aveva ricevuto alcuna ricompensa, volle il re che costui ricevesse onori supremi e, in vista dei suoi meriti, revocò il decreto di morte promulgato contro gli ebrei. Ai pensieri che vengono da Dio ci richiama il Salmista quando dice: « Ascolterò quel che parla in me il Signore Dio » [47]. C’è poi un profeta che ha questa espressione: « L’angelo che parla in me dice… » [48]. Lo stesso concetto ci richiama Gesù nel Vangelo quando promette di venire in noi insieme col Padre e di stabilire in noi la sua dimora [49]. Egli dice: « Non siete voi che parlate, ma è lo Spirito del Padre che parla in voi » [50] e s. Paolo ha scritto: « Voi cercate una prova per convincervi che Cristo parla in me » [51]. Nascono dal diavolo quei pensieri con i quali egli cerca di farci cadere; e si serve a tale scopo o delle attrattive del vizio, o d’insidie nascoste. Talvolta ci presenta — con astuzia sottilissima — il male come bene, e trasforma se stesso in angelo della luce. Di pensieri suggeriti dal diavolo abbiamo un esempio nel Vangelo di s. Giovanni: « Terminata la cena, il diavolo aveva già messo nel cuore di Giuda Iscariota, il proposito di tradire il Signore » [52]. E ancora: « Dopo quel boccone, Satana entrò in lui » [53]. Anche s. Pietro esprime lo stesso concetto, quando, nel rimprovero mosso ad Anania, dice: « Perché Satana ha tentato il tuo cuore, per farti mentire allo Spirito Santo? » [54]. Al caso nostro fa pure la parola che leggiamo nel Vangelo, ma che già molto prima era stata scritta nell’Ecclesiaste: « Se l’animo del potente si leva contro di te, non abbandonare il tuo posto » [55]. Aggiungiamo anche ciò che dice a Dio — contro Acab — lo spirito immondo nel terzo libro dei Re: « Uscirò e sarò spirito di menzogna sulla bocca di tutti i suoi profeti » [56]. I nostri pensieri vengono da noi stessi ogni volta che ricordiamo — usando le nostre naturali facoltà — ciò che facciamo, facemmo, e udimmo. A questo proposito il beato David dice: « Ripenso ai giorni antichi, e gli anni del passato ho in mente. E vado riflettendo la notte in cuor mio, e medito e scruto il mio spirito » [57]. E altrove: « Il Signore sa che i pensieri degli uomini sono vani » [58]. E ancora: « I pensieri dei giusti sono l’equità » [59]. Nel Vangelo, infine, il Signore dice ai farisei: « Perché pensate male nei vostri cuori? » [60]. XX – Modo di distinguere i pensieri, preso dall’arte dell’abile banchiere Dobbiamo sempre fare attenzione alla fonte da cui derivano i nostri pensieri, per applicare a tutti quelli che ci nascono in mente un sagace discernimento. Dobbiamo innanzi tutto ricercare l’origine, la causa, l’autore, per decidere — secondo il merito di chi ce li suggerisce — il trattamento da usare. Così diventeremo, come ci consiglia nostro Signore, abili banchieri [61]. La scienza e la perizia dei banchieri si mostrano nel distinguere l’oro purissimo — detto volgarmente obrizio — da altro oro che non sia stato sufficientemente depurato nel crogiuolo. Se un vile pezzo di metallo si ammanta del colore dell’oro e imita una moneta preziosa, l’occhio espertissimo dei banchieri non si lascia trarre in inganno. Costoro non soltanto sanno riconoscere le monete dal volto dei monarchi in esse impresso, ma, dotati come sono di penetrantissima oculatezza, arrivano a riconoscere anche le monete che, pur essendo marcate dall’impronta del legittimo sovrano, sono tuttavia una contraffazione. Talvolta, poi, per meglio assicurarsi che nulla manca al giusto peso di una moneta, i banchieri consultano anche la bilancia. Queste stesse premure noi dobbiamo averle nella vita spirituale, come ci dimostra il Vangelo quando propone il banchiere a nostro modello. Ecco dunque il primo dovere: qualunque pensiero sia penetrato nel nostro cuore, qualunque regola di vita ci sia stata suggerita, dobbiamo domandarci se venga dal fuoco puro e purificante dello Spirito Santo, o dalla superstizione giudaica, o dalla orgogliosa filosofia del mondo. Dobbiamo anche osservare se la pietà che certi pensieri mostrano è reale o apparente. E potremo ben compiere questo dovere di selezione se metteremo in pratica il consiglio dell’Apostolo: « Non vogliate credere ad ogni spirito, ma provate gli spiriti per accertarvi se son da Dio » [62]. In un tranello di tal genere sono caduti coloro che, dopo aver fatto professione di vita solitaria, si son lasciati sedurre dallo splendore di un linguaggio elegante e dalle massime dei filosofi, le quali — a prima vista — apparivano pie e conformi alla religione. Sì, quelle massime avevano certamente il bagliore dell’oro, ma era un bagliore ingannevole; infatti coloro che si lasciarono adescare dal loro aspetto si trovarono per sempre miseri e nudi, come gente ingannata da una falsa moneta. Proprio da quelle massime molti solitari furono risospinti nello strepito del mondo, o furono attratti verso l’errore degli eretici, oppure a pensieri d’orgoglio. Una sorte consimile era toccata ad Acoz, secondo quanto leggiamo nel libro di Giosuè. Egli desiderò ardentemente una lamina d’oro proveniente dall’accampamento dei Filistei, e la rubò; ma questo gesto gli meritò di esser colpito d’anatema e d’esser condannato alla morte eterna [63]. In secondo luogo bisognerà guardare di non permettere che una errata interpretazione della sacra Scrittura — simile a marchio falso impresso in oro genuino — ci tragga in inganno. In tal senso, quel maestro d’astuzia che è il demonio, tentò d’ingannare anche il Signore, come se avesse avuto a che fare con un semplice uomo. Certe parole del libro sacro, che si riferiscono genericamente ai giusti, furono alterate dal maligno con interpretazione malevola e applicate principalmente a colui che, unico, non ha bisogno della custodia degli angeli. Disse infatti Satana: « Se tu sei figlio di Dio, gettati di qui, perché sta scritto: Egli ha dato per te ordine ai suoi angeli, i quali ti sosterranno nelle loro mani, affinché il tuo piede non urti contro la pietra » [64]. Così dicendo il mentitore adulterava maliziosamente le parole della sacra Scrittura, che stravolgeva a un senso dannoso e contrario al vero, allo scopo di nascondere il suo volto odioso di tiranno, sotto le fallaci apparenze dell’oro. Altre volte Satana cerca d’ingannarci con monete falsificate: cerca di farci compiere qualche opera di pietà che — per non essere approvata dalla consuetudine — conduce al vizio, sotto apparenza di virtù. Sono esempi di questo genere d’inganno: i digiuni senza regola e fuori tempo, le veglie eccessive, le preghiere disordinate, le letture fuori posto: tutte cose di cui il demonio si serve per farci fare una brutta fine. Ci suggerisce ancora di intrometterci negli affari, di far visite per motivi di carità, ma il fine vero è quello di tirarci fuori dalla santa clausura del monastero e dal segreto di una pace amica. Talvolta ci spinge a occuparci di donne consacrate a Dio e prive d’appoggio; così distoglie i poveri monaci dal loro vero scopo, dopo averli avvolti in una rete inestricabile di preoccupazioni pericolose. Può anche spingerci a desiderare le occupazioni — peraltro sante — che son proprie dei sacerdoti; e ciò fa sotto il pretesto di giovare a molte anime e di conquistarle a Dio. Ma il fine vero è di strapparci, con questo mezzo, all’umiltà e all’austerità della nostra vita. Tutte queste opere, pur essendo contrarie alla nostra salute, al nostro sistema di vita, riescono facilmente a ingannare i semplici e gl’incauti, dato che si ammantano di un certo velo di pietà religiosa. A guisa di monete che imitano l’immagine del legittimo sovrano, quelle opere — a prima vista — sembrano ottime, ma non vengono dal palazzo della zecca e dai coniatori approvati, vale a dire: non vengono dai Padri approvati e cattolici. Sono perciò monete fabbricate segretamente, con la frode dei demoni, ed entrano in circolazione con grande danno degli imprudenti e degli ignoranti. Ammettiamo pure che le opere possano avere un aspetto di utilità: tuttavia, se contrastano con la nostra professione e mettono in pericolo l’essenza stessa della vita monastica, dobbiamo troncarle e gettarle lontano da noi, come si farebbe con un membro del nostro corpo (per esempio una mano o un piede) che fosse diventato causa d’infezione mortale per tutte le altre membra. È preferibile avere un membro di meno (nel caso nostro rinunciare a compiere un’opera di pietà) ma restar sani nel resto ed entrar deboli nel regno dei cieli, piuttosto che cadere in qualche scandalo per aver voluto fare tutto. Da una caduta ci potrebbe derivare una mala abitudine, la mala abitudine potrebbe staccarci dalla regola di austerità e dai propositi abbracciati; alla fine — incapaci ormai di riprenderci — noi potremmo vedere tutti i nostri passati meriti e tutte le opere della nostra vita, diventar preda del fuoco d’inferno [65]. Di simili illusioni parla elegantemente anche il libro dei Proverbi: « V’è una strada che pare all’uomo diritta, ma i suoi estremi conducono alla morte » [66]. E ancora: « Il maligno nuoce quando si unisce al giusto », che vuol dire: il diavolo inganna quando si ammanta di apparenze sante. « Egli odia la parola che ammonisce » [67], odia cioè il senso della discrezione che deriva dalle parole e dagli ammonimenti degli anziani. XXI – Illusione in cui cadde l’abate Giovanni In questo modo fu ingannato, non molto tempo fa, l’abate Giovanni, che abita a Lieo. Con un corpo già malandato e cadente, costui volle prolungare il digiuno per due giorni di seguito, ma il terzo giorno, mentre si accingeva a prendere il cibo consueto, gli si presentò il diavolo, sotto le apparenze di un etiope mostruoso, e, gettandosi ai suoi piedi, disse: « Perdonami, perché sono stato io a farti fare questo digiuno ». Allora quel buon uomo, già tanto progredito nella via della perfezione, capì che il diavolo lo aveva ingannato servendosi di una astinenza fuori posto: una astinenza che aveva portato fatica inutile al corpo già esausto e danno spirituale all’anima. Egli era stato tratto in inganno con una falsa moneta: aveva onorato in essa l’immagine del vero re, ma non aveva osservato se il conio fosse autentico. Dobbiamo ora parlare dell’ultima operazione di un abile banchiere, che consiste, come abbiamo già detto, nel verificare il peso. Ecco come si deve procedere. Se ci viene l’idea di fare qualcosa, bisogna prima pensarci ponderatamente, poi mettere quell’idea sulla bilancia del nostro cuore e soppesarla con rigorosa esattezza. Vedremo allora se il nostro proposito è conforme alla comune onestà, se è di giusto peso in relazione al santo timor di Dio, se è puro nel sentimento che lo ispira. Vedremo dall’altro lato se lo fa meschino una ostentazione umana, o il desiderio di affettare novità, o se la vanagloria non gli tolga il giusto peso. La nostra « pesa » si farà prendendo come regola una bilancia verificata e approvata; vale a dire: noi confronteremo i nostri progetti con la vita e gl’insegnamenti dei Profeti e degli Apostoli. Se nel confronto i nostri progetti si riveleranno integri, puri e di buon peso, li terremo; se invece appariranno difettosi, dannosi, lontani dal giusto peso, li rifiuteremo con assoluta prontezza. XXII – Le quattro specie del discernimento Quattro forme di discernimento sono per noi necessarie. Prima si tratta di giudicare la materia e sapere se è oro vero o falso. Poi dobbiamo rifiutare come monete false i pensieri che simulano apparenze di pietà; quei pensieri portano certamente l’immagine del re, ma non sono moneta di conio autentico. Dovremo in terzo luogo rifiutare quelle monete che portano impresso — sull’oro prezioso delle sante Scritture — un senso eretico e falso: in questo caso non si ha più l’effige del re legittimo, ma quella dell’usurpatore. Infine dovremo rifiutare come monete leggere, dannose, inferiori al peso, i pensieri intaccati dalla ruggine della vanità, sprovvisti del peso e valore richiesto, perché non conformi alle regole degli anziani. In tal modo noi eviteremo il pericolo dal quale ci mette in guardia il Signore, e non perderemo né il merito né la ricompensa delle nostre fatiche: « Non accumulate tesori sulla terra, ove la ruggine e il tarlo li consumano, e dove i ladri li dissotterrano e li rubano » [68]. Tutto ciò che facciamo per acquistar gloria davanti agli uomini è — secondo la parola del Signore — un tesoro accumulato sulla terra. È un tesoro nascosto che i demoni troveranno, che la ruggine della vanagloria roderà, che le tignole della superbia divoreranno, senza che apporti qualche utilità a colui che lo ha sotterrato. Dobbiamo perciò scrutare le profondità del nostro cuore e osservare attentamente le orme dei pensieri che vi entrano, perché non avvenga che qualche mostro spirituale — leone o dragone che sia — lasci in noi i segni funesti del suo passaggio. Se non veglieremo sopra i nostri pensieri, le vie del nostro santuario interiore saranno percorse da mostri d’ogni specie. Se invece lavoreremo, ogni ora e ogni momento, il campo del nostro cuore con l’aratro evangelico, vale a dire col ricordo continuo della croce del Signore, potremo distruggere il covo delle bestie feroci e i nascondigli dei serpenti velenosi. XXIII – Il discorso del maestro di spirito risponde al merito di chi lo ascolta Il vecchio abate, vedendoci incantati al suo dire ed accesi di un insaziabile ardore, vinto d’ammirazione dinanzi al nostro desiderio, s’interruppe un poco. Poi riprese: la vostra attenzione, cari figlioli, mi ha spinto a parlarvi così a lungo; vi assicuro che un fuoco misterioso dà alla mia conferenza un fervore insolito proprio a causa del vostro desiderio. Ma per meglio convincermi che avete sete di conoscere la scienza della perfezione, voglio ancora brevemente intrattenervi sull’eccellenza e la bellezza della discrezione, la quale tiene il posto di comando fra tutte le virtù. Voglio dimostrarvi la sua preziosità e utilità, non solo con esempi di quotidiana esperienza, ma anche col ripetervi le antiche sentenze dei nostri Padri. Ora mi viene in mente che molte volte, altri visitatori mi hanno chiesto con lacrime e gemiti di trattare questo argomento, ma io non sono mai stato capace di farlo: mi mancavano le idee e anche le parole. Così mi trovavo costretto a rimandare quei visitatori senza aver detto niente che li consolasse un poco. Ora però — da quanto provo in vostra presenza — capisco che la grazia del Signore ispira colui che parla, secondo il desiderio e il merito di chi lo ascolta. Ma questa breve parte della notte che ancora ci resta, non consentirebbe di portare a termine il mio discorso; sarà dunque meglio concedere questo tempo al riposo, molto più che il corpo chiede quel che non gli è dovuto, quando gli si rifiuta quel poco a cui ha diritto. Noi rimanderemo a domani, o alla notte prossima, l’esame e l’esposizione completa del nostro argomento. È giusto infatti che il maestro desideroso d’insegnare la discrezione dia prova della sua sapienza incominciando a praticare la virtù che vuole insegnare. Se non fa così, egli si mette a trattare di una virtù, che è madre della misura e dell’equilibrio, standosene come immerso nel vizio contrario. E ciò non va bene: sarebbe un distruggere con i fatti quel che si esalta con le parole. La virtù della discrezione, della quale con l’aiuto di Dio intendiamo continuare lo studio, ci assista fin d’ora e non ci permetta di oltrepassare i limiti del tempo e del discorso, mentre parliamo di lei e del suo primo frutto che è il senso della misura. A questo punto il venerabile Mosè pose fine alla sua conferenza, esortando noi — avidi di ascoltarlo e quasi pendenti dalle sue labbra — a gustare un po’ di sonno. C’invitò a distenderci sulle stesse stuoie sulle quali stavamo seduti e ci dette per guanciali gli embrìmi, che sono fatti con grossi papiri raccolti in fasci lunghi e sottili, legati poi a intervalli di un piede e mezzo. Gli embrìmi formano sedili bassissimi di cui si servono i monaci quando vanno alla refezione; messi anche sotto la testa di chi vuol dormire, fanno un guanciale non troppo duro e abbastanza comodo. Sono insomma mirabilmente adatti ai vari usi monastici e hanno il vantaggio di non chiedere né fatica, né spesa, perché si fanno con papiro che cresce dappertutto in riva al Nilo. Sono anche facili a trasportarsi, data la loro leggerezza. Così — dietro il consiglio del vecchio abate — ci disponemmo a gustare un po’ di riposo. Non desideravamo però che il sonno venisse, tanto eravamo infiammati della conferenza ascoltata ed ansiosi di quella che ci era stata promessa. [1] D’ora in avanti Cassiano distinguerà frequentemente tra «fine » e « scopo » della vita monastica. Per noi quei due termini sono diventati sinonimi, ma per gli antichi non era così. Il « fine » rappresentava il punto ultimo a cui si voleva arrivare, lo « scopo » era un passaggio obbligato per giungere al fine. La parola « scopo » deriva dal greco e vuol dire « bersaglio »: in questo senso la usa spesso Cassiano. Per conoscere quale differenza egli trovi tra i due termini, gioverà fare attenzione all’esempio dell’arciere che colpisce i segni dipinti sopra uno scudo. Quando la freccia è stata centrata sopra un determinato segno, l’arciere riceve il premio corrispondente. Così è nella vita monastica. Il monaco fa centro sopra una virtù (= scopo) e riceve il premio corrispondente (= fine). [2] Rom. 6, 22. [3] Fil. 3, 13-14. [4] 1 Cor 13,3 [5] Lc. 10, 40. [6] Lc. 10, 41-42. [7] Mt. 25, 34-35. [8] Mt. 10, 42. [9] Gal. 5, 17. [10] 1 Cor. 15, 53. [11] 1 Cor. 15, 44. [12] 1 Tim. 4, 8. [13] Mt. 5, 8. [14] 1 Cor. 13, 8 ss. [15] Lc. 17, 20-21. [16] Rom. 14, 17. [17] Is. 65, 17-18. [18] Is. 51, 3; 66, 23 [19] Is. 35, 10. [20] Is. 60, 17-20. [21] Rom. 14, 17. [22] Gv. 16, 20. [23] Lc. 6, 25. [24] Lc. 19, 19. [25] Mt. 19, 28. [26] 1 Cor. 15, 28. [27] Gv. 12, 26. [28] Sal. 113, 17-18. [29] Sal. 6, 6. [30] 1 Tim. 5, 6. [31] Dan. 3, 86. [32]Sal. 150, 6. [33] Apoc. 6, 9-10. [34] Mt. 22, 31-32. [35] Ebr. 11, 16. [36] Lc. 16, 18 ss. [37] Lc. 23, 43. [38] Gv. 3, 13. [39] 1 Cor. 11, 7; Col. 3, 10. [40] Fil. 1, 23; 1 Cor. 5, 6. [41] 2 Cor. 5, 8-9. [42] Ebr. 12, 22-23. [43] Ebr. 12, 9. [44] Es. 33, 20. [45] Mt. 6, 21. [46] Est. 6, 1 ss. [47]Sal. 84, 9. [48] Zac. 1, 14. [49] Gv. 14, 23. [50] Mt. 10, 20. [51] 2 Cor. 13, 3 [52] Gv. 13, 2. [53] Gv. 13, 27. [54] At. 5, 3. [55] Ec. 10, 4; Alcuni manoscritti non hanno le parole « leggiamo nel Vangelo », infatti nessun luogo del Vangelo riporta questa sentenza dell’Ecclesiaste. Si è tentato da qualche parte di spiegare questo passo dicendo che si tratta di una citazione a senso e si è rimandato il lettore a san Matteo 5, 25: « Mettiti d’accordo col tuo avversario mentre te ne vai con lui per via ». La spiegazione non pare, però, convincente. Oltre a ciò va pure notato che la stessa citazione dell’Ecclesiaste appare non pertinente all’argomento qui trattato. [56] III Re 22, 22. [57] Sal. 76, 6-7. [58] Sal. 93, 11. [59] Prov. 12, 5. [60] Mt. 9, 4. [61] II termine corrispondente a « banchiere », nell’originale è « trapezita » Si tratta di un vocabolo greco che acquistò diritto di cittadinanza nella lingua latina al tempo di Plinio. Anzi fu proprio Plinio a dare al termine « trapezita » il significato tanto caro a Cassiano di abile discernitore della moneta falsa da quella vera. Nello stesso significato usato da Plinio e da Cassiano, « trapezita » si ritrova presso Origene (1. 19 in Iob.), Clemente Alessandrino (Stromata, 1 in fine), san Girolamo (in Epist. ad Ebr. c. 4), sant’Ambrogio (in Lucam c. 1), nelle « Costituzioni Apostoliche » (1. 2, c. 21). Quel che più meraviglia, nel testo di Cassiano, è sentire che l’esempio del « trapelata » sarebbe stato proposto dal Vangelo. Nessuno dei quattro Vangeli contiene un accenno del genere, perciò si può ritenere che il nostro autore ha citato da un apocrifo; precisamente il Vangelo « Secundum Hebraeos ». Probabilmente Cassiano era convinto di valersi d’un Vangelo autentico, ingannato dal fatto che autori antichissimi, come Ignazio martire, Clemente romano, e Origene, avevano introdotto nei loro scritti qualche passo di quello stesso Vangelo (cfr. san Girolamo in « Catalogo degli Scrittori Ecclesiastici »). C’è di più: lo stesso san Girolamo, pur affermando che si trattava di un apocrifo, citò il « Vangelo secondo gli Ebrei » nel commento al c. 40 d’Isaia (n. d. t.). [62] 1 Gv. 4, 1. [63] Gios. 7. Qui Cassiano s’inganna: il libro di Giosuè parla di Acan e non di Acoz. Oltre a ciò va pure rilevato che il testo sacro accenna a una pena di morte, ma non di morte eterna, che è cosa assai diversa (n. d. t.). [64] Mt. 4, 6; Sal. 90, 11-12. [65] Mt. 18, 8. [66] Prov. 16, 25. [67] Prov. 11, 15 (LXX). [68] Mt. 6, 19. CONFERENZA DELL’ABATE MOSÈ LA DISCREZIONE Estratto da “Giovanni Cassiano – Conferenze spirituali” – Edizioni Paoline 1965 Indice dei Capitoli I – Esordio dell’abate Mosè sulla grazia della discrezione Dopo aver concesso al sonno le prime ore del mattino, finalmente – col cuore tumultuante di gioia – vedemmo il sole tornare a splendere, e subito chiedemmo di riprendere la conferenza interrotta. L’abate Mosè incominciò: quanto desiderio, quale struggente fiamma vi divora? Io dubito che i pochi istanti sottratti alla nostra conversazione spirituale e concessi al sonno vi abbiano veramente giovato. Osservando in voi tanto fervore, io mi sento confuso. Quanto più è grande il vostro desiderio, tanto più dovrà esser grande il mio impegno nel soddisfarlo, secondo quella parola della Scrittura che dice: ” Quando siedi commensale di un gran signore, sta attento a ciò che ti vien messo dinanzi, e quando allunghi la mano, pensa che anche tu dovrai imbandire un banchetto somigliante ” (Pr 23, 1-2). Incominciamo dunque a parlare del valore della discrezione, argomento che già avevamo pregustato la scorsa notte, quando mettemmo fine alla nostra conferenza. Innanzi tutto sarà bene sottolineare l’eccellenza di questa virtù, riferendo le sentenze dei Padri a suo riguardo. Allorché avremo conosciuto il pensiero dei Padri, porterò esempi riguardanti le miserevoli cadute di alcuni monaci; cadute che ebbero come unica causa la mancanza di discrezione. Infine dimostrerò – se ne sarò capace – i benefici e i vantaggi di questa virtù, affinché – persuasi della sua eccellenza e bontà – possiamo imparare con più gioia il modo di raggiungerla e perfezionarci in essa. Non si tratta certamente di una virtù da poco, che possa essere acquistata con la naturale industria dell’uomo: noi non potremmo mai ottenerla se non ci fosse elargita dalla divina bontà. S. Paolo apostolo la enumera fra i doni più nobili dello Spirito Santo: ecco le sue parole: ” A uno, per via dello Spirito, fu data la parola della sapienza, a un altro la parola della scienza, secondo lo stesso Spirito. A un altro la fede nel medesimo Spirito; a un altro ancora il dono delle guarigioni nell’unico Spirito ” (1 Cor 12, 8-9); e poco dopo: ” A un altro il discernimento ( = discrezione) degli spiriti ” (1 Cor 12, 10). Terminato l’elenco dei carismi spirituali, l’apostolo aggiunge: ” Or bene, tutti questi effetti li produce l’unico e medesimo Spirito che distribuisce a ciascuno secondo che vuole ” (1 Cor 12, 11). Voi lo vedete bene, il dono della discrezione non è cosa terrestre e da poco, ma è un premio grandissimo della grazia divina. Se il monaco non si sforza di ottenerlo e non impara a bene usarlo, per saper distinguere con sicurezza gl’impulsi da cui è pervaso e sollecitato, somiglierà ad uno che va di notte, fra le tenebre più fitte, col rischio di cadere in fosse e precipizi, e anche di smarrirsi là dove la via è piana e diritta. II – I vantaggi che il monaco può trovare nella sola discrezione, e discorso del beato Antonio su tale argomento Un ricordo della fanciullezza mi ripresenta alla mente molti monaci anziani venuti un giorno a trovare Antonio nel deserto della Tebaide. La conversazione di quegli uomini di Dio si prolungò dal tramonto del sole all’aurora del giorno seguente, e rammento che il tema della discrezione occupò quasi tutta la nottata. Si investigò a lungo quale sia la virtù o l’osservanza che, oltre a custodire il monaco immune dai lacci e dagli inganni del demonio, possa anche farlo progredire sulla via della perfezione. Ciascuno diceva il suo pensiero secondo il proprio modo di vedere. Alcuni dicevano che a produrre si mirabili effetti era l’amore per le veglie e i digiuni, perché l’anima – spiritualizzata da quelle pratiche e fatta padrona d’un cuore e d’una carne pura – più facilmente si unisce a Dio. Altri dicevano che era la rinuncia totale, perché se l’anima riesce a spogliarsi di tutto e a liberarsi da ogni attacco o legame alla terra, può volare più spedita verso Dio. Altri ancora dicevano che era l’anacoresi, cioè l’abbandono del mondo e il ritiro nel deserto, dove la conversazione con Dio diventa più familiare e l’unione con lui più intima. Non mancò un gruppo secondo il quale la virtù prima del monaco sarebbe stata la pratica della carità, perché il Signore, nel Vangelo, ha promesso di dare il regno dei cieli a coloro che esercitano questa virtù: ” Venite, benedetti dal Padre mio, entrate in possesso del regno che vi è stato preparato fin dall’origine del mondo. Perché ebbi fame e mi deste da mangiare, ebbi sete e mi deste da bere… ” (Mt 25, 34-35). Chi dava a una virtù, chi ad un’altra, il merito d’introdurre l’anima all’unione con Dio. Era già passata gran parte della notte, quando prese a parlare Antonio. ” Tutte le pratiche da voi enumerate – egli disse – sono utili all’anima assetata di Dio e desiderosa di giungere a lui, ma le tristi esperienze e le lacrimevoli cadute di molti solitari ci sconsigliano di assegnare la palma a qualcuna di codeste virtù. Noi abbiamo visto molti monaci applicarsi ai digiuni e alle veglie più rigorose, acquistarsi grande ammirazione per il loro amore alla solitudine, dar prova di distacco così completo da non serbare per sé né il pane per un sol giorno, né una sola moneta; abbiamo visto monaci caritatevoli esercitare con somma devozione le opere di misericordia, eppure, costoro si sono miseramente illusi! Non hanno saputo portare a buon termine l’opera intrapresa ed hanno posto fine al loro ammirevole fervore, alla loro vita lodevolissima, con una caduta abominevole. Perciò noi potremo riconoscere la virtù più atta a condurci a Dio, se cercheremo la causa delle loro illusioni e delle loro cadute. Le opere di quelle virtù che voi avete enumerate, sovrabbondavano in quei monaci, ma la mancanza della discrezione fece sì che quelle opere non durassero fino in fondo. Non si trova altra causa, per spiegare la loro caduta, all’infuori di questa: essi non ebbero la possibilità di formarsi alla scuola degli anziani e non acquistarono la virtù della discrezione. E’ la discrezione che, tenendosi lontana dai due eccessi contrari, insegna al monaco a camminare sempre sulla via regia, e non gli permette di deviare a destra (verso una virtù scioccamente presuntuosa, o un fervore esagerato che passerebbe i confini della buona misura), né a sinistra (verso il rilassamento e il vizio, o verso la tiepidezza dello spirito, che si annida dietro il pretesto di ben governare il corpo). Gesù pensava alla discrezione quando nel Vangelo parlava dell’occhio che è lampada del corpo: ” La lucerna del tuo corpo è il tuo occhio: se il tuo occhio è sano, tutto il tuo corpo sarà illuminato; ma se il tuo occhio è torbido, tutto il tuo corpo sarà nelle tenebre ” (Mt 6, 22-23). La discrezione, infatti, esamina atti e pensieri dell’uomo, e sceglie oculatamente quelli che sono da ammettere. Se quest’occhio interiore è cattivo, o – per parlare fuori di metafora – se siamo privi di scienza e di giudizio sicuro, se ci lasciamo trascinare dall’errore e dalla presunzione, tutto il nostro corpo sarà tenebroso, perché la luce dell’intelligenza e la nostra stessa attività si saranno oscurate. Il vizio – evidentemente – acceca, e la passione è madre di tenebre. ” Se la luce che è in voi diventa tenebra – dice ancora il Signore – quanto grandi saranno le tenebre! ” (Mt 6, 23). Nessuno dubita che, se il nostro giudizio è falso e immerso nelle tenebre dell’ignoranza, anche i nostri pensieri e le nostre opere – che da quel giudizio derivano come da naturale sorgente – saranno avvolte nelle tenebre del peccato. III – Errore in cui caddero Saul e Acab per non aver avuto conoscenza della discrezione Saul, che Dio scelse come primo re d’Israele, per non aver posseduto l’occhio della discrezione, diventò tenebroso in tutto il corpo, e alla fine fu sbalzato dal trono. La sua ” luce “, diventata sorgente di tenebre e d’errore, lo rovinò. Egli pensò che Dio avrebbe gradito di più i suoi sacrifici che l’obbedienza al comando di Samuele, e trovò modo di offendere Dio con un gesto che mirava a rendergli propizia la divina maestà (1 Sam 15). La stessa mancanza di discrezione rovinò Acab, re d’Israele. Dopo la bella vittoria che gli era stata concessa per bontà del Signore, egli pensò che la misericordia verso i vinti sarebbe stata preferibile all’esecuzione letterale di un comando divino, che ai suoi occhi appariva crudele. Questo pensiero lo indusse a porre fine alla vittoria e allo spargimento di sangue con un atto di clemenza. Ma una simile pietà senza discrezione lo fece tenebroso in tutto il corpo e lo condannò a morte irrevocabile (1 Re 20). IV – Testimonianze della sacra Scrittura sul valore della discrezione Questa è la virtù della discrezione, che, dopo essere stata detta ” lucerna ” del corpo, viene chiamata da S. Paolo anche ” sole “, là dove è detto: ” Il sole non tramonti sulla vostra collera ” (Ef 4, 26). La stessa virtù è chiamata nella sacra Scrittura ” timone ” della nostra vita: ” Coloro che non hanno discrezione cadono come foglie ” (Pr 11, 14). La discrezione è pur giustamente assimilata a quel dono del consiglio senza il quale la Scrittura ci proibisce di fare le cose anche piccolissime; dobbiamo infatti esser guidati dal consiglio anche quando beviamo quel vino spirituale che allieta il cuore dell’uomo (Sal 103, 15), secondo la sentenza sapienziale: ” Farai tutto con consiglio; col consiglio bevi anche il vino ” (Pr 31,3). E ancora: ” Città senza mura e senza difesa è l’uomo che agisce senza consiglio ” (Pr 25,28). Quest’ultimo passo del libro Sacro, con la figura della città incustodita e indifesa, dice assai chiaramente quanto sia nociva al monaco la mancanza di discrezione. In questa virtù sono racchiusi anche l’intelletto e il giudizio, senza i quali non ci è possibile né costruire il nostro edificio interiore, né ammassare le ricchezze spirituali, secondo una parola divina che suona così: ” Una casa si edifica con la sapienza e le continue ricchezze preziose e gustose ” (Pr 24, 3-4). Dice S. Paolo che la discrezione è il cibo sostanzioso fatto per uomini completi e robusti. ” Il cibo solido è fatto per uomini che hanno raggiunto il perfetto sviluppo, per coloro che hanno esercitato l’occhio a distinguere il bene dal male ” (Ebr 5, 14). E’ tanto evidente la sua utilità che essa viene paragonata alla parola di Dio e le vengono attribuite le prerogative di quella. La discrezione – a somiglianza della parola di Dio – è ” viva, efficace, più tagliente di una spada a due tagli, così tagliente che giunge a separare l’anima e lo spirito, le giunture e il midollo: essa separa i pensieri e i sentimenti del cuore ” (Ebr 4, 12). Tutti questi testi ci convincono che senza la grazia della discrezione non ci può essere alcuna virtù completa e duratura. Il beato Antonio e gli altri monaci andati a visitarlo, convennero all’unanimità che è la virtù della discrezione quella che conduce l’uomo, con passo fermo e impavido, fino a Dio. E’ ancora la discrezione a conservare sempre intatte quelle stesse virtù di cui gli altri solitari avevano parlato prima che Antonio prendesse la parola. Per mezzo di essa, infatti, il monaco progredisce con poca fatica verso le vette della perfezione; alle quali vette – senza l’aiuto della discrezione – mai sarebbero arrivati molti di quelli che per tale via si erano già spinti molto innanzi. La discrezione dunque può esser salutata madre, custode e guida di tutte le virtù. V La morte del vecchio Erone Manterrò ora la promessa di confermare con esempi recenti la dottrina presentata dal beato Antonio e dagli altri Padri. Richiamatevi alla memoria un avvenimento che non molto tempo fa avete osservato con i vostri occhi, come cioè un vecchio monaco fu vittima di una illusione diabolica e precipitò dalle vette agli abissi: lui che per ben cinquant’anni era vissuto in questo deserto, sempre fedele all’astinenza, sempre meravigliosamente affezionato alla solitudine. Come poté, quel caro vecchio, farsi mettere in trappola dal tentatore, dopo tante penitenze? Non è forse perché era privo della discrezione, e preferiva lasciarsi guidare dal suo giudizio anziché ispirarsi ai consigli e ai pareri dei fratelli? Anziché obbedire alle regole dei nostri Padri? Per lui il digiuno era legge così rigorosa e di cui si mostrava talmente osservante, da non voler ammettere la compagnia dei confratelli neppure nella refezione del giorno di Pasqua. Ogni anno, per la solennità pasquale, tutti i monaci si radunavano in Chiesa: lui solo non vi partecipava, per paura di apparire infedele ai propositi formulati, qualora avesse mangiato un po’ di legumi in compagnia dei suoi confratelli. Questa presunzione lo rovinò. L’angelo di Satana si presentò a lui e fu ricevuto col massimo rispetto, quasi fosse un angelo di luce. Per istigazione del demonio Erone si gettò a capofitto in un pozzo, del quale l’occhio non poteva scorgere il fondo: egli confidava sulla promessa che i suoi meriti e le sue virtù lo avrebbero liberato da ogni pericolo. « Questo è certo gli sussurrava il demonio e l’esperimento ne sarà la riprova », Il merito delle sue virtù avrebbe mandato bagliori, quando lo avessero visto uscire sano e salvo dal pozzo. Così, nel cuore della notte, quello si gettò nel pozzo pensando che avrebbe fatto riconoscere i suoi meriti uscendone illeso. Ma i monaci dei dintorni, dopo aver faticato a lungo, lo tirarono fuori più morto che vivo, e dopo due giorni il disgraziato morì. Il peggio è che morì ostinato: neppure un esperimento che gli era costato la vita lo convinse di essere stato illuso dal demonio. I monaci, profondamente commossi dalla sua fine, nonostante che facessero valere i meriti di tante fatiche e di tanti anni passati nel deserto, a mala pena poterono ottenere dal sacerdote (che era l’abate Panuzio), che Erone non fosse computato tra i suicidi e, come tale, fosse giudicato indegno del ricordo e del sacrificio che si offre in suffragio dei morti. VI Due monaci vanno incontro alla morte per ignoranza della discrezione Che dire di quei monaci i quali abitavano oltre il deserto della Tebaide, che un tempo era stato la dimora del beato Antonio? Essi, vinti dallo spirito d’indipendenza, dovendo viaggiare per un deserto sterminato, decisero di non prendere altro cibo all’infuori di quello che Dio avesse fatto trovare lungo il cammino. I due poveretti vagolavano per il deserto, vicini ormai a morire di fame, quando furon visti di lontano dai Mazici, che sono un popolo superiore ad ogni altro in ferocia e crudeltà. Costoro non uccidono la gente per desiderio di preda, come fanno altre tribù, ma uccidono per il solo gusto di esercitare la loro ferocia. Ebbene, dimentichi della loro naturale crudeltà, quei selvaggi andarono incontro ai due monaci portando pane; ma uno solo dei due monaci ricordandosi della discrezione accettò quel nutrimento come un dono di Dio, con sentimenti di gioia e in ispirito di ringraziamento. Questo pane egli pensò mi è mandato da Dio, perché senza un intervento divino non si spiegherebbe come questi uomini, per i quali è una festa versare il sangue del prossimo, possano far dono del nutrimento vitale a chi per languore sta già per morire. Ma l’altro monaco rifiutò il cibo perché gli veniva offerto da mano d’uomo. Casi morì. Tutti e due partirono da principi sbagliati, ma il primo si ricordò della discrezione e rinunziò al suo stolto proposito, l’altro, invece, perseverò nella sciocca impresa e rimase chiuso ad ogni idea di discrezione. Il Signore avrebbe voluto allontanare da lui la morte, ma quello la chiamò per non aver voluto vedere un miracolo di Dio anche nel gesto di quei barbari che, dimentichi della loro ferocia, presentavano pani invece che spade. VII Illusione in cui cadde un altro monaco per ignoranza della discrezione E che dire di un altro monaco del quale taccio il nome perché vive ancora? Costui accolse per lungo tempo il demonio circonfuso di luce angelica; ingannato dalle sue rivelazioni, si fidò e lo credette un messaggero di giustizia perché fra le altre cose, ogni notte gl’illuminava la cella senza bisogno di alcuna lucerna. Alla fine il demonio gli comandò di offrire in sacrificio un suo figlio, abitante nello stesso monastero, e ciò per acquistare un merito pari a quello del patriarca Abramo. Il nostro monaco s’internò tanto in questa seduzione che avrebbe consumato il misfatto, se il ragazzo, vedendo il padre che affilava insolitamente il coltello e cercava corde per legare la vittima, non avesse indovinato il delitto che si preparava e non fosse fuggito esterrefatto. VIII Caduta di un monaco della Mesopotamia che si lascio ingannare Sarebbe troppo lungo narrare in tutti i particolari l’illusione in cui cadde un monaco della Mesopotamia, il quale osservava una tale astinenza che pochissimi, in tutta la regione, potevano imitarlo. Dopo molti anni di fedeltà, il diavolo lo avvicinò e a forza di rivelazioni e di sogni lo giocò così bene che quello nonostante le fatiche e le virtù che lo avevano innalzato al disopra di tutti i monaci della zona arrivò a farsi ebreo e ad accettare la circoncisione. Volendo condurlo a lasciarsi illudere sul principio e per molto tempo il demonio gli presentò visioni veritiere, come avrebbe fatto un angelo della luce. Alla fine gli mostrò il popolo cristiano con tutti i grandi dignitari della nostra religione, come gli Apostoli e i martiri; ma era un popolo tenebroso, tetro, ridotto a forme spettrali. Dall’altra parte mostrò il popolo giudaico, con Mosè, i Patriarchi e i Profeti, tripudianti di gioia e risplendenti di una luce abbagliante. Allo stesso tempo il seduttore gli suggerì di ricevere subito la circoncisione, se voleva essere partecipe dei loro meriti e della loro felicità. Nessuno di questi monaci sarebbe caduto vittima delle illusioni, se essi si fossero studiati di acquistare la discrezione. Perciò, queste numerose cadute e questi tristi esempi, dimostrano quanto sia pericoloso per il monaco non possedere la discrezione. IX – Domanda sui mezzi per acquistare la vera discrezione Germano rispose: dagli esempi recenti e dalle sentenze degli antichi Padri, ci è apparso chiarissimo che la discrezione è in certo modo la sorgente e la radice di tutte le virtù. Vorremmo ora sapere quale sia il metodo per acquistarla e il metodo per riconoscere quando è vera e proveniente da Dio, oppure falsa e suggerita dal diavolo. Così, a norma della parabola evangelica che ci avete raccontata nella precedente conferenza – e che vuol far di noi degli abili banchieri – noi potremo accorgerci se l’immagine del re, che pur è vera, è impressa su metallo illegale e rifiutare la moneta come falsa. Noi vogliamo esser dotati di quella scienza che voi, con chiare e complete spiegazioni, ci avete mostrato essere la dote più preziosa del banchiere spirituale, o banchiere secondo il Vangelo (citazione dal cosiddetto “Vangelo degli Ebrei”, apocrifo – n.d.r.). Che cosa ci gioverebbe conoscere l’eccellenza della discrezione e il metodo della sua grazia, se non conoscessimo il modo di trovarla e acquistarla? X – Risposta sul modo di acquistare la vera discrezione Mosé riprese: la vera discrezione si acquista per mezzo della vera umiltà. E il primo segno della vera umiltà sarà quello di lasciare agli anziani il giudizio di tutte le nostre azioni e di tutti i nostri pensieri, fino al punto che uno non si affidi mai al proprio giudizio, ma sempre e in tutto stia alle decisioni degli anziani e voglia conoscere solo dalla loro bocca ciò che sia da ritenersi buono e ciò che sia da stimarsi cattivo. Questa disciplina, non solo insegnerà al giovane monaco a camminare diritto sulla via della vera discrezione, ma gli darà anche sicurezza contro tutti gl’inganni e tutte le insidie del nemico. E’ impossibile che cada nell’illusione chi prende come regola della propria vita, non già il suo giudizio, ma gli esempi degli anziani. L’astuzia del demonio non potrà valersi dell’ignoranza di un monaco il quale non cede al falso pudore e non nasconde qualcuno di quei pensieri che gli nascono in cuore, ma tutti li mostra al prudente giudizio degli anziani, per sapere se deve ammetterli o rifiutarli. Un cattivo pensiero, portato alla luce del giorno, perde subito il suo veleno. Prima ancora che la discrezione abbia proferita la sua sentenza, il serpente infernale, che la confessione ha tirato fuori dal suo nascondiglio tenebroso, se ne fugge svergognato. Le sue suggestioni hanno potere su noi finché restano nascoste in fondo al cuore. XI Parole dell‘abate Serapione. I cattivi pensieri perdono il loro veleno se manifestati. Pericolo della confidenza in noi stessi. « Da fanciullo così raccontava Serapione io vivevo nel deserto con l’abate Teana, e il nemico delle anime riuscì a farmi contrarre l’abitudine che sto per dire. Ogni giorno, dopo la refezione di nona”, che io consumavo insieme col buon vecchio, prendevo di nascosto una pagnotta e me la facevo scendere sotto l’abito, all’altezza del petto. Più tardi, a insaputa dell’abate, me la mangiavo di nascosto. La passione mise in me le radici e non fui capace di dominarla; anzi, la mia stessa volontà si mise a servizio della passione e continuai imperterrito il mio furto. Tuttavia, quando rientravo in me stesso, dopo aver soddisfatto la mia golosità, sentivo più dispiacere per il furto commesso che soddisfazione per l’appetito acquietato. Ero nella condizione in cui si trovarono un tempo gli ebrei, quando sotto la sferza dei sorveglianti egiziani dovevano costruire i mattoni”. Ogni giorno ero costretto al mio furto; con grande dispiacere, sì, ma anche senza possibilità di sottrarmi a quella crudelissima tirannide. Avrei voluto manifestare al vecchio la mia colpa, ma avevo vergogna, e non lo facevo. Alla fine, per volontà di Dio che voleva liberarmi da quella schiavitù, accadde che alcuni monaci venissero alla cella del vecchio abate per essere edificati dalla sua conversazione. Finito il pasto incominciò la conferenza spirituale. L’abate Teona, per rispondere alle domande che gli erano state rivolte, prese a parlare del vizio della gola e dei pensieri occulti. Mentre egli descriveva la natura di quei pensieri e la violenza che esercitano finché son tenuti nascosti, io mi sentivo toccare il cuore dalla forza del discorso ed ero atterrito dal rimorso della coscienza. Credevo che quelle parole fossero dette proprio per me, come se Dio avesse rivelato all’abate il segreto del mio cuore. Alla fine, aumentando in me il rimorso, scoppiai in singhiozzi e lacrime, e trassi fuori dal seno la pagnotta che vi avevo introdotta secondo la detestabile abitudine per mangiarla più tardi. Mettendomi in ginocchio mostrai a tutti quel pane e confessai, implorando perdono, il mio pasto clandestino di tutti i giorni. Sempre piangendo, chiesi anche le preghiere di tutti i presenti per ottenere che il Signore mi liberasse da una schiavitù tanto dura. Allora il vecchio disse: figliolo, sta’ di buon animo: la tua liberazione è già avvenuta per effetto della confessione, anche se io non ti ho detto ancora parole di perdono. Oggi tu hai trionfato del tuo antico vincitore: la tua confessione lo abbatte in modo assai più decisivo di quello che avesse abbattuto te il silenzio colpevole. Finora mai una parola, tua o di altri, aveva tentato di rintuzzare la sua audacia: per questo tu gli lasciavi la facoltà di signoreggiarti, secondo il detto di Salomone: «Perché non si resiste prontamente da parte di coloro che fanno il male, ecco che il cuore dei figli dell’uomo si riempie di pensieri malvagi »21. Ma dopo questa denuncia lo spirito di nequizia non potrà inquietarti più a lungo: il terribile serpente non potrà trovare altro nascondiglio in cui entrare, ora che lo hai portato alla luce del giorno con una salutare confessione. Il vecchio abate non aveva ancora terminato queste parole, quando una fiaccola accesa uscì dal mio seno e riempi la cella di un acre odore di zolfo: tanto fu grande il fetore, che a mala pena lo potemmo sopportare. Allora il vecchio riprese la sua ammonizione: ecco che il Signore ti ha manifestato con un prodigio la verità delle mie parole; tu hai visto con i tuoi occhi il fomentatore di questa passione cacciato fuori dal tuo cuore per virtù di una salutare confessione. Dio ti assicura che il nemico, scovato dal suo nascondiglio, non troverà più dimora dentro il tuo cuore. E così fu. Secondo quanto il vecchio aveva detto, quella confessione fece sparire per sempre simile tirannia diabolica: il demonio non cercò neppure di risuscitare in me il ricordo di quella golosità, né mai più mi sentii sfiorare dal desiderio di rubare qualcosa. Questa verità è espressa molto bene nell’Ecclesiaste, là dove dice: «Se il serpente morde senza fischio, a nulla vale l’opera dell’incantatore ». Il libro sacro vuole indicare così che il morso del serpente silenzioso è il più terribile.’ Se chi è stato avvelenato non confessa la suggestione diabolica a qualche incantatore, cioè a qualche uomo spirituale, capace di medicate le ferite e di estrarre il veleno dal cuore, con le parole miracolose della sacra Scrittura, non ci sarà altro soccorso nel pericolo, né rimedio contro la morte. Il mezzo certo per raggiungere facilmente la scienza della discrezione, è camminare sulle orme degli anziani. Non dobbiamo introdurre novità, non dobbiamo presumere di fare a modo nostro: dobbiamo sempre camminare per la via che ci fu tracciata dai loro insegnamenti e dai loro esempi. Con una simile formazione, non soltanto ognuno arriverà a un grado perfetto di discrezione, ma sarà pure sicuro da tutte le insidie del nemico. All’infuori del disprezzo verso i consigli degli anziani e dell’attaccamento al proprio giudizio e al proprio modo di vedere, non c’è altro VIZIO per mezzo del quale il demonio porti tanto facilmente il monaco alla rovina e alla perdizione. Tutte le arti e tutte le scienze in cui si esercita l’ingegno umano, quantunque non giovino ad altro che a questa vita del tempo, e quantunque siano trattabili con le mani e visibili con gli occhi, non possono essere ben conosciute senza la guida di un maestro. Non è dunque da stolti credere che si possa imparare senza maestro quest’arte invisibile e nascosta in cui si richiede occhio purissimo per vedere, e in cui un errore che si commetta, non provoca già un danno temporale facile a ripararsi, ma produce la perdizione dell’anima e la morte eterna? Qui non si tratta di nemici visibili ma invisibili; e son nemici senza misericordia. Si combatte di giorno e di notte. in un combattimento spirituale. Lo scontro non è contro un nemico o due, ma contro legioni innumerevoli: l’esito tanto più è incerto quanto più è astuto il nemico e subdolo l’attacco. Per questo è necessario seguire con somma attenzione le orme degli anziani e manifestare a loro tutto ciò che ci nasce in cuore, disprezzando i suggerimenti del falso pudore. XII Domanda sulla vergogna che ci fa arrossire nel rivelare i nostri pensieri agli anziani Germano La causa principale di quella vergogna dannosa che ci persuade a tacere i nostri cattivi pensieri, sta in certi fatti che si raccontano. Eccone uno. Viveva in Siria un certo monaco che fra gli anziani teneva il primo posto: un giorno venne da lui un fratello per confessare con la massima semplicità i pensieri che lo tormentavano. Ma il vecchio monaco era in un momento di collera e Il per lì non seppe fare altro che rimproverare aspramente chi gli si apriva. Da esempi come questo viene che noi chiudiamo nel nostro intimo i pensieri cattivi e ci vergogniamo di manifestarli agli anziani; così ci priviamo del rimedio e della guarigione. XIII Risposta sul dovere di calpestare la falsa vergogna e sul pericolo di non avere compassione Mosè Come i giovani non sono tutti di uguale fervore, saggezza e virtù, così anche gli anziani non sono tutti allo stesso grado di perfezione e di provata santità. La saggezza dei vecchi non si misura dal candore dei loro capelli, ma dal fervore che misero in gioventù ad acquistarsi meriti. « Come potrai ritrovare nella tua vecchiaia ciò che non raccogliesti nella gioventù? La vecchiaia degna di questo nome non si riconosce da un lungo numero di anni. La sapienza sostituisce nell’uomo i capelli bianchi: la vera vecchiaia è una vita senza macchia ». I vecchi dalla testa canuta, ma ricchi soltanto di anni, non son quelli di cui dobbiamo seguire le orme e ascoltare insegnamenti e consigli. La nostra venerazione deve rivolgersi soltanto a quegli anziani che hanno condotto da giovani una vita degna di stima e si sono formati non alla scuola del proprio capriccio, ma secondo le tradizioni dei Padri. Ci sono alcuni monaci, anzi dirò meglio: ci sono molti monaci, anche se ciò è doloroso, i quali son diventati vecchi nella tiepidezza e nell’accidia che concepirono in gioventù; ora essi cercano di acquistarsi autorità non con la santità dei costumi, ma con la quantità degli anni. A loro va il rimprovero che il Signore pronunzia per bocca del Profeta: «Gli stranieri hanno divorato la loro forza; essi son coperti di capelli bianchi e non lo sanno ». Tutti costoro sono stati elevati a modello per la gioventù, non dalla integrità della vita o dallo zelo spiegato nel seguire l’ideale monastico, ma dalla loro età molto avanzata. Il nemico astutissimo si vale dei loro capelli bianchi per ingannare i giovani ai quali li presenta come depositari di autorità, ma è un’autorità usurpata. Con abile astuzia il nemico usa i loro esempi per far cadere nei suoi lacci anche certuni che si erano già incamminati per la via della perfezione, o per propria inclinazione o per sollecitazione di altri. La dottrina di questi monaci e gli esempi della loro virtù servono al demonio per condurre tante povere anime ad una tiepidezza funesta, o ad una disperazione mortale. Voglio darvi un esempio di quel che vado dicendo, ma non farò nomi, per non cadere nella stessa colpa del monaco di cui sto per parlarvi: egli infatti manifestava le colpe del fratello appena quello gli si era confidato. Mi limito ad esporre il fatto perché è tale da potervi servire di buona lezione. Un anziano che io ben conosco, ricevette una volta un giovane e bravo monaco, che veniva a cercare occasione di progresso spirituale e rimedio ai suoi mali: egli era infatti tormentato dagli stimoli della carne e dallo spirito di fornicazione. Pensava di poter trovare nelle preghiere dell’anziano una consolazione al suo tormento e una medicina alle sue ferite. Ma l’altro ruppe in parole amare e disse: «È un uomo miserabile e indegno di chiamarsi monaco chiunque senta gli stimoli di un tal vizio e d’una tale concupiscenza ». I rimproveri ferirono profondamente il giovane monaco, che uscì da quella cella sprofondato nella disperazione, in preda a una mortale angoscia. Vinto ormai dallo scoraggiamento, non pensava più a guarire dal suo male, ma cercava il modo di soddisfare la passione che aveva concepita. Era tutto immerso in questo pensiero, quando incontrò l’abate Apollo, il più santo fra tutti gli anziani. Osservando il volto del giovane e l’abbattimento che vi era dipinto, Apollo comprese il dolore e la violenza del combattimento che silenziosamente gli dilaniavano l’anima. Gli domandò quindi la causa di sì gran turbamento e insisté con dolcezza. Ma l’altro non riusciva a dir parola. Il vecchio si convinse ancora di più che doveva esserci una causa assai grave a indurre quel giovane a tacere ostinatamente la ragione di una tristezza tanto grande da non poter si dissimulare nel volto, e moltiplicò le sue domande per conoscere il dolore nascosto. Vinto dalle dolci insistenze, il giovane disse tutto. Poiché, a giudizio dell’anziano che aveva consultato, non poteva esser monaco e non poteva avere i mezzi atti a respingere gli assalti della carne, disse che sarebbe andato al villaggio vicino a prender moglie. Intanto salutava la vita monastica per tornarsene nel mondo. Apollo prese allora a consolarlo con parole piene di dolcezza, affermando che anche lui era combattuto ogni giorno dagli stessi stimoli e dagli stessi ardori. Non bisogna abbandonarsi alla disperazione – diceva l’abate – né meravigliarsi della violenza della tentazione; molto più che a vincere le tentazioni non sono i nostri sforzi ma la misericordia di Dio e la sua grazia. Gli domandò di attendere ancora un giorno, prima di prendere la decisione, e lo pregò di ritornarsene alla sua cella; egli, a sua volta, si incamminò immediatamente alla capanna di quel tale anziano. Nell’avvicinarsi pregava così, versando lacrime e allargando le braccia: «Signore, tu solo vedi con occhi compassionevoli le forze di ciascuno e la debolezza della nostra natura, tu solo sai porvi rimedio con mano invisibile. Ti prego, trasferisci la tentazione del giovane monaco nell’anima dell’anziano, affinché egli impari, almeno sul finire dei suoi giorni, a compatire le debolezze degli afflitti e a comprendere la fragilità della gioventù ». Mentre terminava, tra gemiti, questa preghiera, vide davanti alla cella dell’anziano un etiope mostruoso che scagliava contro quel monaco saette infocate, Colpito da quelle frecce, il vecchio monaco uscì di cella e incominciò a saltare di qua e di là, come se fosse ubriaco o avesse perduto la ragione. Ora entrava, ora usciva: non era capace di trovar quiete. Alla fine si incamminò veloce sulla via che aveva preso il monaco giovane. L’abate Apollo, vedendolo come un pazzo agitato dalle furie, capì che era stato colpito al cuore dal dardo infocato del demonio e si convinse che da ciò derivava la confusione della mente e il turbamento dei sensi. Gli si avvicinò e disse: «Dove vai con tanta fretta? Che cosa è che ti fa dimenticare la gravità senile, e ti agita come un bambino, e ti fa correre da ogni parte? ». Quello, umiliato dal rimorso della coscienza e dalla passione vergognosa che lo tormentava, pensò che Apollo avesse indovinato la fiamma che gli si era accesa in cuore, e credendo svelato il suo segreto, non ardì rispondere. Allora Apollo gli disse: «Torna alla tua cella e impara che fino ad oggi tu sei stato o ignorato o disprezzato dal demonio: comunque non sei stato del numero di coloro che impongono al demonio una lotta continua, col loro progresso e i loro santi desideri. Vergognati! Dopo tanti anni di professione monastica, per una sola freccia che ti ha scoccato il tentatore, non solo non sei stato capace di respingerla, ma non hai saputo resistere neppure un giorno. Ecco che il Signore ha permesso tu fossi ferito affinché, sul finir della vita, imparassi per esperienza personale a compatire le debolezze altrui, e a comprendere la fragilità dei tuoi fratelli più giovani. Pensa ora quel che hai fatto: hai ricevuto un giovane monaco che sperimentava un duro assalto del demonio, e invece di incoraggiarlo con parole di consolazione, l’hai gettato nelle mani del nemico, inducendolo alla disperazione: per quanto è dipeso da te, il giovane monaco poteva finire assai male. Sappi ora che quel giovane non avrebbe avuto da sopportare un guerra così violenta, se colui che finora mai ne ha mossa a te una somigliante, non avesse visto con occhio invidioso il suo progresso spirituale. Quel giovane monaco aveva in cuore ricchezza di virtù, perciò Satana lo assaliva con le sue frecce infuocate. Senza dubbio il demonio lo ha stimato più forte di te, se ha creduto necessario attaccarlo con tanta violenza. Impara dunque a tue spese la compassione verso gli afflitti; impara a non atterrire con lo spauracchio della disperazione il fratello che versa in pericolo; impara a non esasperare la gente con parole dure: impara piuttosto a confortare tutti con parole dolci e blande, secondo il consiglio sapientissimo di Salomone: «Liberare coloro che son condotti a morte, salvare coloro che stanno per essere uccisi »25. Sull’esempio del Salvatore, guardati dallo spezzare la canna fessa e dallo spegnere il lucignolo fumigante26; domanda piuttosto la grazia di poter cantare fiduciosamente e sinceramente: «Il Signore mi ha dato una lingua sapiente per fortificare con la mia parola chi è debole e affaticato ». Nessuno potrebbe fuggire le insidie del nemico, né spegnere o moderare gli ardori della carne _ che son fuoco acceso in noi dalla natura se la grazia di Dio non venisse in aiuto alla nostra debolezza, per proteggerla e difenderla. Ora è chiaro il piano d’azione che Dio si proponeva in quest’opera della sua sapienza: Egli ha liberato il giovane dalla sua terribile tentazione e a te ha insegnato quale violenza possa talvolta prendere un assalto del demonio: così ti ha insegnato ad essere compassionevole. Uniamo perciò le nostre preghiere ad implorare la fine della prova che il Signore s’è degnato di mandarti per tuo spirituale profitto: « poiché egli ferisce e pur medica, percuote e pur le sue mani guariscono »; egli « umilia ed esalta, fa morire e fa vivere, fa accedere agli inferi e ne riconduce ». Che egli si degni con la rugiada traboccante del suo spirito di spegnere in te le frecce infuocate del tentatore, delle quali ha voluto che tu fossi afflitto per mia richiesta ». Una sola preghiera del santo monaco bastò: il Signore fece cessare la tentazione improvvisamente, come improvvisamente l’aveva permessa. L’insegnamento tuttavia è chiaro: oltre a non rimproverare ai fratelli le debolezze che ci manifestano, non dobbiamo neppure disprezzare le loro pene, fossero anche molto leggere. Non bisogna permettere che la leggerezza di uno o di pochi, i cui capelli bianchi servono al nemico per ingannare i giovani, vi faccia abbandonare quella via della salvezza che vi è stata mostrata, e vi allontani dagli insegnamenti dei Padri. Senza alcun velo di falsa vergogna, dovete manifestare agli anziani tutti i vostri pensieri e dovete attendere da loro medicina alle vostre ferite, esempi di vita santa. In questo metodo troverà soccorso e profitto chiunque si guarda dall’agire secondo il proprio giudizio e la propria personale inclinazione. XIV – La vocazione di Samuele La venerazione verso gli anziani è molto gradita a Dio, che ce la inculca dalle pagine della sacra Scrittura. Per decreto della sua Provvidenza, Dio aveva scelto il piccolo Samuele, ma invece d’istruirlo direttamente e intraprendere un colloquio con lui, lo mandò una e due volte dal vecchio sacerdote (1 Sam 3). Dio volle che questo fanciullo, chiamato a diventare il suo confidente, fosse istruito da un uomo, che per giunta era in colpa: Dio volle così per l’unica ragione che quell’uomo era un anziano. Il fanciullo giudicato degno di una vocazione altissima fu sottoposto alla direzione di un anziano affinché brillasse l’umiltà di chi era stato chiamato da Dio a un grande ministero, e fosse offerto alla gioventù un esempio di sottomissione. XV – La vocazione dell’apostolo Paolo L’apostolo Paolo fu chiamato direttamente da Cristo, ma colui che poteva, subito e senza intermediari, insegnargli la via della perfezione, preferì indirizzarlo ad Anania e fargli imparare da quello la via della verità. ” Alzati – disse il Signore – entra in città, e là ti sarà detto quello che devi fare ” (At 9, 6). Se Dio indirizza anche Saulo a un anziano, e preferisce metterlo a quella scuola anziché istruirlo direttamente, lo fa per evitare che l’intervento diretto- spiegabile nel caso di Paolo – possa in seguito incoraggiare la presunzione. Il pericolo era che tutti avessero a persuadersi di non avere (come l’Apostolo) altra guida o maestro all’infuori di Dio, e non volessero formarsi alla scuola degli anziani. Quanto sia da detestare la presunzione, l’apostolo stesso ce lo insegna, non solo con le parole, ma con le opere e con l’esempio. Egli infatti afferma di essersi recato a Gerusalemme unicamente per confrontare ed esaminare – in un incontro privato ed amichevole con i fratelli e predecessori nell’apostolato – il Vangelo che predicava tra i pagani, con accompagnamento di prodigi derivanti dalla grazia dello Spirito Santo. Ecco le sue parole: ” Esposi loro il Vangelo quale lo predico ai Gentili, nel pensiero che io, forse, corressi o avessi corso invano ” (Gal 2, 2). Chi sarà tanto presuntuoso e cieco da volersi affidare al suo giudizio e alla sua discrezione, quando perfino il ” Vaso di elezione ” afferma di aver avuto bisogno di un incontro con i fratelli nell’apostolato? In questo noi abbiamo la riprova di un metodo caro al Signore: egli non manifesta la via della perfezione a chi, pur avendo la possibilità di farsi istruire, disprezza la dottrina degli anziani e le loro regole di vita, senza far caso a una parola di Dio che dovrebbe essere diligentemente ascoltata: ” Interroga tuo padre e te lo insegnerà, interroga gli anziani e te lo diranno ” (Dt 32, 7). XVI – Dovere di tendere all’acquisto della discrezione Sforziamoci dunque con tutte le nostre energie per giungere alla virtù della discrezione attraverso la pratica dell’umiltà: solo la discrezione può tenerci lontani dagli eccessi opposti. C’è un vecchio proverbio che dice: ” Acròtes isòtes “, cioè: gli eccessi sono tutti dannosi. L’eccesso del digiuno e la voracità portano allo stesso fine; le veglie smodate non sono meno dannose, per un monaco, di un sonno pigramente prolungato. Per le eccessive privazioni, uno si indebolisce ed è necessariamente ricondotto allo stato in cui prosperano la negligenza e l’apatia. Molti che non poterono essere ingannati dalla golosità, li vedemmo ingannati dai digiuni smodati: la passione vinta, prese la sua rivincita in occasione dell’infermità. Spesso le lunghe veglie e le intere notti sottratte al sonno riuscirono ad ingannare quelli che il sonno non aveva potuto vincere. Noi, ” muniti delle armi della giustizia, a destra e a sinistra ” (2 Cor 6, 7) – come ci insegna S. Paolo – dobbiamo procedere con molta moderazione e passare tra i due estremi, guidati dalla discrezione. Così non ci faremo allontanare dalla giusta misura nel mortificarci, né cederemo alla gola e all’intemperanza, vinti da fiacchezza funesta. XVII – Digiuni e veglie senza discrezione CONFERENZA DELL’ABATE PANUZIO LE TRE RINUNZIE Estratto da “Giovanni Cassiano – Conferenze spirituali” – Edizioni Paoline 1965 Indice dei Capitoli I – Forma di vita praticata dall’abate Panuzio; I – Forma di vita praticata dall’abate Panuzio Nel coro di santi che – risplendenti a guisa di astri – illuminavano la notte di questo mondo, noi vedemmo brillare il venerabile Panuzio. Costui, quanto a scienza spirituale, appariva una specie di sole. Egli era pure il sacerdote del nostro gruppo di monaci: voglio dire di quel gruppo che abitava nel deserto di Scito. Panuzio visse fino all’estrema età senza voler mai lasciare la cella che aveva incominciato ad abitare da giovane e che distava dalla Chiesa ben cinque miglia. Mai fu possibile fargli accettare una cella più vicina, neppure quando, per lui che era rotto dalle fatiche e dagli anni, andare alla Chiesa ogni sabato e ogni domenica costituiva un’impresa sovrumana. Ma c’è di più: egli non sopportava di tornare dalla Chiesa con le mani vuote. Si caricava sopra le spalle un vaso d’acqua e lo portava alla cella perché gli somministrasse da bere durante la settimana: anche quand’ebbe passati i novant’anni, non permise mai che un monaco dei più giovani gli alleviasse questa fatica. Panuzio si era messo alla scuola dei cenobiti fino dalla prima adolescenza e aveva dimostrato tale e tanto ardore che in poco tempo si era arricchito dello spirito di sottomissione e della scienza di ogni virtù. Con la pratica dell’obbedienza e dell’umiltà mortificò tutti i moti della sua volontà, cosicché giunse ad estirpare tutti i vizi e a rendersi perfetto in tutte quelle virtù che son frutto delle istituzioni monastiche e della dottrina dei Padri antichi. Acceso poi dal desiderio d’una vita più sublime, ebbe volontà di ritirarsi solo in qualche angolo del deserto, per unirsi perfettamente e senza alcuna distrazione al Signore, col quale sospirava di stabilire una unione inseparabile fin dal tempo in cui viveva nella schiera degli altri monaci. Là, nella perfetta solitudine, superò in fervore e virtù gli stessi anacoreti. Tutto preso dal desiderio di una continua contemplazione di Dio, fuggiva la vista degli uomini, addentrandosi nella solitudine più segreta e inaccessibile. Stava lungo tempo nascosto a tutti gli sguardi: gli stessi anacoreti non riuscivano a vederlo che raramente e con fatica. Così nacque e si propagò la voce che egli godesse ogni giorno della compagnia degli angeli. In conseguenza di un sì grande amore per la solitudine, gli fu dato il soprannome di Bufalo. II – Discorso del vecchio abate e nostra risposta Desiderosi di essere istruiti da sì grande maestro, sollecitati anche dagli impulsi dei nostri pensieri, arrivammo alla cella di Panuzio verso l’ora del tramonto. Egli tacque qualche istante, al vederci. Poi incominciò ad esaltare il nostro proposito: avete lasciato la vostra patria, avete attraversato, per amore del Signore, tante regioni, con l’intenzione di sopportare coraggiosamente la povertà, e la vastità del deserto, per imitare la vita austera degli anacoreti, una vita che a malapena sopportano coloro che sono nati e cresciuti in condizioni di estrema necessità e miseria. Noi rispondemmo di esser venuti a lui per averlo come maestro, per essere arricchiti della sua dottrina: per esser penetrati dagli insegnamenti e dalla perfezione di un uomo la cui grandezza era attestata da prove innumerevoli. Ci dispiaceva perciò di sentirci rivolgere lodi non meritate e tali da farci cadere in tentazione di superbia: una tentazione dalla quale eravamo stati altre volte assaliti mentre abitavamo nelle nostre celle. Lo pregavamo dunque di volerci rivolgere parole tali da ispirare compunzione e umiltà, anziché somministrare esca alla vanagloria e alla superbia. III – Proposizione dell’abate Panuzio sulle tre specie di vocazioni e sulle tre rinunzie Allora il venerabile Panuzio prese a dire: le vocazioni sono di tre sorta, e tre sono ancora i generi della rinunzia: tutti e tre necessari al monaco, qualunque sia il tipo della sua vocazione. Innanzi tutto dobbiamo seriamente ricercare perché io dica che esistono tre sorta di vocazioni. Se ci accorgeremo di essere stati chiamati al culto di Dio col primo e più alto grado di vocazione, dovremo anche commisurare all’eccellenza della vocazione la qualità della nostra vita, perché niente varrebbe aver avuto un alto principio, se a quello non rispondesse un fine altrettanto alto. Se invece ci accorgeremo che Dio ci ha strappati al mondo con la vocazione più umile, noi dovremo impegnarci col più grande fervore e procurar di finire in modo molto degno di quell’umile inizio dal quale partimmo. Ma anche il tema delle tre rinunzie dev’essere da noi ben approfondito, perché non potremo assolutamente raggiungere la perfezione se non conosceremo la sua natura, o se, pur conoscendola, non cercheremo di realizzarla. IV – Le tre vocazioni Parliamo dunque delle tre vocazioni e delle loro note distintive. La prima vocazione viene da Dio, la seconda viene dall’uomo, la terza dalla necessità. La vocazione viene direttamente da Dio quando egli manda al nostro cuore un’ispirazione che può sorprenderci anche nel sonno, svegliarci all’improvviso con un grande desiderio della vita eterna e della nostra salvezza, sollecitandoci a seguire Dio e ad essere fedeli ai suoi comandi con salutare compunzione. Tale fu la vocazione di Abramo. Leggiamo nella sacra Scrittura che egli fu invitato dalla voce del Signore ad abbandonare la terra natale, gli affetti familiari, la casa stessa di suo padre: ”Esci dalla tua terra, dalla tua famiglia, dalla casa di tuo padre » (Gen. 12, 1). Nello stesso modo sappiamo che fu chiamato il beato Antonio: l’occasione della sua conversione venne unicamente da Dio. Entrò un giorno in una chiesa e udì queste parole di Gesù: « Chi non odia suo padre e sua madre e la moglie e i figli e i fratelli e le sorelle e perfino la sua vita, non può essere mio discepolo » (Lc 14, 26.. Udì pure le altre parole: « Se vuoi essere perfetto, va’, vendi ciò che hai e donalo ai poveri e avrai un tesoro in cielo, poi vieni e seguimi » (Mt. 19, 29). Antonio pensò che quel comando del Signore fosse rivolto proprio a lui, lo ricevette con la più grande compunzione del cuore e subito, senza che esortazione umana o insegnamento umano lo sollecitasse, abbandonò tutto ciò che possedeva e si mise a seguire il Maestro divino. La seconda vocazione è quella che nasce – come già è stato detto – con la mediazione degli uomini. Sono allora gli esempi dei santi e le esortazioni delle persone pie che accendono nel cuore il desiderio della salvezza. Anch’io, per la grazia del Signore, credo di essere stato chiamato così. Commosso dagli insegnamenti e dagli esempi del beato Antonio, mi consacrai alla solitudine e alla professione della vita monastica. In modo simile, secondo quanto leggiamo nelle sacre Scritture, i figli d’Israele furono liberati dalla schiavitù d’Egitto, con l’intervento di Mosè. La terza vocazione nasce da necessità. Mentre viviamo tutti attaccati alle ricchezze e ai piaceri del mondo, all’improvviso cade su di noi una dura prova; è forse un pericolo di morte che ci minaccia, è forse la perdita o la proscrizione dei nostri beni a percuoterci, è forse la morte di persone care che ci riempie di dolore. In queste circostanze, noi, che non avevamo voluto seguire Dio nella prosperità, siamo spinti verso di lui dal dolore. Di questa, che chiameremo « vocazione per forza », troviamo molti esempi nella sacra Scrittura, là dove leggiamo che i figli d’Israele a causa dei loro peccati, furono dati nelle mani dei nemici e sotto la loro crudele tirannia si convertirono. Ecco qualche esempio del libro Sacro: « E alzarono la voce verso il Signore, il quale suscitò loro un salvatore di nome Aod, figlio di Gera, figlio di Jemini, che era ambidestro » (Gdc 3, 15). E altrove si legge: « Gridarono allora al Signore e questo suscitò, per salvarli e liberarli, Otoniele figlio di Cenez, il fratello minore di Caleb » (Gdc 3, 9). Anche nei Salmi si trovano casi analoghi: «Quando li uccideva lo cercavano, e tornavano, e di buon mattino correvano a lui, e si ricordavano che Dio era il loro aiuto » (Sal 77, 34-35). E altrove: « E gridarono al Signore nella loro tribolazione e dalle angustie loro li strappò » (Sal 106, 6). V – La vocazione più sublime non giova al pigro e la meno nobile non nuoce al generoso Delle tre vocazioni fin qui descritte, le prime due sembrano godere di più alta dignità; noi però abbiamo conosciuto alcuni monaci che, pur essendo partiti dalla terza vocazione, cioè da quella più bassa e meno fervorosa, furono tuttavia uomini perfetti e sommamente ferventi, simili in tutto a coloro che entrarono nel servizio di Dio per la porta più nobile; e continuarono poi nel fervore per tutto il rimanente della loro vita. Ne vedemmo anche altri che, dopo aver ricevuto la vocazione del grado più eccellente, si lasciarono vincere dalla tiepidezza e finirono miseramente. Per coloro che sembrano essersi convertiti più per ima estrema necessità che per un intimo movimento della volontà, il movente poco nobile della conversione non fu di danno, perché la bontà del Signore procurò ad essi l’occasione di pentirsi e nobilitarsi. Coloro invece che si convertirono sotto la spinta di una vocazione sublime non ebbero da ciò grandi vantaggi, se poi non si curarono d’intonare con l’inizio il resto della loro vita. All’abate Mosè, che abitò la parte di questo deserto chiamato « Calamo », niente mancò per raggiungere la più alta perfezione. Eppure, si era rifugiato nel monastero per scampare alla pena di morte che si era meritata per aver commesso un omicidio. Egli abbracciò con tale ardore la sua vocazione forzata da trasformarla, con generosa prontezza in una libera scelta; così giunse alle più alte cime della perfezione. A moltissimi altri, invece, che non è bene nominare particolarmente, niente giovò aver iniziato il servizio di Dio nel modo più nobile, perché caddero nella tiepidezza più fatale e quindi nel baratro di morte: costoro s’erano lasciati vincere dalla fiacchezza e dalla durezza di cuore. Di ciò abbiamo una riprova anche nella vocazione degli Apostoli. Che cosa giovò a Giuda aver accettato volontariamente il ministero sublime dell’apostolato – al quale era stato invitato con una chiamata pari a quella di Pietro e degli altri Apostoli – dal momento che terminò con ima fine esecranda? L’inizio era stato nobilissimo, ma poi, per amore del denaro, tradì il suo Maestro e si macchiò del più mostruoso parricidio. Guardate invece san Paolo. Colpito da improvvisa cecità, parve attirato alla via della salvezza contro sua voglia, ma poi seguì il Signore con immenso fervore dell’anima, riscattò la sua vocazione forzata con una donazione completa della volontà e concluse con un finale incomparabile la sua vita gloriosa, tutta ornata di elettissima perfezione. Tutto dipende da come si finisce. Uno che ha dato ottimo inizio alla sua conversione per sua negligenza può finire all’ultimo posto; un altro che è stato portato quasi per forza alla professione monastica, sorretto dal timore di Dio e dalla sua personale diligenza, può arrivare a somma perfezione. VI – Le tre rinunzie Ora dobbiamo parlare delle rinunzie. La tradizione dei Padri e l’autorità della sacra Scrittura ci dicono che sono tre e che ciascuno di noi deve compierle tutte. La prima rinunzia è di natura materiale: per mezzo di essa noi disprezziamo tutte le ricchezze e tutti i beni del mondo. La seconda è quella per la quale rinneghiamo il nostro passato, i nostri vizi, le passioni dello spirito e della carne. La terza consiste nel ritrarre la nostra mente dalle cose presenti e visibili, per desiderare solo le cose eterne e i beni che non si vedono. Queste tre rinunzie bisogna compierle tutte, nessuna esclusa, come è chiaro dal comandamento dato da Dio ad Abramo quando disse: « Esci dalla tua terra, dalla tua parentela, e dalla casa di tuo padre » (Gen 12, 1). Prima disse: « Esci dalla tua terra », cioè: rinuncia ai beni di questo mondo e alle ricchezze terrene. In secondo luogo disse: « Esci dalla tua parentela », cioè rinuncia alla tua maniera di vivere, alle abitudini e ai vizi contratti: tutte cose queste che sono a noi strettamente unite, fin dal tempo della nascita, da avere ormai stabilito con noi una specie di parentela o consanguineità. Infine disse: « Esci dalla casa di tuo padre », cioè: allontana dal tuo sguardo ogni memoria di questo mondo. Noi abbiamo due padri: uno da lasciare e uno da cercare: David li ricorda entrambi nei salmi, quando fa parlare Dio in questi termini: « Ascolta, o figlia, guarda e china il tuo orecchio, e dimentica il tuo popolo e la casa del padre tuo » (Sal 44, 11). Colui che dice: « Ascolta, o figlia » è certamente padre; egli stesso però afferma che anche un altro è padre di questa « figlia »: di tale secondo padre invita a lasciare la casa e il popolo. L’allontanamento dal secondo padre avviene quando noi, morti con Cristo alle cose di questo mondo, contempliamo, secondo la parola dell’Apostolo, « non le cose che si vedono ma quelle che non si vedono, poiché le cose che si vedono sono temporanee, e quelle che non si vedono eterne » (2 Cor. 4, 18). E ciò noi facciamo quando, uscendo col cuore da questa casa temporale e visibile, indirizziamo gli occhi e la mente a quella dimora in cui abiteremo eternamente. Un tale programma sarà da noi attuato se, pur vivendo nella carne, cesseremo di agire secondo la carne e incominceremo a militare per il Signore. Allora potremo ripetere, senza mancare alla verità, la parola dell’Apostolo: « La nostra città è in cielo » (Fil 3,20). Alle nostre tre rinunzie corrispondono perfettamente i tre libri di Salomone. Alla prima rinunzia corrispondono i Proverbi, con i quali si troncano i desideri delle cose carnali e i vizi terreni. Alla secondo rinunzia corrisponde l’Ecclesiaste, nel quale si proclama che quanto avviene sotto il sole è tutto e soltanto vanità. Alla terza rinunzia corrisponde il Cantico dei Cantici. L’anima, trasvolando tutte le cose visibili, si unisce al Verbo di Dio, nella contemplazione delle cose celesti. VII – Bisogna portare al grado perfetto ognuna delle tre rinunzie Non ci gioverà molto avere compiuto la prima rinuncia, sia pure con la più grande devozione e fede, se poi non compiremo anche la seconda, con altrettanta cura e con uguale fervore. La seconda rinunzia non va poi considerata come fine a se stessa: essa ha Io scopo di facilitare la terza, quella per la quale rivolgeremo ogni sguardo dell’anima verso il cielo, usciti che saremo dalla casa di nostro padre. E il padre da abbandonare è il « vecchio uomo » esistente in noi, quello per colpa del quale noi eravamo « figli dell’ira » al pari di tutti gli altri uomini Ef. 2, 3.. Con parole che possiamo riferire a questo padre indesiderabile, Dio parla così nel libro Sacro, rivolgendosi a Gerusalemme: « Tuo padre è l’Amorreo e tua madre Cetea » (Ez 16, 3). Il Vangelo a sua volta dice: « Il padre dal quale discendete è il diavolo, e voi volete compiere i desideri del padre vostro » (Gv 8, 44). Quando avremo abbandonato il diavolo, passando dalle cose visibili a quelle invisibili, potremo dire con san Paolo: « Noi sappiamo che se la nostra abitazione terrena – consistente in una tenda – si dissolve, abbiamo un’abitazione non manufatta ed eterna, preparataci da Dio nei cieli » (2 Cor. 5, 1). E vale in tale occasione anche un’altra parola dell’Apostolo, da noi già riferita: « La nostra cittadinanza è nei cieli, donde aspettiamo, come Salvatore, il Signore Gesù Cristo, il quale trasformerà il corpo della miseria nostra, cosicché sia conforme al corpo della sua gloria » (Fil. 3, 20-21). Sullo stesso argomento dice David nei Salmi: « Io sono un pellegrino sopra la terra, come lo furono tutti i miei padri » (Sal 118, 19). In forza delle rinunzie noi saremo somiglianti a coloro dei quali parla Gesù nel Vangelo, quando dice al Padre: « Essi non sono del mondo, come neppure io sono del mondo » (Gv 17, 16), e poi il Signore aggiunge, rivolto agli Apostoli: « Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; invece, siccome non siete del mondo e vi ho scelto dal mondo, per questo il mondo vi odia » (Gv 15,19). Ecco dunque il segno dal quale si può giudicare che abbiamo compiuto perfettamente la terza rinunzia: l’anima non sente più quell’appesantimento carnale da cui era prima gravata, ma, dopo profonda purificazione da ogni affetto e disposizione terrena, attraverso la meditazione continua delle cose celesti e l’esercizio della contemplazione spirituale, è passata al mondo dell’invisibile. Tale passaggio è avvenuto in forma così completa che l’anima stessa, ormai tutta intenta alle cose celesti e spirituali, non ha più la nozione del suo corpo carnale e del luogo in cui vive. Rapita in estasi continua, il suo orecchio è insensibile alle voci che giungono dal di fuori; le creature passano senza che l’occhio le scorga. C’è di più: l’occhio non percepisce neppure immense moli che gli stanno davanti. Per capire la verità di queste parole, ci vuole uno che sia stato ammaestrato dall’esperienza, uno al quale il Signore abbia staccato così bene la vista del cuore da tutte le cose presenti, che egli non le stimi più oggetti destinati a passare, ma addirittura come creature già passate e scomparse nel nulla: dissolte a somiglianza di una voluta di fumo. Ci vuole insomma uno che camminando con Dio, come faceva Enoc, sia stato tratto fuori dalla vita e dai costumi degli uomini e non abiti più nella vanità del mondo presente. Dato che abbiamo nominato Enoc notiamo ima differenza: per lui il rapimento non fu soltanto spirituale ma anche corporale, come ci attesta il libro del Genesi: « Enoc camminò con Dio e poi disparve, perché Iddio lo prese con sé » (Gen 5,24). E l’Apostolo soggiunge: « Per la fede Enoc fu trasportato, affinché non vedesse la morte » (Eb 11,5). Di questa morte dice il Signore nel Vangelo: « Chi vive e crede in me non morrà in eterno » (Gv 11,26). Affrettiamoci dunque – se ci preme raggiungere la vera perfezione – ad abbandonare col cuore, come già li abbiamo abbandonati col corpo, genitori, patria, ricchezze, piaceri, né torniamo mai, col desiderio, a rimpiangere ciò che abbiamo abbandonato, come fecero gli Ebrei quando uscirono dall’Egitto. Ricordate? Mosè li condusse fuori dall’Egitto, essi vi ritornarono: non certo col corpo, ma col desiderio. Dopo aver abbandonato Dio, che li aveva liberati con tanta dovizia di miracoli, tornarono ad adorare gl’idoli egiziani già da loro disprezzati. Ciò è ricordato nelle sacre Scritture: « Ritornarono col cuore in Egitto, o dissero ad Aronne: « Facci degli dei che ci guidino » (At 7,39). Anche noi saremo condannati al pari degli Ebrei, che, pur essendo alimentati nel deserto con la manna, desiderarono i vili e rivoltanti cibi del vizio. Sembra infatti che anche noi mormoriamo con loro: « Stavamo bene in Egitto. Eravamo seduti dinanzi a pentole piene di carne e mangiavamo cipolle e agli e cocomeri e poponi » (Num 11,18; Es 16,3; Num 11,5). Tutto questo avveniva nel popolo ebraico come figura di quello che avviene ogni giorno nel nostro stato e nella nostra professione. Chiunque, dopo aver rinunziato al mondo, torna agli antichi desideri e alle vecchie passioni, esclama con i suoi atti e con i suoi pensieri: « Come stavo bene quand’ero in Egitto! ». E io temo che i monaci di questa fatta non siano meno numerosi degli Ebrei che prevaricarono al tempo di Mosè. Ricordate la Scrittura? Di seicentomila che erano gli uomini atti a portare le armi, quando il popolo ebraico uscì dall’Egitto, due soli entrarono nella terra promessa. Perciò dobbiamo cercar di prendere esempio dai pochi e rari che rimasero fedeli, perché, con quel che abbiamo riferito sopra, concorda anche il Vangelo che dice: molti sono i chiamati, pochi gli eletti. Niente ci gioverà una rinunzia soltanto carnale e locale, somigliante alla partenza degli Ebrei dall’Egitto. Quella che conta è la rinunzia del cuore: quella sola è sublime e utile. Dell’altra, che abbiamo chiamato rinunzia esteriore e corporale, ecco come parla l’Apostolo: « Se distribuissi ai poveri tutto quello che ho, e dessi il mio corpo per essere arso, ma non avessi amore, non ne avrei alcun giovamento » (1 Cor 13,3). San Paolo non avrebbe scritte queste parole se non avesse previsto in spirito che molti, dopo aver distribuito ai poveri le loro ricchezze, sarebbero rimasti impotenti a scalare le vette della perfezione evangelica e della carità, per aver lasciato dominare nel proprio cuore superbia e impazienza, antichi vizi e sregolate abitudini, di cui avevano il dovere di purificarsi. Per questo non arrivarono a impossessarsi di quella divina carità che, al dire dello stesso Apostolo, non viene mai meno. Tutti costoro, falliti nel secondo grado di rinunzia, molto meno poterono raggiungere il terzo, che è indubbiamente il più sublime. Notate attentamente che san Paolo non ha detto soltanto: « Se distribuirò le mie ricchezze ai poveri ». Se così avesse parlato, si sarebbe potuto pensare che egli intendesse presentare uno di quei tali che non osservano pienamente E comando di Dio, in quanto si ritengono qualcosa di ciò che possedevano. No. S. Paolo dice: « Se distribuirò tutte le mie ricchezze in cibo ai poveri », il che vuol sottintendere: anche se avrò rinunciato perfettamente a queste ricchezze del mondo. Anzi, aggiunge qualcosa di più grande ancora: « Se abbandonerò il mio corpo alle fiamme ma non avrò la carità, non sono nulla ». Insomma, è come se dicesse: se io distribuirò ai poveri tutti i miei averi, secondo quel comandamento del. Vangelo che dice: « Se vuoi esser perfetto, va’, vendi quello che hai e donalo ai poveri, e avrai un tesoro nei cieli »: se spingessi la rinunzia fino al punto di non riservarmi niente e aggiungessi alla rinunzia completa anche il martirio di fuoco, e perdessi la mia vita per Cristo: se dopo tutto questo io sono ancora impaziente, irascibile, invidioso, superbo, se l’ingiuria patita mi accende d’ira, se cerco il mio tornaconto, se penso il male, se non soffro pazientemente e di buon grado tutti i maltrattamenti, la rinunzia e il martirio del mio corpo non mi recheranno alcun giovamento. E ciò perché l’uomo interiore rimane ancora schiavo degli antichi vizi. Inutilmente, nel fervore della mia conversione, avrò disprezzato la sostanza di questo mondo (la quale in se stessa non è né buona né cattiva ma indifferente), se poi non mi impegnerò a rigettare le nefaste ricchezze di un cuore vizioso e a praticare la carità che è paziente, che è benevola, che non è invidiosa, non si gonfia, non si irrita, non fa nulla invano, non cerca il suo interesse, non pensa male, ma soffre tutto, sopporta tutto, e, per dirla in breve, non permette che i suoi fedeli seguaci siano ingannati dal demonio e tirati nel peccato. VIII – Ricchezze che conferiscono bellezza o bruttura all’anima Dobbiamo impegnarci con tutte le forze affinché l’uomo interiore che è in noi dilapidi e getti via quelle ricchezze del vizio che acquistò nella sua prima vita. Queste dannate ricchezze sono proprio nostre, stanno saldamente attaccate al corpo e all’anima. Se non sapremo staccarle e gettarle via finché viviamo in questo mondo, non cesseranno di stare con noi neppure dopo la morte. Come le virtù acquistate in terra – e soprattutto la carità che delle virtù è la fonte – rivestono di luce, anche dopo la morte, colui che le amò, così i vizi offuscano e macchiano l’anima di colori orribili e la mandano, deturpata, all’inferno. La bellezza dell’anima nasce dalla virtù, la sua deformità nasce dal vizio. Virtù e vizio sono come colori che s’attaccano all’anima e la rendono, o tanto bella che essa merita di sentirsi dire: « Il Re si è invaghito della tua bellezza » (Sal 44,12), o tanto brutta, nauseante e deforme che essa stessa si sente obbligata a confessare così la causa della sua vergogna: « Sono imputridite e marcite le mie piaghe per la mia stoltezza » (Sal 37,6). E il Signore allora domanda: « Perché non si è rimarginata la ferita della figlia del popolo mio? » (Ger 8,22). Queste sono le nostre ricchezze, esse rimangono sempre unite all’anima: nessun re o nessun nemico potrà mai donarcele o rapircele. Queste sono le sole ricchezze che neppure la morte ci strapperà. Chi saprà rinunciare alle ricchezze del vizio giungerà alla perfezione, chi si farà schiavo di esse, sarà condannato alla morte eterna. IX – Tre generi di ricchezze La parola « ricchezze », nella sacra Scrittura, prende tre significati: uno cattivo, uno buono, uno indifferente. Sono ricchezze cattive quelle di cui si dice: « I ricchi hanno sofferto la sete e la fame » (Sal 33,11). E ancora: « Guai a voi o ricchi, perché avete ricevuto la vostra consolazione » (Lc 6,24). Rinunciare a queste ricchezze è il colmo della perfezione. Ed è ancora per condannare tali ricchezze che il Signore, nel Vangelo, esalta i poveri: « Beati i poveri di spirito, perché di essi è il regno dei cieli » (Mt 5,3). E il Salmo dice: « Questo povero ha levato la sua voce e il Signore lo ha ascoltato » (Sal 37,7). E ancora: « Il povero e l’indigente loderanno il tuo nome » (Sal 73,21). Ci sono anche ricchezze buone: acquistarle è segno di grande virtù e di grande merito. David loda l’uomo giusto che le possiede: « La stirpe dei giusti sarà benedetta. Splendore e ricchezze in casa di lui, e la sua ricchezza perdura nei secoli » (Sal 111,2-3). E ancora: « L’uomo riscatta la vita con le sue ricchezze » (Pr 13,8). Di queste ricchezze sante si parla nell’Apocalisse, quando colui che non le possiede è rimproverato dalla sua povertà e nudità: « Sto per vomitarti dalla mia bocca, perché dici: sono ricco, mi sono arricchito e non ho bisogno di nulla e invece non sai che tu sei meschino e miserabile e pitocco e cieco e nudo. Ti consiglio a comprare da me oro purgato col fuoco perché tu arricchisca, e vesti bianche perché tu le indossi e non appaia la vergogna della tua nudità » (Ap 3,16-18). Ci sono in ultimo anche le ricchezze indifferenti, cioè che possono essere ora buone, ora cattive: queste si volgono da una parte o dall’altra, secondo la qualità e la volontà di chi le usa. A proposito di queste ricchezze dice l’Apostolo: « Ai ricchi dell’età presente dò il consiglio di non essere alteri d’animo, e di non riporre la speranza nell’incerto della ricchezza, ma di sperare in Dio che ci somministra copiosamente ogni cosa per il nostro godimento. Facciano del bene, si arricchiscano di opere buone, siano facili a dare agli altri, tesoreggiando così un buon fondamento per l’avvenire, affinché possano raggiungere quella che è veramente vita » (1 Tm 6,17-19). Sono queste ricchezze, per sé indifferenti, che il ricco del Vangelo si teneva strette, senza elargirle ai poveri e senza farne parte al mendico Lazzaro, che stava disteso davanti alla sua porta e chiedeva di potersi saziare con le briciole che cadevano dalla mensa. Ma il ricco era duro e finì nell’inferno. X – Nessuno può essere perfetto se si ferma al primo grado di rinunzia Quando rinunziamo alle ricchezze di questo mondo, lasciamo non già qualcosa di nostro, ma qualcosa che non ci appartiene, anche se ci possiamo vantare di averlo acquistato col nostro lavoro, o d’averlo ricevuto in eredità dai nostri antenati. L’ho già detto: niente è nostro tranne ciò che portiamo nel nostro cuore ed è talmente unito con la nostra anima che nessuno ce lo potrà mai strappare. A coloro che si tengono gelosamente strette le ricchezze del mondo, quasi fossero loro esclusiva proprietà, e si rifiutano di fame parte ai poveri, il Signore dice: « Se non siete stati fedeli nell’altrui, chi vi darà il vostro? » (Lc 16,12). Come è facile vedere, non è soltanto l’esperienza quotidiana a dirci con evidenza che le ricchezze non ci appartengono, c’è anche la parola del Signore che lo dichiara espressamente. Delle ricchezze invisibili e cattive, parla s. Pietro quando dice al Signore: « Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito. Quale sarà la nostra ricompensa? » (Mt 19,27). Riflettiamo un istante e vedremo che gli Apostoli avevan lasciato ben poco: qualche rete da pescatori, povera e mezza rotta. Se, quando s. Pietro dice: « abbiamo lasciato tutto », non intendiamo la rinunzia ai vizi che son davvero qualcosa di grande, noi dovremo convenire che gli Apostoli non lasciarono nulla di prezioso, perciò il Signore non avrebbe avuto motivo di far loro una promessa di gloria e di felicità così alta, come quella che pronunciò: « Nel giorno della rigenerazione, quando il Figlio dell’uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, sederete anche voi, che mi avete seguito, su dodici troni, a giudicare le dodici tribù d’Israele » (Mt 19,28). Ma se anche coloro che hanno sinceramente e compieta- mente abbandonato le ricchezze visibili della terra, non sono tante volte capaci di procedere con passo spedito verso il terzo grado di rinunzia, che cosa dovranno pensare di se stessi tutti coloro che, non avendo compiuto neppure il primo facilissimo grado di rinunzia, ritengono ancora l’infedeltà antica, l’attaccamento dannoso al denaro, e si gloriano di un nome vano: quello di monaco? La prima rinunzia riguarda dunque le cose che non sono nostre, per questo non può bastare da sola a produrre la perfezione. Bisogna salire al secondo grado di rinunzia, perché in quello si abbandona qualcosa di nostro. Ma appena cancellato ogni vizio, col secondo grado di rinunzia, noi dovremo salire alle vette del terzo grado. È in forza della terza rinunzia che noi disprezziamo con tutte le forze dello spirito, non solo gli avvenimenti di questo mondo e i beni posseduti dagli uomini, ma anche il complesso degli elementi cosmici che appaiono tanto affascinanti. La terza rinunzia ci scoprirà che tutto è sotto l’impero della vanità, tutto è destinato a finire presto, mentre noi siamo destinati, come insegna s. Paolo, a contemplare « non ciò che si vede, ma ciò che non si vede: perché le cose che si vedono passano col tempo, quelle che non si vedono sono eterne » (2 Cor 4,18). Chi arriverà a compiere la terza rinuncia meriterà di sentirsi rivolgere l’invito che fu rivolto ad Abramo: « Vieni nella terra che io ti mostrerò » (Gen 12,1). Da tutto ciò appare evidente che senza aver compiuto prima, col massimo ardore dello spirito, i tre gradi di rinunzia, non è possibile ottenere quel che il Signore aggiunge in quarto luogo come premio a chi ha operato il perfetto distacco, cioè l’ingresso nella terra promessa, dove non esistono i triboli e le spine del vizio. Questa terra si può già possederla fin dalla vita presente, per mezzo della liberazione dalle passioni e della purezza del cuore. È ima terra che l’uomo non potrebbe scoprire per virtù propria, né con l’industria o la fatica: il Signore solo la conosce e la mostra all’anima, dice infatti: « Vieni nella terra che io ti mostrerò ». Le parole rivolte da Dio ad Abramo dimostrano pure che il principio della salvezza consiste in una chiamata del Signore: « Esci dalla tua terra »; dipende però da Dio anche il compimento dell’opera della nostra perfezione e purificazione, dice infatti Dio: « Vieni nella terra che io ti mostrerò ». Si tratta di una terra – sembra dire il Signore – che tu, con tutti gli sforzi di cui sei capace, non potresti scoprire; sono io che te la mostro, anche quando tu non la cerchi, perché mi muovo a compassione della tua ignoranza. Questo dimostra che Dio, dopo averci chiamato con le sue ispirazioni ad intraprendere la via della salute, si fa nostra guida lungo il cammino e ci conduce, con la sua luce, fino al termine della felicità celeste. XI – Domanda sulla grazia e il libero arbitrio Germano – In che cosa consiste, allora, il nostro libero arbitrio? E perché si rende lode al nostro impegno nella vita spirituale, se è Dio che incomincia e porta a termine l’opera della nostra perfezione? XII – Risposta: la grazia divina non toglie il libero arbitrio Panuzio – La vostra obiezione sarebbe giusta se, in ogni opera o disciplina, esistesse soltanto il principio e la fine, e non ci fosse anche uno stadio intermedio che corre fra l’uno e l’altro dei termini estremi. Noi sappiamo che Dio mostra a tutti le vie della salvezza, e le mostra in modo diverso da persona a persona: percorrere quelle vie in modo più fervoroso o più pigro, dipende da noi [i]. È vero che fu Dio a chiamare Abramo e a fargli la proposta: « Esci dalla tua terra », ma è anche vero che l’atto di obbedienza, nell’uscire dalla propria terra, fu di Abramo. Così pure, alle parole di Dio: « Vieni nella terra », dovette aggiungersi l’obbedienza di Abramo. Invece le altre parole «… che io ti mostrerò », non chiedevano nulla da parte di Abramo: esprimevano soltanto la grazia di Dio che presentava un comando e prometteva un premio. È certo tuttavia che, pur mettendo noi i più nobili sforzi nel praticare la virtù, pur impegnando tutto il nostro zelo e la nostra attività, dovremo accorgerci che tutto il lavoro dell’uomo è insufficiente ad acquistargli il premio della felicità eterna. È necessaria l’azione di Dio, è necessario che sia lui a guidare il nostro cuore al bene. Perciò sulle nostre labbra deve risuonare ad ogni istante la preghiera di David: « Rafferma i miei passi nei tuoi sentieri, perché non vacillino i miei piedi » (Sal 16,5). Oppure: « Stabilì sopra una rupe i miei piedi e guidò i miei passi » (Sal 39,3). Il libero arbitrio, per la nostra ignoranza del bene e per l’attrattiva delle passioni, è portato verso i vizi, perciò Colui che governa invisibilmente l’anima dell’uomo si degna ricondurlo all’amore della virtù. Le verità di cui stiamo parlando sono dette nei Salmi; ecco un versetto eloquente per noi: « Una spinta violenta mi fu data perché cadessi » (e qui si sottolinea l’infermità del libero arbitrio), « il Signore è venuto in mio aiuto » (qui si sottolinea la continua assistenza di Dio). Affinché il libero arbitrio non ci spinga alla completa rovina, Dio ci stende la mano ogni volta che ci vede vacillare, ci sostiene col suo aiuto e fortifica i nostri passi. Ecco ancora il Salmista a ripeterci questo concetto: « Se dicevo: vacilla il mio piede », per la fragilità del libero arbitrio, « la tua grazia, o Signore, mi aiutava » (Sal 117,13). Alla confessione della sua debolezza il Salmista fa seguire quella dell’aiuto divino; riconosce infatti che se la sua fede non ha vacillato, ciò non è dipeso da lui, ma dalla misericordia del Signore. Nello stesso Salmo ora citato è detto pure: « Se molti erano gli affanni entro il mio cuore » (tutti derivanti dal mio libero arbitrio), « le tue consolazioni rallegravano l’anima mia » (Sal 93,19). Queste consolazioni – intende dire il Salmista – sono come un soffio della tua bocca, o Signore; penetrano nel mio cuore e gli aprono la vista dei beni futuri, di quei beni che hai promesso a chi soffre per il tuo nome: così l’anima mia è liberata da ogni ansietà ed è ricolma di somma letizia. E il nostro salmo aggiunge, a modo di conclusione: « Se non fosse stato che il Signore mi ha aiutato, abiterebbe già negli Inferi l’anima mia » (Sal 93,17). Il salmista riconosce così che il suo arbitrio corrotto lo avrebbe condotto all’inferno se non lo avesse salvato Dio, col suo aiuto e la sua protezione. « È Dio, infatti, non il libero arbitrio, che guida i passi dell’uomo » (Sal 36,23); anzi, « quando il giusto cade – per colpa del libero arbitrio – non stramazza » (Sal 36,24). E perché? Chi sarà a salvarlo? « Perché il Signore gli pone sotto la sua mano » (Sal 36,23). Quanto siamo andati dicendo significa con chiarezza solare che nessuno, anche se giusto, può bastare da solo ad ottenere la salvezza; la bontà di Dio deve ad ogni istante sostenere i passi vacillanti del giusto, affinché la debolezza del libero arbitrio non gli faccia perdere l’equilibrio e, caduto, lo faccia perire per sempre. XIII – La guida nostra è Dio Nessuno ha mai sentito dire, da quei santi uomini dei nostri Padri, che la scelta della vita per la quale camminavano, come pure il progresso o l’altissimo grado di perfezione raggiunto, erano una conquista della loro industria. Dicevano invece di avere tutto ricevuto dal Signore, al quale rivolgevano la loro preghiera in questi termini: « Guidami nella tua verità » (Sal 24,5) e « dirigi al tuo cospetto la mia via » (Sal 5,9). Il profeta Isaia dice di conoscere la regola da noi presentata, non solo per fede, ma per sua personale esperienza, e perché la trova scritta nella natura stessa delle cose: « Io so, o Signore, che non è in balia dell’uomo la sua strada, né è in suo arbitrio camminare e dirigere i suoi passi » (Ger 10,23). Dio stesso, nel profeta Osea, parla al suo popolo così: « Lo rizzerò io come un verde abete: da me il tuo fratello è stato ritrovato » (Os 5,9). XIV – Dio è il nostro maestro: con la sua luce noi conosciamo la Legge Gli uomini spirituali, anche quando si tratta della scienza della Legge, non dicono di poterla acquistare con lo studio e la lettura, ma l’aspettano dal magistero e dall’illuminazione di Dio, al quale rivolgono ogni giorno questa preghiera: « Le tue vie, o Signore, fammi conoscere, e i tuoi sentieri insegnami » (Sal 24,4). Ancora: « Togli il velo ai miei occhi e considererò le meraviglie della tua Legge » (Sal 118,18). Oppure: « Insegnami a fare la tua volontà perché il mio Dio tu sei » (Sal 142,20). E infine: « Sei tu che insegni all’uomo la sapienza » (Sal 93,10). XV – Ci vengono da Dio sia l’intelligenza per conoscere i comandamenti di Dio, sia gl’impulsi della buona volontà per seguirli Il santo profeta David, pur sapendo che i comandamenti di Dio sono scritti nei libri della legge, più che pensare a leggerli, pensa a domandare al Signore intelligenza per comprenderli. Ecco infatti come prega: « Io sono il tuo servo, o Signore, dammi intelligenza per conoscere i tuoi comandamenti » (Sal 118,125). Eppure, egli possedeva già l’intelligenza derivatagli dalla natura e, quanto ai comandamenti, sapeva che erano scritti nei libri della Legge, libri che teneva di continuo a portata di mano! Con tutto questo egli prega e chiede la grazia di conoscere i comandamenti. Sa bene infatti che la natura sola non basta ad una tale opera; è necessario ancora che la luce di Dio rischiari la ragione, le consenta di penetrare nello spirito della Legge e le faccia scoprire, con la più grande chiarezza, ciò che Dio comanda. Anche s. Paolo attesta la verità di quanto diciamo; ecco le sue parole: « È Dio che produce in noi il volere e l’agire con buona volontà » (Fil 2,13). Si poteva forse parlare con maggior chiarezza di così? l’Apostolo afferma che è Dio a produrre in noi la buona volontà e l’adempimento di ogni buona opera. E altrove soggiunge: « A voi fu data questa grazia rispetto a Cristo, non solo di credere in lui, ma di patire per lui » (Fil 1,29). Resta così confermato che non solo l’inizio della conversione e della fede, ma anche la pazienza per sopportare ci viene da Dio. Convinto della stessa verità, il profeta David implorava così la misericordia del Signore: « Conferma, o Dio, ciò che hai fatto in noi » (Sal 67,29). In tal modo David riconosceva che le primizie della salvezza, concesse dalla grazia e dalla benevolenza di Dio, non bastano: quelle primizie debbono esser condotte alla piena perfezione con un aiuto quotidiano derivante anch’esso dalla divina misericordia. Non è il libero arbitrio, ma è il Signore che scioglie le catene agli schiavi (Sal 145,7); non è la nostra virtù, ma è il Signore che solleva gli abbattuti (Sal 145,8); non è un’attenta lettura della Bibbia, ma è la grazia del Signore che dona la vista ai ciechi. Anzi, a questo punto il testo greco del libro sacro dice: « Chùrios sofòi tuflùs », che significa: « Il Signore rende sapienti i ciechi ». Non è la nostra vigilanza ma è il Signore che custodisce i forestieri (Sal 145,9); non è la nostra forza ma il Signore che sostiene tutti quelli che cadono (Sal 144,14). Quanto è stato detto non aveva lo scopo di proclamare inutile il nostro zelo o vani i nostri sforzi, voleva però persuaderci che senza l’aiuto di Dio siamo incapaci a compiere anche il minimo sforzo, oppure che i nostri sforzi da soli sono incapaci a raggiungere il premio ineffabile della purità. Per arrivare alla meta ci abbisognano assolutamente l’aiuto e la misericordia del Signore: « Per il dì della battaglia si prepara il cavallo, ma è il Signore che dà la salvezza » (Pr 21,31), perché « non per sua forza l’uomo sarà potente » (1 Sam (1 Re; Vulg.) 2,9). Dobbiamo perciò continuamente cantare col profeta David: « La mia forza e il mio vanto non è il libero arbitrio, ma il Signore: egli è stato a me di salvezza » (Sal 117,14). Anche il Dottore delle genti è sicuro di essere diventato un idoneo operaio del Nuovo Testamento, non a causa dei suoi meriti e delle sue fatiche, ma unicamente per la misericordia di Dio. Dice infatti: « Non che da noi stessi siamo capaci di pensare alcunché come fosse da noi, ma la sufficienza nostra viene da Dio » (2 Cor 3,5). Poi conclude: « Dio ci ha pure fatti idonei ad essere ministri di un nuovo Patto » (2 Cor 3,6). XVI – La stessa fede è una grazia di Dio Gli Apostoli compresero benissimo che tutto quanto riguarda la salvezza è dono di Dio, perciò chiesero al Signore anche la fede: « Signore – pregavano – aumenta in noi la fede » (Lc 17,5). Non aspettavano dal loro libero arbitrio la pienezza di questa virtù, ma credevano di poterla ricevere soltanto dalla liberalità di Dio. Di più: l’autore stesso della nostra salvezza c’insegna a riconoscere l’incostanza, la debolezza, l’insufficienza assoluta della nostra fede, quando non sia soccorsa dall’aiuto divino: « Simone, Simone, ecco Satana va in cerca di voi per vagliarvi come si vaglia il grano. Ma io ho pregato per te, affinché la tua fede non venga meno » (Lc 22,31-32). Un altro personaggio evangelico, ammonito dall’esperienza personale, sentiva la propria fede come sospinta dai flutti dell’incredulità verso gli scogli del naufragio, per questo pregava così rivolgendosi al Signore: « Io credo, Signore, aiuta la mia incredulità » (Mc 9,24). Gli Apostoli e gli altri personaggi che popolano il Vangelo avevano capito perfettamente che nessun bene raggiunge in noi la sua perfezione senza l’aiuto di Dio: erano così convinti di non poter neppure conservare la fede, con le sole forze del libero arbitrio, die chiedevano al Signore di porre e conservare in loro la fede. E se la fede di Pietro aveva bisogno dell’aiuto di Dio per non venir meno, chi sarà tanto presuntuoso e cieco da credere di poterla custodire senza quell’aiuto? Non è forse vero che il Signore stesso dichiara la nostra insufficienza quando dice nel Vangelo: « Come il tralcio non può produrre frutto se non rimane unito alla vite, così voi non potete portare frutto se non rimarrete in me » (Gv 15,4). E ancora: « Senza di me non potete far nulla » (Gv 15,5). Quanto sia stolto e sacrilego attribuire a noi stessi, anziché all’aiuto della divina grazia, anche una parte minima dei nostri atti buoni, appare chiaro da una sentenza della divina Scrittura in cui è detto che senza l’ispirazione e la cooperazione della grazia nessuno può produrre frutti spirituali: « Ogni dono ottimo, ogni grazia perfetta, viene dal cielo e scende dal Padre dei lumi » (Gc 1,17). E il profeta Zaccaria soggiunge: « Se c’è qualcosa di buono è di Dio, se c’è qualcosa di ottimo viene da lui » (Zc 9,17). S. Paolo, a sua volta, domanda: « Che cosa hai che tu non abbia ricevuto? E se lo hai ricevuto, perché te ne vanti come se non l’avessi ricevuto? » (1 Cor 4,9). XVII – Dio misura le tentazioni e dà la grazia per superarle Anche la forza per sostenere le tentazioni da cui siamo assaliti, più che dalla nostra virtù, dipende dalla misericordia e dalla sapienza con cui Dio sa misurare la prova. Dice san Paolo: « Tentazione non vi ha sorpreso se non umana; ora Iddio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre quel che potete, ma con la tentazione vi procurerà anche la via d’uscita, affinché possiate sopportarla » (1 Cor 10,16). Lo stesso Apostolo c’insegna che Dio dispone e fortifica le nostre anime per tutte le opere buone, e compie in noi tutto ciò che gli piace: « Il Dio della pace, che in virtù del Sangue dell’eterno patto ha risuscitato da morte il gran pastore delle pecore, il Signore nostro Gesù, vi renda atti ad ogni opera buona, operando egli ciò che è gradito ai suoi occhi » (Eb 13,20-21). E perché questo effetto si compia anche in favore dei Tessalo- nicesi, così prega l’Apostolo: « Lo stesso Signore nostro Gesù Cristo, e Iddio Padre nostro, che ci ha amato e dato eterna consolazione e buona speranza nella grazia sua, consolino i vostri cuori e vi confermino in ogni opera e discorso buono » (2 Ts 2,15-16). XVIII – La perseveranza nel santo timore è dono di Dio Anche il timore di Dio ci è infuso dall’alto. Il profeta Geremia lo afferma chiaramente quando, parlando a nome di Dio, dice: « E darò a loro un cuor uno e un’unica via affinché mi temano in ogni tempo e abbiano bene, essi e i loro figlioli dopo di loro. E stringerò con loro un patto sempiterno, e non cesserò più dal beneficarli, e metterò nel loro cuore il timore, affinché non si ritirino più da me » (Ger 32,39-40). Ezechiele parla allo stesso modo: « E darò loro un cuore unanime, un nuovo spirito infonderò nel loro interno, e strapperò dai loro precordi il cuore di sasso e vi sostituirò un cuore di carne; affinché camminino sulla via dei miei precetti, osservino i miei statuti e li mettano in pratica: ed essi siano il mio popolo e io sia il loro Dio »(Ez 11,19-20). XIX – Inizio e termine della buona volontà vengono da Dio Da tutto ciò discende una verità evidentissima: il primo moto della buona volontà ci viene da una ispirazione di Dio, sia che egli stesso ci attiri direttamente alla via della salute, sia che lo faccia attraverso le esortazioni di qualche persona, o attraverso la forza delle cose e degli eventi; ma anche la perfezione delle virtù ci viene da Dio. Quel che possiamo mettere noi è la corrispondenza, fervorosa o tiepida, agli impulsi della grazia; e meriteremo premio o castigo secondo che ci saremo studiati o no di accordare con l’opera della benignissima provvidenza la nostra risposta obbediente e devota. Tutto ciò si trova descritto nel Deuteronomio con chiarezza lampante: « Quando il Signore Dio tuo ti avrà introdotto in quella terra della quale tu devi diventare possessore, ed avrà fugato innanzi a te molte genti: l’Eteo, il Gergeseo, l’Amorreo, il Cananeo, il Ferezeo, l’Eveo, il Gebuseo, sette popoli molto più numerosi e più forti di te; quando il Signore Dio tuo li avrà abbandonati in tuo potere, li sterminerà fino all’ultimo. Non verrai a patto con loro, né avrai di loro compassione, né ti unirai con loro in matrimonio » (Dt 7,1-3). La Scrittura dunque afferma che l’opera più importante dipende da Dio: far entrare il popolo d’Israele nella terra promessa, annientare davanti a lui molte nazioni, far cadere nelle sue mani popoli più numerosi e più forti. È invece opera del popolo ebraico annientare o risparmiare quelle genti, stabilire con loro alleanze e matrimoni, oppure non stabilirne. Da questa testimonianza della sacra Scrittura noi possiamo giudicare che cosa sia da ascrivere al nostro libero arbitrio e che cosa sia da attribuire al dono del Signore e alla sua continua assistenza. Presentarci le occasioni di salvezza e farci progredire felicemente fino alla vittoria finale spetta alla grazia divina, rispondere con ardimento o con pigrizia ai benefici di Dio è opera nostra [ii]. Questo principio si trova chiaramente espresso anche nella guarigione dei due ciechi. Gesù passa davanti a loro: ecco la grazia della divina bontà e della Provvidenza. Essi gridano: Signore, figlio di David, abbi pietà di noi: ecco l’opera della loro fede. Finalmente riacquistano la vista: ecco il dono della divina misericordia. La storia dei dieci lebbrosi, guariti tutti insieme, dimostra che quando il dono di Dio è stato largito, grazia e libero arbitrio rimangono ancora nel soggetto. Infatti uno solo dei lebbrosi guariti, in virtù del suo libero arbitrio, torna a rendere grazie. Il Signore, poi, lodando colui che è tornato a ringraziare, e lamentandosi di nove mancanti, fa comprendere che egli conserva la sua sollecitudine e la sua volontà di soccorrere anche verso coloro che si mostrano immemori dei suoi benefici. È poi dono della grazia di Dio, sia la benevola accoglienza a chi si dimostra grato, sia il rimprovero a chi si mostra ingrato. XX – In questo mondo niente si fa senza Dio Ci conviene credere, con certezza irremovibile, che niente si fa in questo mondo senza Dio. Bisogna infatti riconoscere che tutto avviene, o per sua volontà o per sua permissione. Il bene avviene per volontà e concorso di Dio, il male avviene per sua permissione, in quanto che, per punirci delle nostre colpe e per la durezza del nostro cuore, Dio ci abbandona al potere del demonio e alla tirannia vergognosa delle passioni carnali. Tutto questo ci insegna esplicitamente s. Paolo quando dice: « Per questo li abbandonò Dio a passioni d’infamia » (Rm 1,26). E ancora: « Poiché non si dettero cura di conoscere Dio, li abbandonò Iddio ai reprobi sentimenti, a far ciò che non si deve » (Rm 1,28). Il Signore stesso dice per bocca del Profeta: « Non ascoltò il mio popolo la mia voce, e Israele non badò a me. E li abbandonai alla durezza del loro cuore, che si conducessero a loro capriccio » (Sal 80,12-13). XXI – Obiezione derivante dal libero arbitrio Germano – Ma ecco un testo che dimostra irrefragabilmente (ovvero: in modo molto evidente. Ndr.) il libero arbitrio. Dice Iddio: « Se il mio popolo mi avesse ascoltato… » (Sal 80,14). E altrove: « Il mio popolo non ha ascoltato la mia voce » (Sal 80,12). Allorché la Sacra Scrittura dice: se avesse ascoltato, dimostra chiaramente che era in potere del popolo dare o non dare ascolto. E allora, perché non dobbiamo far dipendere la nostra salvezza da noi stessi, dal momento che Dio ci ha dato facoltà di ascoltarlo e di non ascoltarlo? XXII – Risposta: il nostro libero arbitrio ha sempre bisogno dell’aiuto divino Panuzio – Voi discutete con acutezza sulle parole: se il mio popolo avesse ascoltato, ma non fate attenzione a chi parla, a chi ascolta, né tenete conto delle parole che seguono. Proviamo a vedere quel discorso nella sua completezza: « Se il mio popolo mi avesse ascoltato, come un nulla avrei forse umiliato i suoi nemici, e sopra i suoi avversari avrei steso la mia mano » (Sal 80,15). I testi da me riferiti, per dimostrare che niente si fa senza l’intervento di Dio, non si possono sottoporre a una interpretazione capziosa, così da farli servire alla difesa del libero arbitrio e alla negazione della grazia di Dio e del suo soccorso quotidiano. Dire: il mio popolo non ha ascoltato la mia voce, oppure: se il mio popolo mi avesse ascoltato e Israele avesse camminato sulle mie vie, non è lo stesso che negare l’intervento di Dio. Bisogna invece ammettere che, se la libertà del popolo si manifesta nella disobbedienza, non si manifesta meno la continua provvidenza attraverso le continue ammonizioni che Dio indirizza al suo popolo. Quando il Signore lamenta: « Se il mio popolo mi avesse ascoltato », dimostra evidentemente di avergli parlato per primo. Si noti inoltre che Dio non parla al popolo soltanto attraverso la legge scritta, ma anche con richiami quotidiani, secondo quanto dice Isaia: « Ho steso le mie mani tutto il dì ad un popolo incredulo che mi contraddice » (Is 65,2). Il testo da voi citato: « Se il mio popolo mi avesse ascoltato, se Israele avesse camminato per le mie vie, avrei annientato i suoi nemici e avrei steso la mia mano su coloro che l’opprimono », mi sembra tale da provare allo stesso tempo il libero arbitrio e la grazia. Il libero arbitrio è provato dalla disobbedienza del popolo; la grazia e il soccorso di Dio si mostrano nell’inizio e nella fine del versetto, là dove Dio ricorda che egli ha parlato per primo e che avrebbe umiliato i nemici d’Israele, se questo avesse dato ascolto alla sua voce. Noi, poi, non abbiamo inteso distruggere il libero arbitrio, con i testi presi dalla sacra Scrittura; abbiamo soltanto voluto provare che al nostro libero arbitrio è necessario l’aiuto di Dio in ogni giorno e in ogni momento. Dopo averci ammaestrati con questi ragionamenti, l’abate Panuzio ci congedò verso la mezzanotte. Lasciando la sua cella noi ci sentivamo molto infervorati ma anche molto tristi. Con la sua conferenza, infatti, ci aveva condotti ad una persuasione poco lusinghiera: noi avevamo creduto di poter raggiungere il culmine della perfezione con la prima rinuncia, che era quella in cui ci trovavamo impegnati con tutte le nostre forze; ora invece scoprivamo di non aver visto neppure in sogno le vette della vita monastica. Riguardo alla seconda rinunzia, qualcosa c’era stato detto nei monasteri dei cenobiti, ma della terza, cioè di quella che contiene tutta la perfezione e supera le prime due in modi innumerevoli, non avevamo sentito neppur parlare. [i] Queste parole di Cassiano sono da prendere con una certa cautela. Nella introduzione all’opera abbiamo fatto cenno alle tendenze pelagiane del nostro autore, ora aggiungiamo che la proposizione presente può essere presa in senso pelagiano, o meglio ancora: semi-pelagiano. La dottrina della Chiesa, oltre ad insegnare che della grazia di Dio c’è bisogno all’inizio e alla fine della vita spirituale, perché conversione e perseveranza finale son grazie che nessuno può meritare, insegna anche che della grazia c’è bisogno in quello stadio intermedio che a detta di Cassiano sembrerebbe campo esclusivo del libero arbitrio. Vero è che non manca chi interpreta benignamente questo passo. Secondo alcuni commentatori Cassiano intenderebbe dire che il progresso della vita spirituale non dipende solo dalla grazia, ma anche dalla cooperazione del libero arbitrio. Comunque sia, noi abbiamo voluto richiamare la genuina dottrina della Chiesa a scanso di ogni equivoco. [ii] Rimandiamo alla nota del cap. XII, dove si parla della necessità della grazia non solo per l’inizio e il termine della salvezza, ma anche per lo stadio intermedio. Nel presente capitolo tutte le incertezze, già notate nella dottrina di Cassiano circa la grazia, tornano in campo. CONFERENZA DELL’ABATE DANIELE LA CONCUPISCENZA CARNALE E SPIRITUALE Estratto da “Giovanni Cassiano – Conferenze spirituali” – Edizioni Paoline 1965 Indice dei Capitoli I – Vita dell’abate Daniele; – I – Vita dell’abate Daniele Tra gli eroi della filosofia cristiana, da noi visitati nel deserto, ci fu anche l’abate Daniele. In nessuna virtù egli era inferiore agli altri santi uomini che abitavano l’eremo di Scito, però si distingueva fra tutti per la grazia dell’umiltà. Una particolare nota di purezza e di mansuetudine gli aveva meritato che l’abate Panuzio, unico prete di quella solitudine, lo eleggesse all’ufficio di diacono, preferendolo in ciò a molti altri più anziani di lui. Il vecchio Panuzio si rallegrava tanto della virtù di Daniele che, vedendolo pari a sé nei meriti e nel metodo di vita, desiderava farlo pari a sé anche nella dignità del sacerdozio. Perciò, mal sopportando di vederlo rimanere troppo a lungo in un grado inferiore, e desideroso com’era di provvedersi in lui un successore degnissimo, lo promosse al grado sacerdotale. Daniele però, senza nulla perdere della sua abituale umiltà, finché visse Panuzio mai esercitò l’ordine sacerdotale al quale era stato elevato: continuò a fare il suo ufficio di diacono, mentre il suo maestro offriva le ostie spirituali. L’abate Panuzio, quantunque fosse un uomo tanto santo da meritare talvolta la grazia di conoscere il futuro, in questo caso vide riuscir vana la sua elezione e la sua speranza. Non molto tempo più tardi, infatti, colui che s’era scelto come successore morì e se ne andò a Dio prima del vecchio maestro. II – Domanda: come avviene l’improvviso passaggio da una gioia ineffabile a una nera tristezza? Al beato Daniele noi domandammo come mai qualche volta, mentre ce ne stiamo ritirati nella nostra celletta, sentiamo il nostro cuore riempirsi di un piacere ineffabile e di sentimenti elevati che traboccano da ogni parte, tanto che non si trovano parole per dire un tale stato, e la mente stessa è incapace a capirlo. La preghiera in quei momenti è pura e facile, l’anima abbonda di frutti spirituali, sente che le sue preghiere (continuate anche nello stato di dormiveglia) giungono lievi ed accette fino a Dio. Poi, all’improvviso e senza motivo alcuno, accade che ci sentiamo pieni d’angoscia e di una tristezza della quale non si sa dare spiegazione. La sorgente delle esperienze spirituali s’inaridisce, la cella ci diventa insopportabile, la lettura divina produce nausea, la preghiera si fa instabile e vacillante come se fosse ubriaca. Piombati in questa condizione, noi gemiamo e ci sforziamo di condurre l’anima nostra alla sua prima direzione, ma tutti gli sforzi son vani. Quanto più ci studiamo di ritornare alla contemplazione divina, tanto più la mente si smarrisce nei suoi vagabondaggi. Siamo caduti nella sterilità: né il desiderio del cielo, né il timore dell’inferno possono svegliarci da questo sonno di morte. Il venerabile Daniele ci rispose. III – Risposta dia domanda precedente I nostri Padri hanno indicato tre ragioni per spiegare la sterilità della quale voi state trattando: essa può derivare dalla nostra negligenza, da una tentazione del demonio, da una prova mandataci da Dio. L’aridità può venire dalla negligenza. Per nostra colpa noi, in passato, abbiamo agito senza vigilanza e senza impegno, per una malaugurata pigrizia ci siamo nutriti di cattivi pensieri, facendo così germogliare nel campo del nostro cuore triboli e spine. In conseguenza di ciò siamo diventati sterili, completamente privi di frutti spirituali e di contemplazione. La sterilità può venire anche da tentazione del demonio. Talvolta, mentre siamo tutti occupati in santi desideri, il nostro scaltro nemico s’insinua nell’anima e, senza che noi lo sappiamo e lo vogliamo, ci distrae dai pensieri più nobili e alti. IV – Doppia spiegazione della condotta di Dio in questa prova La prova ci viene talvolta da Dio, il quale agisce così per due ragioni. Ecco la prima. Trovandoci abbandonati dal Signore per un certo tempo e considerando umilmente la nostra fragilità, non ci insuperbiremo della purezza di cuore con la quale Dio ci aveva ornati durante la sua visita precedente. Accorgendoci inoltre, mentre stiamo in questo abbandono, che i gemiti e gli sforzi non bastano a farci riconquistare il nostro primo stato di gioia e di purezza, comprenderemo che la nostra contentezza passata non era frutto del nostro zelo, ma dono della divina misericordia. Ci convinceremo infine che quel dono dobbiamo chiederlo a Dio, fonte di grazia e di luce. L’altro motivo per cui Dio manda l’aridità di spirito è che egli vuol mettere alla prova la perseveranza, la costanza, il desiderio dell’anima nostra: vuol farci capire con quale ardore e con quale perseveranza nella preghiera dobbiamo chiedergli il ritorno dello Spirito Santo, dopo che si è partito da noi. Vuole insomma – col farci sperimentare quanto costa riacquistare la gioia spirituale e 1’allegrezza della purità – insegnarci a difendere quei tesori con cura più attenta, prima di farceli strappare; vuole anche insegnarci a conservarli con maggior studio, dopo che li avremo ritrovati. Noi infatti siamo portati a custodire con minor diligenza ciò che pensiamo di poter riavere con maggior facilità. V – Il nostro impegno e la nostra industria non possono nulla senza l’aiuto di Dio Tutto quel che abbiamo detto prova con evidenza che sono la grazia e la misericordia di Dio ad operare in noi ogni bene. Se Dio ci abbandona, a nulla valgono le nostre fatiche e i nostri sforzi. Per quanti sforzi facciamo, non potremo riprodurre lo stato antecedente finché Dio non ci doni di nuovo il suo aiuto. Così vediamo avverarsi in noi le parole di s. Paolo che dice: « Non è di chi vuole, né di chi corre, ma di Dio misericordioso » (Rm 9,16). Ma talvolta avviene che la grazia ci visiti con le sue sante ispirazioni e susciti in noi abbondanza di pensieri spirituali, proprio mentre viviamo sprofondati nella negligenza e nel rilassamento. Allora la grazia ci ispira, anche se siamo indegni, ci sveglia dal sonno, ci illumina nell’accecamento della nostra ignoranza, ci rimprovera e ci castiga con clemenza, si effonde nei nostri cuori, affinché, penetrati dalla compunzione, siamo sollecitati a svegliarci dal torpore della nostra inerzia. Spesso anche accade che in occasione di queste visite della grazia, ci sentiamo improvvisamente inondati da certi profumi che superano in soavità ogni arte umana, cosicché l’anima nostra, come sopraffatta dal piacere, è rapita e trasportata fuori di sé e dimentica di essere ancora unita alla carne. VI – È utile per noi essere qualche volta abbandonati da Dio Il santo profeta David conobbe così bene l’utilità di questo allontanamento o abbandono da parte di Dio, che nelle sue preghiere non volle mai domandare di esserne completamente liberato: egli sapeva che tale liberazione non sarebbe stata conveniente alla nostra natura, qualunque grado di perfezione essa possa avere raggiunto. Perciò David si limitava a chiedere che Dio mitigasse la sua assenza, e diceva: « Non mi abbandonare interamente » (Sal 118,8). Era come se dicesse: « So che per il bene dei tuoi servi sei solito abbandonarli qualche volta e metterli, così, alla prova; altrimenti, se non fossero da te per un poco abbandonati, il nemico non potrebbe tentarli. Perciò io non ti chiedo di non essere mai abbandonato, che non sarebbe bene per me non poter mai dire, convinto della mia debolezza: buon per me che mi hai umiliato (Sal 118,71), e neppure sarebbe bene che io rimanessi privo di occasioni per esercitarmi nel combattimento. Ed è certo che quella occasione mi mancherebbe se la tua protezione, o Signore, non mi abbandonasse neppure un istante. « Finché mi vede protetto dalla tua difesa, il demonio non ardirà di tentarmi e ripeterà come un rimprovero, a te e a me, le parole provocatorie che è solito dire contro i tuoi atleti: « Giobbe teme forse Dio senza guadagno? Non hai tu forse recinto tutto intorno con un riparo lui e la sua famiglia e le sue possessioni? » (Gb 1,9-10). Io ti domando, o Signore, di non abbandonarmi completamente, o come dice il testo greco eos sfòdra, che significa: fino all’eccesso. Come infatti è utile che ti allontani per qualche tempo, affinché io possa sperimentare la costanza dei miei desideri, così, sarebbe sommamente dannoso che il tuo abbandono fosse eccessivo e sproporzionato alla gravità dei miei peccati. Nessuna virtù umana, se nella prova resta priva del tuo aiuto, potrà mantenersi costante; dovrà necessariamente soccombere alla forza e all’astuzia del demonio se tu, o Signore, che conosci la debolezza dell’uomo e moderi il combattimento, non impedisci che l’uomo sia tentato al di là delle sue forze e non dai, con la tentazione, anche la via d’uscita, affinché possa sopportarla » (1 Cor 10,13). Qualche cosa di simile è detto misticamente anche nel libro dei Giudici, a proposito dello sterminio dei popoli che si opponevano ad Israele: quei popoli – ricordiamolo – erano figura dei nostri spirituali nemici: « Sono queste le nazioni che Dio lasciò sopravvivere per mettere alla prova Israele e tutti coloro che non avevan conosciuto le guerre dei Cananei, affinché i figli loro imparassero poi a combattere coi nemici e si abituassero alla guerra » (Gdc 3,1-2). Poco dopo, lo stesso libro aggiunge : « Il Signore li lasciò sopravvivere per mettere alla prova, per loro mezzo, Israele, e per vedere se ascoltasse o no i comandamenti che il Signore aveva dato ai Padri per mezzo di Mosè » (Gdc 3,4). Dio procurò queste lotte al suo popolo, non già perché avesse invidia della sua pace, o perché gli volesse arrecare dei mali, ma perché sapeva che gli sarebbero tornate utili. Umiliato dai continui attacchi di quei popoli, Israele avrebbe capito di non poter fare a meno dell’aiuto di Dio; anzi, proprio per causa di quegli attacchi sarebbe rimasto costantemente occupato nel pensiero e nell’invocazione di Dio, senza lasciarsi infiacchire dall’ozio, senza dimenticare l’arte della guerra e l’esercizio delle virtù. Spesso infatti quelli che non furono vinti dalle avversità, furono vinti dalla pace e dalla prosperità. VII – Utilità di quel combattimento che l’Apostolo chiama: « lotta tra carne e spirito ». Ecco una guerra penetrata nelle membra del nostro corpo e voluta dalla provvidenza divina. Quando una cosa si ritrova in tutti gli uomini, senza eccezione alcuna, come fare a non giudicarla un attributo divenuto comune a tutta l’umanità dopo la caduta? E come spiegare ciò che si trova innato in tutti, se non ammettendo che lo ha messo in noi il Signore, il quale era mosso nel far ciò dalla volontà di giovarci e non di nuocerci? La causa di questa guerra fra la carne e lo spirito è spiegata da s. Paolo con queste parole: « affinché non facciate tutto quel che vorreste ». A questo punto io domando: se si avverasse nei fatti quel che Dio ha cercato d’impedire: il fare cioè quel che ci talenta, non è vero che ciò sarebbe un male? E allora in qualche modo è utile questa guerra che per disposizione di Dio sta accesa nel nostro corpo: essa ci sospinge e ci sforza a diventare migliori: se per caso si spegnesse ne seguirebbe certamente una pace dannosa. VIII – Domanda: perché l’Apostolo, nel testo citato, dopo aver presentato la carne e lo spirito in lotta tra loro, parla in terzo luogo della libertà? Germano – Da quanto è stato detto ci appare già qualche potente sprazzo del pensiero di san Paolo, ma quel pensiero non si mostra ancora in tutta la sua luce: vorremmo perciò che ci fosse dilucidato più a fondo. Nel passo riferito pare si affermino tre cose: al primo posto la lotta della carne contro lo spirito, al secondo posto la concupiscenza dello spirito contro la carne, al terzo posto è la nostra volontà, che tiene per così dire una posizione intermedia; dì essa si dice: « affinché non facciate tutto quel che vorreste ». Su questo punto, nonostante ciò che è stato detto, noi conserviamo ancora qualche incertezza, perciò vorremmo – dato che questa conferenza ce ne offre l’occasione – essere illuminati maggiormente. IX – Risposta: saper interrogare è segno d’intelligenza Daniele – È compito dell’intelligenza conoscere gli aspetti e le grandi linee di ogni questione; è compito della scienza far conoscere quel che prima non si conosceva. Per questo è detto nella sacra Scrittura: « Lo stolto che interroga sarà reputato saggio » (Pr 17,28). È chiaro infatti che colui il quale interroga ignora la sostanza della questione, ma poiché interroga, dimostra di capire che non ha capito; proprio questo in lui sarà stimato sapienza: aver riconosciuto prudentemente quel che non sapeva. Secondo la vostra divisione sembra che l’Apostolo nomini tre cose: la concupiscenza della carne contro lo spirito, la concupiscenza dello spirito contro la carne, la causa di questo combattimento che consiste – per usare le parole stesse dell’Apostolo – nell’impedirci di fare quel che vorremmo. Ma c’è un quarto elemento che a voi è sfuggito, ed è che noi, da questa lotta, siamo spinti a fare ciò che non vorremmo. Ecco dunque il nostro compito. Dobbiamo innanzi tutto imparare a conoscere queste due concupiscenze: quella della carne e quella dello spirito; poi esamineremo che cosa sia questa volontà che sta di mezzo fra le due concupiscenze; infine esamineremo quel che non è in potere della nostra volontà. X – La parola “carne” non è usata univocamente La parola « carne », nella sacra Scrittura, è usata in molti significati. Talvolta indica l’uomo nella sua completezza, come composto d’anima e di corpo, così si dice: « Il Verbo s’è fatto carne » (Gv 1,14), oppure: « Ogni carne vedrà la salute di Dio » (Lc 3,6). Altre volte significa gli uomini peccatori carnali: « Il mio spirito non abiterà nell’uomo sempre, perché egli è carne » (Gen 6,3). Altre volte ancora, « carne » è sinonimo di peccato, come quando si dice: « Voi non siete nella carne, ma nello spirito » (Rm 8,9), oppure: « La carne e il sangue non possederanno il regno di Dio » (1 Cor 15,50), a cui si aggiunge immediatamente: « Né la corruzione può ereditare l’incorruttibilità ». In certi casi la parola « carne » indica discendenza da uno stesso stipite, parentela, come quando è detto: « Ecco, noi siamo tue ossa e tua carne » (2 Sam (2 Re; Vulg.), 5,1). Anche l’Apostolo usa il termine in questo senso: « Se mi avverrà di suscitare l’emulazione della mia carne (=la gente della sua stirpe) e di poterne salvare qualcuno » (Rm 11,14). Ora bisogna scoprire in quale di questi quattro significati è usato il termine « carne » nel testo che c’interessa. È chiaro che il primo significato, quello riscontrato nelle parole: « Il Verbo s’è fatto carne » e « Ogni carne vedrà la salvezza di Dio », non può fare al caso nostro. Neppure il secondo significato, quello che sottostà alle parole: « Il mio spirito non rimarrà nell’uomo perché egli è carne », va bene per noi. Nel testo di san Paolo: « La carne ha desideri contro lo spirito e lo spirito ha desideri contro la carne », non s’intende parlare semplicemente ed esclusivamente dell’uomo peccatore, come invece intende il Genesi quando dice: « il mio spirito non rimarrà nell’uomo perché egli è carne ». Inoltre l’Apostolo non parla di una sostanza ma di due attività che si affrontano in uno stesso uomo, sia che vi si trovino contemporaneamente, sia che si succedano col variare dei tempi. XI – Che cosa significa “carne” per san Paolo e che cosa sia la concupiscenza della carne Quando san Paolo dice « carne », non si deve intendere l’uomo, cioè la sostanza dell’uomo; si deve intendere invece la volontà della carne o i cattivi desideri. Allo stesso modo, quando l’Apostolo dice « spirito », non intende qualcosa di sostanziale, ma indica le aspirazioni buone e spirituali. Questo senso si ritrova chiarissimo nel passo già tante volte citato, purché lo si legga per intero. Eccolo ora fin dal suo inizio: « Io dico: conducetevi secondo lo spirito e non soddisfate i desideri della carne. La carne ha desideri contrari allo spirito e lo spirito li ha contrari alla carne; son cose opposte fra loro, sicché voi non dovete fate tutto quel che vorreste » (Gal 5,16-17). Siccome questi contrastanti desideri – quelli della carne e quelli dello spirito – coabitano in un solo uomo, ne nasce una guerra intestina che non ha mai tregua. La concupiscenza della carne si precipita al vizio e si diletta di tutti quei piaceri che riguardano la tranquillità terrestre; la concupiscenza dello spirito si oppone a quei piaceri e tanto desidera dedicarsi ai pensieri delle cose celesti, che vorrebbe liberarsi anche dalle più elementari necessità della carne. Tanto vorrebbe unirsi a Dio da rifiutare al corpo persino quelle cure che la nostra fragilità esige assolutamente. La carne si pasce di lussuria e di libidine, lo spirito non vuole ascoltare neppure i desideri conformi alla natura. Quella ama saziarsi di sonno e riempirsi di cibo, questo vuole tanto impinguarsi di veglie e di digiuni che si mostra insofferente del sonno e del cibo anche nella misura richiesta dalle necessità del vivere. Ad una piace abbondare in tutto, all’altro sembra anche troppo avere ogni giorno una modesta razione di pane. Quella si diletta ad abbellirsi con bagni quotidiani, e desidera essere attorniata da turbe di adulatori; questo gode di un corpo squallido e mal vestito e della sconfinata vastità del deserto, dove può evitare la presenza degli uomini. Quella si pasce con gli onori e le lodi degli uomini, questo si vanta delle ingiurie e delle persecuzioni che gli possono capitare. XII – Che cosa sia la volontà che viene situata tra la concupiscenza della carne e quella dello spirito Tra le due concupiscenze che la sollecitano, la nostra volontà sceglie e mantiene una vituperevole via di mezzo: non si diletta delle brutture del vizio, ma neppure acconsente ai sacrifici della virtù. Cerca di star lontana dalle passioni della carne, ma non vuol sostenere quelle prove dolorose senza le quali non si possono compiere i desideri dello spirito. Vuol possedere la castità del corpo senza castigare la carne; acquistare la purezza del cuore, senza la pratica delle veglie; essere ricca di virtù, senza rinunziare al piacere della quiete; possedere la grazia della pazienza, senza essere colpita dalla rudezza delle ingiurie; praticare l’umiltà di Cristo, senza patire la perdita degli onori mondani. Vorrebbe, sì, abbracciare la semplicità della religione, ma non perdere per questo gli applausi e le approvazioni degli uomini; vorrebbe professare integralmente la verità, ma senza dispiacere minimamente ad alcuno; in una parola: pretenderebbe assicurarsi i beni eterni, senza rinunciare a quelli presenti. Una simile volontà non ci acconsentirà mai di raggiungere la vera perfezione; ci indurrà piuttosto in uno stato deplorevole di tiepidezza: ci farà somiglianti a colui che il Signore colpisce col suo rimprovero nell’Apocalisse: ”Io so le tue opere, che non sei né freddo né fervente. Fossi tu freddo oppure fervente! Ma poiché sei tiepido, e non fervente né freddo, sto per vomitarti dalla mia bocca » (Ap 3,15-16). Rallegriamoci dunque che le guerre insorgenti da ogni parte, tra la carne e lo spirito, rompano il grigiore della nostra tiepidezza! Se, per compiacere alla nostra volontà, ci lasciamo andare un poco verso il rilassamento, subito il pungiglione della carne insorge e ci percuote: i vizi e le passioni non ci permettono di rimanere in quello stato di purezza che tanto ci diletta, ma ci trascinano, per ima via spinosa, verso quella fredda voluttà che ci fa orrore. Se invece, accesi di fervore spirituale e decisi a sopprimere le opere della carne, pensiamo di consacrarci completamente alla pratica della virtù, e ciò senza tener conto della fragilità umana, ecco che la debolezza della carne ci frena e ci richiama dalla nostra dannosa esagerazione. Nel contrasto tra le due opposte concupiscenze, la volontà dell’anima, che trova ripugnanza ad abbandonarsi completamente ai desideri della carne, ma trova altresì difficile faticare e sudare per osservare la virtù, viene a stabilirsi in un certo stato di equilibrio. Il contrasto tra le due forze opposte allontana l’inclinazione più dannosa e pone in noi una specie di facoltà regolatrice che segna con giusta distinzione i confini tra ciò che è spirituale e ciò che è carnale, senza permettere che l’anima nostra inclini di più a destra, sollecitata dagli ardori eccessivi dello spirito, o a sinistra, incitata dall’aculeo del vizio. Questa guerra intestina di cui ciascuno di noi è ogni giorno campo di battaglia, ha, come buon risultato, quello di condurci a quel « quarto effetto » di cui sopra parlavamo, a fare cioè anche le cose che non vorremmo, quando siano giovevoli all’anima. E di che si tratta più esplicitamente? Di acquistare la purezza del cuore, non già attraverso l’ozio e la tranquillità ma con la fatica continua e la contrizione dello spirito; di conservare la castità con digiuni severi, nella fame, nella sete, nella vigilanza; di dare al nostro cuore l’orientamento verso Dio per mezzo della lettura divina, le veglie, la preghiera continua, la nuda solitudine del deserto; di conservare la pazienza con la sopportazione delle avversità; di servire il nostro Creatore tra le offese e gli obbrobri; di dir la verità anche a costo di attirarci – se necessario – l’abbandono e l’inimicizia del mondo. Finché dura nel nostro corpo questa lotta, noi siamo strappati alla pigra sicurezza ed eccitati all’amore della virtù: è così che si stabilisce in noi un giusto equilibrio. La tiepidezza della nostra libera volontà viene ad essere corretta: il suo correttivo è, da una parte, l’ardore dello spirito che la stimola, dall’altra parte, il freddo rigore della carne che fa da contrappeso all’ardore dello spirito. La concupiscenza dello spirito non permette che l’anima sia trascinata verso i vizi sfrenati, la fragilità della carne – a sua volta – non permette che lo spirito si spinga fino ad un desiderio irragionevole della virtù. In tal modo resta impossibile ai vizi d’ogni sorta di pullulare; resta impossibile anche alla nostra malattia capitale, che è la superbia, di manifestarsi e produrre in noi ferite più gravi. Dalla lotta fra gli opposti nasce l’equilibrio. Si apre così, fra i due eccessi, la via della virtù, saggia e moderata: quella è la via che guida i passi del soldato di Cristo. Se la debolezza della nostra volontà tanto accidiosa, porta l’anima troppo violentemente verso i piaceri della carne, la concupiscenza dello spirito pone un freno, perché lo spirito non sa adattarsi ai vizi del mondo. Ma se il fervore eccessivo d’un cuore esaltato trasporta lo spirito a pratiche impossibili e inopportune, la infermità della carne lo ricondurrà al giusto grado d’intensità. Lo spirito perciò, dopo aver superato lo stato di torpore della volontà, ed aver raggiunto una buona moderazione nel fervore, avanzerà con slancio e con fatica, per la via della perfezione, fattasi ormai sicura e piana. Qualcosa che fa al caso nostro si legge nel Genesi, là dove è narrata la costruzione della torre di Babele, quando la improvvisa confusione delle lingue pose fine alle bravate sacrileghe ed empie degli uomini. La tremenda concordia della ribellione a Dio, (meglio sarebbe dire la concordia nel danneggiare se stessi con l’attentato alla divina maestà) sarebbe durata chissà quanto se Dio non avesse chiamato gli uomini a miglior consiglio con la confusione delle lingue e il contrasto delle parole. Fu quel benefico disaccordo a rimettere sulla via della salvezza coloro che da una detestabile concordia erano condotti verso la perdizione. La divisione che entrò fra loro li condusse a riconoscere quella fragilità umana che prima, nell’orgoglio della colpevole concordia avevano ignorato. XIII – Utilità della lentezza che nasce dalla lotta tra carne e spirito Da questo scontro di forze contrarie nasce una lentezza per noi vantaggiosa, un indugio salutare. Mentre la pesantezza del corpo ci ritarda dal compiere quei cattivi pensieri che la mente concepì, accade talvolta che ci assalga il rimorso o si produca in noi un certo miglioramento, per lo più effetto di riflessione e di indugio ad agire. In tal modo avviene che noi ci correggiamo e veniamo a sentimenti migliori per le resistenze che la carne ci ha opposto. Vediamo invece che coloro i quali non sono ritardati dall’ostacolo della carne nel mandare ad effetto i desideri della volontà – intendo dire i demoni e gli spiriti del male – son decaduti dall’ordine eccelso degli angeli e diventati peggiori degli uomini. In loro, desiderio e possibilità di tradurlo in pratica, stanno ad immediato contatto, e perché l’esecuzione dei malvagi propositi non può subire alcun ritardo, il male che fanno è irrevocabile. Quanto è pronto il loro spirito a pensare il male, altrettanto è pronta la loro natura a farlo; ma la facilità di cui essi godono nel fare tutto quello che vogliono, toglie alla facoltà deliberativa l’occasione d’intervenire per correggere – col suo salutare intervento – il male che era nel pensiero. XIV – Malizia incorreggibile degli spiriti malvagi La sostanza spirituale, per non essere gravata dalla pesantezza della carne, non ha alcuna scusa da addurre contro i cattivi propositi che nascono in essa. Per questo non le può essere perdonata la sua malignità. Nelle sostanze spirituali il male non è sollecitato – come in noi – dagli assalti della carne, ma è acceso unicamente dalla malizia della volontà perversa. Il loro peccato è quindi senza perdono, il loro male senza rimedio. Siccome la caduta non è stata provocata in loro da una natura terrestre, così non possono ottenere indulgenza o tempo di pentirsi. Da ciò si deduce chiaramente che la guerra combattuta in ciascuno di noi tra la carne e lo spirito, non solo non è fonte di danno, ma è, al contrario, fonte di non piccola utilità. XV – In che cosa ci giova la concupiscenza della carne contro lo spirito Il primo vantaggio di questa lotta è che ci convince della nostra pigrizia e della nostra negligenza. A somiglianza di un espertissimo pedagogo, non permette che noi abbiamo mai ad allontanarci dalla via della stretta osservanza e della regolarità. Se per caso la nostra spensieratezza oltrepassa i limiti di serietà prescritta alla nostra condotta, il flagello della tentazione subito ci stimola e d richiama, rimproverandoci, all’austerità che dobbiamo osservare. Vediamo ora il secondo vantaggio. Il favore della grazia divina ha voluto che la nostra castità rimanesse lungo tempo immune dagli assalti e dagli appetiti della carne. Noi abbiamo incominciato a credere per questo di essere ormai liberati anche dai più innocenti movimenti carnali: ci siamo inorgogliti nel segreto della nostra coscienza, come se non avessimo più da portare il peso di questo corpo corruttibile. Ma ecco che all’improvviso siamo sorpresi da qualche moto carnale, sia pure involontario e non colpevole, che ci abbatte, ci umilia e ci ricorda che siamo dei poveri uomini sottoposti agli stimoli della carne. Di solito noi ci disinteressiamo, senza neppur provare pentimento, di certi difetti che sono assai più gravi e dannosi di quei fenomeni spontanei che si producono nella sfera sessuale del nostro organismo: ciò perché il vizio della carne ha questo di particolare: ci umilia di più. Oltre a ciò un esperimento triste di genere carnale risveglia in noi il rimorso anche per altre passioni, delle quali non ci diamo alcun pensiero. L’anima non fa gran caso ai vizi dello spirito, quantunque contragga da quelli le sue vergogne più gravi, ma nel vizio della carne si rende conto con cruda chiarezza che la concupiscenza la macchia d’impurità. Allora si dà premura di correggere la sua negligenza anteriore e si mette in guardia dalla eccessiva fiducia nella castità già per lungo tempo conservata: è bastato infatti che si allontanasse un istante dal Signore, perché tutta la sua castità andasse perduta. In tal modo si convince che non potrà godere il dono della castità senza una grazia particolare di Dio. Questo è l’insegnamento che ci dà l’esperienza, affinché, se ci preme vivere in una costante integrità di cuore, ci sforziamo senza posa di acquistare la virtù dell’umiltà. XVI – Le nostre cadute sarebbero più miserevoli se gli impulsi della carne non fossero tanto umilianti L’orgoglio concepito da noi, a causa della castità posseduta, sarebbe il più funesto fra tutti i delitti. Qualunque possa essere la perfezione della nostra castità, se l’accompagneremo con l’orgoglio, non potremo averne alcun giovamento. Ci fanno fede di ciò le potenze del male, delle quali abbiamo fatto menzione più sopra: ad esse le tentazioni della carne erano assolutamente sconosciute, ma la superbia del cuore bastò a precipitarle nel baratro eterno, da quello stato sublime di gloria che occupavano in cielo. Se la tentazione della carne non venisse ad incuorarci profonda umiltà, ad umiliarci salutarmente, a renderci attenti e ferventi nel purificare anche i vizi dello spirito, noi saremmo irrimediabilmente condannati alla tiepidezza. Privi nel corpo e nello spirito di un indice rivelatore della nostra accidia, non ci daremmo premura di raggiungere il fervore della perfezione, non saremmo neppur fedeli all’esatta osservanza della sobrietà e dell’astinenza. XVII – Tiepidezza di coloro che sono casti per difetto naturale Coloro che son privi dell’integrità fisica, gli eunuchi, li abbiam visti quasi sempre adagiati nella tiepidezza. Liberi come sono dagli assalti della carne, credono di poter fare a meno della mortificazione corporale e della contrizione del cuore. Infiacchiti da questa sicurezza, non si curano di cercare e di acquistare la purezza del cuore e la liberazione dai vizi dello spirito. Il loro stato, che si distingue da quello carnale, diventa facilmente uno stato animale. Si tratta certamente di un passaggio verso il peggio, perché è un andare dalla freddezza alla tiepidezza, la qual tiepidezza, secondo la parola del Signore nell’Apocalisse, è la cosa più abominevole che esista. XVIII – Domanda: quale differenza passa tra un uomo carnale e uno spirituale? Germano – Con quel che siete andato dicendo, voi ci avete resa evidente l’utilità del combattimento fra la carne e lo spirito: l’evidenza è tanto grande che quasi ci sembra di toccarla con mano. Ora vi preghiamo di sviluppare l’ultimo vostro accenno e di spiegarci la differenza fra uomo carnale e uomo animale, e la ragione per cui l’uomo animale è peggiore dell’uomo carnale. XIX – Risposta sul triplice stato delle anime Daniele – Tre sono, secondo la Scrittura, gli stati dell’anima: il primo è lo stato carnale, il secondo animale, il terzo spirituale. Di tutti e tre questi stati parla s. Paolo. Ecco che cosa dice degli uomini carnali: « Vi ho dato del latte a bere, non del cibo solido, perché non eravate ancora in grado di tollerarlo. Ma neanche ora siete in grado, perché siete ancora carnali » (1 Cor 3,2). E aggiunge: « Dal momento che vi sono in voi gelosie e contese, non è egli vero che siete carnali? » (1 Cor 3,3). Dell’uomo animale l’Apostolo parla in questi termini: « L’uomo animale non capisce le cose dello spirito di Dio: per lui sono stoltezze » (1 Cor 2,14). E dell’uomo spirituale parla così: « L’uomo spirituale giudica tutto, ed egli non è giudicato da alcuno » (1 Cor 2,15). Ancora: « Voi siete spirituali, correggete questi tali con spirito di mitezza ». Per mezzo della rinuncia noi abbiamo cessato di essere uomini carnali, ci siamo cioè separati dalla vita secolaresca e abbiamo rotto i rapporti con i disordini della carne. Ora però, animati da santa premura, dobbiamo impegnarci con tutte le nostre forze per passare immediatamente allo stato spirituale, onde non avvenga che, sopravvalutando la rinuncia al mondo e alle opere della carne, ci persuadiamo falsamente di aver raggiunto in un momento la più alta perfezione, facendoci così più fiacchi e più lenti a purificarci dalle altre passioni. Se cadessimo in questa illusione non ci fermeremmo certamente a mezza strada fra lo stato carnale e quello spirituale. Non andremmo verso lo stato più alto, perché convinti che per essere perfetti è sufficiente la separazione esteriore dal mondo e dai suoi piaceri, la liberazione dalle corruttele e dalle imprese della carne; ma neppure rimarremmo fissi in una posizione intermedia. È fuori dubbio che non potremmo evitare di cadere nello stato più temibile in cui possa trovarsi un’anima. Noi cadremmo inevitabilmente nello stato di tiepidezza che è il peggiore di tutti; così non ci resterebbe altro che essere vomitati dalla bocca del Signore, secondo quanto dice egli stesso nell’Apocalisse: « Fossi tu almeno freddo o caldo! Ma sei tiepido, e io sto per vomitarti dalla mia bocca » (Ap 3,15-16). A buon diritto il Signore dice di voler rigettare con un movimento di ripulsa coloro che, dopo essere stati ricevuti nelle viscere della sua carità, hanno contratto una dannosa tiepidezza. Costoro potevano essere – ci si perdoni l’immagine – un sano nutrimento per il Signore, hanno invece preferito essere violentemente espulsi dal suo cuore. Son divenuti somiglianti al cibo detestabile che lo stomaco rifiuta sotto gli stimoli della nausea: questo cibo è assai peggiore di quello che mai si accostò alle labbra divine. Il cibo freddo si fa caldo quando penetra nella nostra bocca: noi ce ne nutriamo con piacere e giovamento, ma il cibo rigettato per la sua insopportabile tiepidezza, non possiamo più portarlo alle labbra, anzi non possiamo neppur guardarlo di lontano senza provare un senso di repulsione. È giusto dunque che l’anima tiepida sia proclamata la peggiore di tutte. L’uomo carnale, vale a dire il mondano o il pagano, per giungere alla vera conversione e per salire alla più alta santità, si troverà sommamente avvantaggiato su colui che ha fatto professione di vita monastica ma non ha abbracciato risolutamente la via della perfezione, né si è conformato alle leggi della disciplina monastica, facendo perciò raffreddare il fuoco del fervore iniziale. L’uomo carnale sarà salutarmente umiliato dai vizi della carne, si riconoscerà immondo: forse un giorno correrà pentito alla fonte della vera purificazione e salirà poi al culmine della vita perfetta: il disgusto che proverà per lo sta- sto d’infedeltà e freddezza in cui si trova, lo riempirà di santo ardore e gli darà ali per volare più facilmente alla perfezione. Ma colui che fin da principio ha disonorato con la sua tiepidezza il nome di monaco; che ha portato nella sua professione né umiltà né zelo, una volta colpito dal cancro della tiepidezza, sarà da quello corroso; né per volontà propria, né per richiamo fraterno di altri, sarà capace di gustare la perfezione. Egli infatti dice in cuor suo, come ci assicura il Signore: « Sono ricco, sono nell’abbondanza, non ho bisogno di nulla » (Ap 3,17). A lui però vanno anche applicate le parole che seguono: « Tu sei meschino e miserabile e pitocco e cieco e nudo » (Ap 3,17). Egli è peggiore di un uomo mondano perché non ha coscienza della sua miseria, del suo accecamento, della sua nudità: in lui non c’è nulla da correggere; egli non ha bisogno né delle ammonizioni né delle correzioni dei fratelli, perciò non accetta neppure una di quelle parole che potrebbero salvarlo. Non si accorge che il titolo di monaco è per lui un peso che lo schiaccia: la pubblica opinione lo crede santo, gli rende onore come a un servo di Dio: per questo il giudizio e la condanna saranno per lui più gravi. Ma perché dilungarci su cose che l’esperienza ci ha fin troppo comprovate? Noi abbiamo visto spesso uomini freddi, carnali, cioè mondani o pagani, diventare ferventi e spirituali, mai abbiamo visto verificarsi qualcosa di simile in uomini tiepidi e animali. Leggiamo anzi che il Signore, rappresentato dal suo profeta, tanto detesta i tiepidi da comandare agli uomini spirituali e ai suoi dottori di astenersi dal- l’istruirli e dall’ammonirli. Spargerebbero infatti il seme della parola di vita in terreno sterile e incolto, tutto coperto di acute spine; perciò è meglio allontanarsi da loro e andare a spargere il seme in una terra nuova. In altre parole; è meglio trasferire ai pagani e ai mondani l’insegnamento della dottrina e la seminagione della parola che salva. « Così dice il Signore agli uomini di Giuda e agli abitanti di Gerusalemme: dissodatevi un campo novale e non seminate sopra le spine » (Ger 4,3). XX – Coloro che hanno mal rinunciato al mondo Mi vergogno a dirlo, ma tutti vediamo che la più gran parte dei monaci ha rinunciato al mondo in modo tale da far chiaramente conoscere che, dei vizi e della vita passata, ha lasciato soltanto l’apparenza e l’abito esteriore. I nostri monaci si struggono di acquistare ricchezze che prima non avevano, oppure continuano a possedere quelle che prima avevano. Talvolta – e questo è più triste – si dànno pensiero di aumentare le loro ricchezze col pretesto che con quelle hanno da mantenere i loro servi e fratelli [1]. Altra volta si tengono le ricchezze, con la scusa che hanno da fondare una comunità di cenobiti con annesso monastero: perché – non dimentichiamolo! – sono anche così umili da stimarsi predestinati alla carica di abati. Tutti costoro, se cercassero davvero la via della perfezione, impegnerebbero ogni forza, non solo a liberarsi dalle ricchezze, ma anche a liberarsi dalle vecchie passioni e a sbarazzarsi da ogni preoccupazione mondana. Poi si metterebbero – soli e privi di tutto – sotto la guida degli anziani, senza pretendere di governare gli altri e neppure se stessi. Invece accade esattamente il contrario. Desiderosi come sono di comandare, non si sottomettono mai agli anziani: essi incominciano a edificare la loro vita spirituale sul fondamento della superbia, e mentre vogliono formare i loro confratelli, né imparano né fanno essi stessi quello che pretendono d’insegnare agli altri. È quindi inevitabile che questi ciechi, fatti guide di altri ciechi, vadano insieme a cader nella fossa (Mt 15,14). L’orgoglio di cui parliamo, nonostante la sua fondamentale unità, ha due specie diverse. La prima mostra al di fuori serietà e gravità, la seconda – nella sua libertà sfrenata – s’abbandona a risa sgangherate e sciocche. La prima specie si diletta del silenzio, l’altra invece mal sopporta il silenzio e non si perita di parlare spesso anche di cose stupide e sconvenienti; ha timore di una cosa sola: di non essere tenuta in gran conto, di non essere stimata dotta. I monaci della prima specie aspirano al sacerdozio per elevarsi, quelli della seconda specie disprezzano il sacerdozio come troppo meschino, in proporzione ai meriti della loro vita e del loro casato. Di queste due specie d’orgoglio, quale è la peggiore? Ciascuno giudichi a suo piacere. Essenzialmente è un medesimo atto d’insubordinazione quello di chi si dà a un lavoro non concesso e quello di chi si dà all’ozio; è ugualmente riprovevole chi contravviene alle regole del monastero, sia che questo avvenga per vegliare, sia che avvenga per dormire; è ugualmente grave venir meno al comando dell’abate per darsi al sonno o per darsi alla lettura; è atto che parte dalla stessa radice della superbia disprezzare un fratello: sia che lo si disprezzi perché digiuna, sia perché mangia. C’è semmai da notare che i vizi ammantati con le apparenze della virtù e avvolti in paludamenti spirituali, son più dannosi e più difficili a guarirsi di quelli che hanno come loro evidente origine il piacere della carne. Questi ultimi, somiglianti a malattia che tutti vedono, si manifestano spontaneamente, perciò possono essere facilmente sanati. Invece quei vizi che si nascondono sotto le apparenze della virtù, non sono curati e si radicano più profondamente. Per questo fanno ammalare sempre più gravemente coloro che ne sono colpiti. XXI – Coloro che dopo aver lasciato le cose grandi, sì fanno dominare da quelle piccole Io non saprei come spiegare questo fatto ridicolo: molti hanno lasciato patrimoni e ricchezze ingenti, hanno abbandonato la vita del secolo, si sono ritirati nei monasteri, ma poi, dopo aver perduto l’ardore della prima rinuncia, si sono attaccati fortissimamente a quelle cose insignificanti alle quali non si può rinunciare del tutto, e che si trovano anche presso noi monaci. L’attaccamento a queste cose da nulla supera la passione che ebbero un tempo per le grandi ricchezze. A costoro non gioverà nulla aver lasciato patrimoni ingenti perché hanno riversato su cose umili e spregevoli quell’affetto al quale intendevano rinunziare quando disprezzarono le prime ricchezze. Non potendo più esercitare la loro cupidigia e la loro avarizia su cose preziose, la trasferiscono su cose da nulla: e questo dimostra che la loro vecchia passione non è morta: ha solo cambiato oggetto. Presi da esagerata premura per una stuoia, per una sporta, per una bisaccia, per un manoscritto e altre cose simili e di nessun valore, lasciano capire che sono ancora in preda alla vecchia libidine di possesso. Custodiscono e difendono queste inezie con tanto accanimento che per esse non si vergognano d’inquietarsi e perfino di litigare con qualche fratello. Costoro, per essere ancora affetti dalla febbre dell’antica cupidigia, non si accontentano di avere, nello stesso numero e nella stessa misura dei loro fratelli, quegli oggetti che le necessità del corpo rendono necessari anche ai monaci. Dimostrano l’avarizia del loro cuore anche in altro modo: o perché vogliono avere più abbondantemente degli altri gli oggetti necessari, o perché custodiscono quegli stessi oggetti con una diligenza smoderata, con spirito di avidità e di possesso, fino al punto di non permettere che altri tocchino quello che è affidato a loro ma appartiene a tutti. Mostrano di credere che la colpa dell’avarizia risiede tutta e soltanto nella preziosità dei metalli, non nello spirito di cupidigia. Se non è permesso andare in collera per cose di gran conto, sarà permesso per le cose da nulla? Noi abbiamo lasciato le cose preziose per imparare a disprezzare più facilmente quelle vili. Che un uomo si turbi a causa di cose preziose e belle, o a causa di cose spregevoli, che differenza c’è? Certamente questa: è più degno di biasimo chi si fa schiavo di cose da nulla, dopo aver disprezzato quelle grandi. La forma di rinuncia da noi lamentata non può ottenere la perfezione del cuore, perché sebbene iscriva il monaco nel catalogo dei poveri, non gli fa perdere la volontà del ricco. [1] Non si sa bene a che cosa voglia alludere Cassiano con queste parole. Forse a monaci di alto lignaggio che si facevano servire da qualche confratello. CONFERENZA DELL’ABATE SERAPIONE GLI OTTO VIZI CAPITALI Indice dei Capitoli I – Arrivo alla cella dell’abate Serapione. Domanda sui diversi generi di vizi e sugli assalti che ci muovono; II – Discorso dell’abate Serapione sugli otto vizi capitali; III – Due sono i vizi e quattro i modi in cui esercitano il loro potere; IV – I vizi della gola e della lussuria: modo di curarli; V – Come soltanto nostro Signore fu tentato senza peccato; VI – Natura della tentazione con la quale il Signore fu assalito dal demonio; VII – La vanagloria e l’orgoglio operano senza il concorso del corpo; VIII – L’amore del denaro non è secondo natura: differenza tra questo vizio e quelli naturali; IX -L’ira e la tristezza non si trovano, generalmente, tra i vizi provocati dall’esterno; X – Connessione tra i primi vizi e parentela degli ultimi due coi primi; XI – Origine e natura di ogni singolo vizio; XII -In che cosa consista l’utilità della vanagloria; XIII – Guerra di varia natura che ci muovono i vizi; XIV – Il combattimento contro i vizi deve proporzionarsi al loro assalto; XV – Senza l’aiuto di Dio, niente potremo contro i vizi: nelle vittorie ottenute su di essi non dobbiamo esaltarci; XVI – Senso mistico delle sette nazioni sulle quali il popolo ebreo, entrato nella terra promessa, riportò vittoria. Perché talvolta si dice che quelle nazioni erano sette, altra volta si dice che erano molte?; XVII – Domanda sulle somiglianze tra le sette nazioni e gli otto vizi; XVIII – Risposta: agli otto vizi corrispondono otto nazioni; XIX – Perché Dio domanda di risparmiare una nazione e di annientare le altre sette; XX – Il vizio della gola paragonato all’aquila; XXI – La resistenza della gola: disputa tra filosofi; XXII -Perché Dio profetizzò ad Abramo che il popolo d’Israele avrebbe vinto dieci nazioni; XXIII – È utile per noi entrare in possesso di quella zona del nostro essere che era dominata dai vizi; XXIV – Le terre dalle quali furono espulsi i Cananei furono assegnate ai discendenti di Sem; XXV – Diversi testi riguardanti gli otto vizi capitali; XXVI -Dopo la vittoria sul vizio della gola, occorre applicare tutte le forze all’acquisto delle altre virtù; XXVII – L’ordine da seguire, nel combattere i vizi, non è lo stesso che si trova nella lista dei vizi stessi. I – Arrivo alla cella dell’abate Serapione. Domanda sui diversi generi di vizi e sugli assalti che ci muovono Nella schiera dei santi vegliardi vi fu un uomo di nome Serapione che si distinse fra tutti per la virtù della discrezione. Io stimo opportuno riferire per iscritto la sua conferenza. Pregandolo noi di dire qualcosa sugli assalti che ci muovono i vizi — affinché potessimo meglio conoscere le loro origini e le loro cause — il santo abate incominciò così. II – Discorso dell’abate Serapione sugli otto vizi capitali Otto sono i vizi che fanno al genere umano la guerra più spietata: il primo è la gastrimargia o golosità; il secondo è la lussuria; il terzo si chiama avarizia o amor del denaro; il quarto ira; il quinto tristezza; il sesto accidia, che significa inquietudine e disgusto del cuore; il settimo è la cenodoscia, che vuol dire vanagloria; l’ottavo è l’orgoglio 1). III – Due sono i gruppi dei vizi e quattro i modi in cui esercitano il loro potere Questi vizi si dividono in due raggruppamenti: alcuni sono naturali, come la gola; altri sono innaturali, come l’avarizia. Il loro modo di operare può prendere quattro aspetti diversi. Alcuni non possono operare senza il concorso del corpo: come avviene per la gola e la lussuria; altri non chiedono necessariamente il concorso del corpo: questo è il caso dell’orgoglio e della vanagloria. Alcuni vizi traggono i loro stimoli da cause esteriori, come avviene per l’avarizia e per la collera; altri nascono da impulsi interiori, come si riscontra nell’accidia e nella tristezza. IV – I vizi della gola e della lussuria: modo di curarli Quanto sono andato dicendo fin qui, vorrei ora sottolinearlo e chiarirlo brevemente con l’aiuto della sacra Scrittura. La gola e la lussuria, per il fatto che son vizi naturali ed innati, si svegliano spesso senza alcun incitamento, basta a muoverli il semplice prurito della carne; tuttavia non arrivano a produrre il loro effetto senza un’azione del corpo e senza un oggetto esteriore. « Ognuno è tentato dalla sua concupiscenza. Essa, quando ha concepito, partorisce il peccato; il peccato poi, quando sia stato consumato, genera morte » (Gc 1,14-15). Il primo Adamo non sarebbe stato vinto dalla gola se non avesse abusato illecitamente e contro il comando divino, del frutto che gli stava davanti agli occhi. E neppure il secondo Adamo potè sperimentare la tentazione senza la presenza di un oggetto capace di sedurlo: « Se tu sei il figlio di Dio — gli fu detto — comanda che queste pietre diventino pane » (Mt 4,3). Per quanto riguarda la lussuria è pacifico per tutti che essa non effettua le sue opere senza l’aiuto del corpo. Ecco come il Signore parla dello spirito di fornicazione al beato Giobbe: « La sua forza risiede nei lombi e la sua potenza risiede all’interno del ventre » (Gb 40,11 LXX). Questi due vizi, proprio perché non si posson consumare senza l’aiuto della carne, esigono – oltre ai rimedi spirituali – anche la pratica della penitenza. Non basta, insomma, per contenere i loro attacchi, la sola applicazione delle potenze spirituali, quella applicazione che ordinariamente è sufficiente a rintuzzare gli assalti dell’ira, della tristezza e di altre passioni, sulle quali la semplice industria dell’anima è capace di ottenere vittoria senza far ricorso alla penitenza corporale. Con la gola e la lussuria è necessaria anche la mortificazione della carne, con veglie, digiuni, fatica: a queste pratiche bisognerà poi aggiungere la fuga delle occasioni. L’anima e il corpo concorrono a produrre il vizio della gola e quello della lussuria, non si potrà perciò riportarne vittoria se l’una e l’altro non concorreranno a tale scopo. È vero che Paolo apostolo dichiara carnali tutti i vizi (Gal 5,19 ss.), senza eccezione di sorta: egli annovera le inimicizie, le ire, le eresie, tra altri vizi della carne. Ma noi, che desideriamo conoscere più a fondo la natura e la cura dei vari vizi, conserviamo la nostra divisione in vizi carnali e vizi spirituali. Chiamiamo carnali quei vizi che hanno una speciale relazione al senso della carne: quelli di cui la carne si diletta e si pasce fino al punto che talvolta sveglia le anime quiete e ritrose e le conduce ad acconsentire alle sue sollecitazioni. A questo proposito l’Apostolo dice: « Noi tutti, come i pagani, siamo vissuti un tempo nei vizi e nelle passioni della nostra carne: abbiamo soddisfatto i desideri della carne e delle nostre passioni. Anche noi — al pari degli altri — eravamo per natura figli dell’ira » (Ef 2,3 Vulg). Chiamiamo invece « vizi spirituali » quelli che, nati sotto l’impulso della sola anima, anziché procurare alla carne anche un minimo di sensazioni piacevoli, la caricano di pesi duri a portarsi, mentre offrono all’anima soltanto un nutrimento di miserande soddisfazioni. I vizi spirituali vogliono essere curati con rimedi spirituali; gli altri — lo abbiamo già detto — vogliono una doppia cura. Perciò giova moltissimo, a coloro che cercano la purezza del cuore, allontanare da sé, fin dagli inizi della vita spirituale, gli oggetti che potrebbero risvegliare i vizi della carne; e giova altresì allontanarne il ricordo da un’anima ancora ammalata. A doppio male, deve rispondere doppio rimedio. Bisogna innanzi tutto sottrarre alla concupiscenza ogni oggetto che sia capace di stimolarla, affinché la concupiscenza non si precipiti là dove l’oggetto la chiama; bisogna poi portare all’anima l’aiuto di una più attenta meditazione delle sacre Scritture, di una vigilanza delicata, di un ritiro nella solitudine, per impedirle perfino di concepire il pensiero del male. Negli altri vizi invece, la vita di contatto col prossimo non nuoce, anzi giova moltissimo a coloro che desiderano sinceramente emendarsi. Son vizi che nelle relazioni sociali si scoprono meglio e, perché fanno capolino più spesso, possono esser curati con una medicina ad effetto più rapido. V – Come soltanto nostro Signore fu tentato senza peccato Nostro Signore Gesù Cristo è stato « tentato in tutte le forme, a somiglianza di noi » (Eb 4,15), ma l’Apostolo subito aggiunge: « Però, senza peccato », vale a dire: senza la macchia del vizio di cui ora parliamo. Egli non assaporò minimamente gli stimoli della concupiscenza carnale, quelli che noi sperimentiamo anche a nostra insaputa e controvoglia. In Gesù infatti non ci fu somiglianza — per quanto riguarda la generazione — con gli altri uomini: l’arcangelo parlò così della sua straordinaria generazione: « Lo Spirito Santo scenderà su di te, la virtù dell’Altissimo ti avvolgerà, perciò il Santo che nascerà da te sarà chiamato Figlio di Dio » (Lc 1,35). VI – Natura della tentazione con la quale il Signore fu assalito dal demonio Gesù Cristo, proprio perché possedeva incorruttibilmente l’immagine e la somiglianza di Dio, dove esser tentato da quelle stesse passioni che tentarono Adamo quand’era in possesso saldo della immagine divina: intendo dire le passioni della gola, della vanagloria, della superbia. Ma Gesù non potè esser tentato da quelle passioni in cui Adamo si trovò precipitato e avviluppato dopo che ebbe violato, per sua colpa, l’immagine e la somiglianza divina, con la sua trasgressione al comando di Dio. Fu un atto di gola, per Adamo, mangiare il frutto dell’albero proibito; la vanagloria si rivela nelle parole « i vostri occhi si apriranno » (Gn 3,5), la superbia è manifesta nelle altre parole :« Voi sarete come Dio: avrete la conoscenza del bene e del male » (Gn 3,5). In questi tre vizi fu tentato anche il Salvatore. Egli fu tentato di gola quando il diavolo gli disse: « Comanda che queste pietre diventino pane » (Mt 4,3); fu tentato di vanagloria con le parole :« Se tu sei figlio di Dio, gettati giù dal pinnacolo del tempio » (Mt 4,6); finalmente fu tentato di superbia quando il demonio, mostrandogli tutti i regni del mondo e la loro gloria, disse: « Io ti darò tutte queste cose se, prostrandoti ai miei piedi mi adorerai » (Mt 4,9). Gesù volle essere assalito dalle stesse tentazioni che assalirono Adamo per insegnarci col suo esempio come dobbiamo vincere il tentatore. Anche Gesù — al pari del primo uomo — si chiama Adamo. Uno è il primo fra gli uomini per la caduta e la morte, l’altro è il primo per la resurrezione e la vita. Nel primo Adamo tutto il genere umano è stato condannato, nel secondo tutto il genere umano è stato liberato. Il primo è stato formato con una terra nuova e vergine, il secondo è nato dalla vergine Maria. Se fu necessario che il Salvatore fosse assalito dalle tentazioni di Adamo, fu anche necessario che non ne sperimentasse altre al di là di quelle. Dopo aver vinto la gola, non poteva essere tentato di lussuria, la quale nasce dalla radice della gola, ed è come una sovrabbondanza di quel vizio. Neppure Adamo avrebbe sofferto le tentazioni della lussuria se prima non si fosse lasciato sedurre dalle arti del demonio e non avesse ceduto alla passione della gola, che è madre della lussuria. Per questo nella sacra Scrittura non si dice che Gesù è venuto nella carne del peccato, ma che è venuto « nella somiglianza della carne del peccato » (Rm 8,3). Egli ebbe certamente una vera carne: mangiò, bevve, dormì, fu realmente trafitto dai chiodi, ma per quanto riguarda il peccato che la carne contrasse nella prevaricazione, Egli ne ebbe l’apparenza, non la realtà. Egli non provò gli ardori e gli stimoli della concupiscenza carnale, che noi sperimentiamo anche contro la nostra volontà, per effetto della natura; ma per il fatto che partecipava della natura umana, assunse una certa somiglianza della concupiscenza. Vedendolo veracemente compiere tutti gli atti propri della nostra natura, vedendolo portare il giogo di tutte le umane miserie, si pensò che egli fosse soggetto anche a questa passione: le sue infermità sembraron la prova per dimostrare che Egli fosse soggetto come noi, nella carne, a questa condizione di vizio e di peccato. Il diavolo tentò il Salvatore soltanto in quei vizi nei quali aveva tentato e vinto il primo Adamo: ciò perché credeva di aver a che fare con un semplice uomo; era quindi sicuro che, quando lo avesse fatto soccombere alle passioni nelle quali cadde il primo Adamo, lo avrebbe poi precipitato anche nelle altre. Ma quando il demonio vide che il Signore era invincibile al vizio della gola — che è la radice della lussuria — non potè sperare di ottenere quei frutti (i peccati di impurità) dei quali era stata rifiutata la radice. Ben vide il tentatore di non potergli inoculare il primo morbo, perciò non tentò d’inoculargli quello che dal primo deriva. San Luca pone come ultima tentazione quella introdotta con le parole: « Se tu sei il figlio di Dio gettati giù dal pinnacolo del tempio »: in questo suggerimento si può riconoscere una sollecitazione alla superbia. Per tal modo la seconda tentazione — quella che nel Vangelo di san Matteo è presentata come terza e in cui il diavolo mostra e promette al Signore tutti i regni della terra — dovrà essere intesa come tentazione di avarizia. Andato a vuoto l’assalto della gola e vistosi nell’impossibilità di tentarlo con la lussuria il demonio sarebbe ricorso all’avarizia, che sapeva essere la radice di tutti i mali. Sconfitto anche questa volta, non osò suggerire alcuno dei vizi che derivano dall’avarizia come da loro sorgente. Così come ultimo tentativo, il maligno fece ricorso alla superbia. Egli sapeva bene che anche i perfetti, dopo aver superato tutti i vizi rimangono esposti ai colpi di questo: non dimenticava che proprio il vizio della superbia aveva precipitato lui, Lucifero, e tanti altri angeli, dalle altezze dei cieli. Eppure essi non avevano provato per l’innanzi alcuno stimolo d’altri vizi. Stando dunque all’ordine che ci mostra il Vangelo di san Luca è facile scoprire una perfetta corrispondenza fra le tentazioni che l’astutissimo nemico rivolse al primo e al secondo Adamo. Disse il tentatore al primo Adamo: « Si apriranno i vostri occhi », al secondo « mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria ». Al primo disse: « Voi sarete come Dio », al secondo: « Se tu sei Figlio di Dio ». VII – La vanagloria e l’orgoglio operano senza il concorso del corpo Fedeli all’ordine che ci siamo proposti, parleremo ora del modo in cui si manifestano gli altri vizi e riprenderemo l’esposizione che abbiam dovuto interrompere per trattare della gola e delle tentazioni del Signore. La vanagloria e la superbia si consumano di solito senza intervento del corpo: esse infatti non hanno alcun bisogno di un intervento carnale. Bastano la compiacenza e l’appetito di lode che esse esercitano sull’anima, fatta loro schiava, per produrre una rovina di vaste proporzioni. Che forse l’antica superbia di Lucifero ebbe qualche effetto corporale? Non derivò, invece, unicamente dal suo spirito e dal suo pensiero? Il Profeta ne parla in questi termini: « Tu dicevi nel tuo cuore: salirò in cielo, al disopra degli astri di Dio innalzerò il mio trono; salirò sulle sommità delle nubi, sarò simile all’Altissimo » (Is 14,13-14). E poiché nessuno lo aveva sollecitato esteriormente alla superbia, così il suo delitto e la sua perpetua rovina si consumano nel solo pensiero, senza che alcun effetto esteriore consegua al sogno ambizioso di una grandezza orgogliosamente agognata. VIII – L ‘amore del denaro non è secondo natura: differenza fra questo vizio e quelli naturali. L’avarizia e l’ira non sono della stessa natura. La prima infatti è al difuori della natura; la seconda, invece, sembra avere in noi il suo germe originale. L’avarizia e l’ira — dicevamo — si somigliano quanto al modo della loro origine: intendo dire che a metterle in moto sono per lo più cause esteriori. I più deboli, quando soccombono a questi vizi, si lamentano spesso di essere stati spinti o provocati da altri e si scusano della loro caduta addossandone la responsabilità a questo o a quel provocatore. Che l’avarizia sia contro natura appare evidente dal fatto che essa non ha in noi il suo principio originale, e l’oggetto al quale si rivolge non ha nulla che possa giovare all’anima o al corpo, o alla nozione fondamentale della vita. Le necessità della nostra natura non chiedono di più che il pane e la bevanda di ogni giorno: questo è fuori di ogni dubbio. Tutte le altre cose, qualunque sia l’ardore e la passione che si mette in possederle, rimangono estranee alle necessità dell’uomo, come testimonia l’esperienza della vita. Quei vizi che sono al di fuori della natura — come l’avarizia — possono assalire soltanto i monaci tiepidi e vacillanti nel loro proposito; i vizi naturali, al contrario, non cessano di tentare neppure i monaci più santi, fino nei più segreti recessi della loro solitudine. Ciò è tanto vero che noi conosciamo popoli pagani assolutamente liberi dalla passione dell’avarizia: questa è una malattia che non lasciarono entrare nei loro costumi. Io credo anche che il mondo antico, prima del diluvio, non abbia conosciuto affatto il furore dell’avarizia. E tra i monaci quel vizio si estingue completamente senza alcuna fatica in tutti coloro che hanno fatto una perfetta rinuncia e, dopo aver lasciato i loro beni, si son votati così integralmente alla disciplina cenobitica da non ritenersi neppure un soldo. A tal proposito abbiamo migliaia di esempi. Moltissimi monaci, spogliandosi dei loro beni, sradicarono dal cuore questo vizio in modo tale da non sentirne più il minimo attacco. Essi invece dovettero lottare continuamente contro la gola, dalla quale non poterono mettersi al sicuro se non a prezzo di una circospezione e di una astinenza senza tregua. IX – L’ira e la tristezza non si trovano, generalmente, tra i vizi provocati dall’esterno La tristezza e l’accidia, contrariamente ai due vizi precedenti, nascono quasi sempre senza alcuna provocazione dall’esterno. Si sa infatti che tormentano violentemente gli stessi solitari che vivono nel fondo dei deserti, lontani da ogni contatto umano. Chiunque abbia dimorato nella solitudine e abbia sperimentato le lotte della vita interiore, sa per esperienza personale che dico il vero. X – Connessione tra i primi vizi e parentela degli ultimi due con i primi Per quanto i vizi capitali siano diversi nell’origine e nel modo in cui si manifestano, i primi sei, cioè la gola, la lussuria, l’avarizia, l’ira, la tristezza e l’accidia, son legati fra loro da una specie di parentela, o — per dirla con altre parole — sono vicendevolmente concatenati; cosicché l’esuberanza del vizio precedente diviene l’origine del seguente. Dalla sovrabbondanza della gola nasce necessariamente la lussuria; dalla lussuria l’avarizia; dall’avarizia l’ira; dall’ira la tristezza; dalla tristezza l’accidia. Per questo conviene usare contro questi vizi una tattica unica, che consiste nel cominciare dal vizio precedente la lotta contro il vizio seguente. Se una pianta gigantesca si mostra dannosa, c’è un mezzo per farla seccare: basta mettere le radici al sole e tagliarle. Se c’è un fiume che porta infezione, basterà, a renderlo innocuo, chiudere la sorgente da cui nasce e disperdere gli affluenti che vanno ad arricchirlo. Per vincere l’accidia bisogna trionfare prima sulla tristezza; per liberarsi dalla tristezza, bisogna prima debellare l’ira; per estinguere l’ira bisogna calpestare l’avarizia; per spiantare l’avarizia bisogna reprimere la lussuria; per togliere di mezzo la lussuria bisogna castigare il vizio della gola. Gli ultimi due vizi: la vanagloria e la superbia sono anch’essi intimamente collegati, come gli altri di cui abbiamo già parlato sopra: l’abbondanza del primo è ancora origine del secondo. Che cosa è infatti la superbia se non una vanagloria che trabocca? Questi ultimi tuttavia si distinguono dai primi sei e non hanno con essi un legame naturale. Non sono cioè i primi sei vizi a dare origine agli ultimi due della serie; al contrario: i due ultimi nascono quando i primi sei vengono a mancare. Allorché i primi sono estirpati gli ultimi si ramificano enormemente: questi nascono dalla morte di quelli, con prepotente vitalità. Da ciò deriva che gli assalti degli ultimi vizi son di natura tutta speciale. Nella prima serie bisogna aver ceduto al vizio precedente per essere vinti da quello seguente; con gli ultimi due son proprio le nostre vittorie e i nostri trionfi a metterci nel pericolo di cadere ed essere sconfitti. Resta tuttavia comune ai vizi di entrambe le serie il fatto che la crescita di uno diventa l’origine di un altro e la liberazione da uno inizia la liberazione da un altro. In forza di questo principio, per cacciare la superbia bisogna soffocare la vanagloria: tolto il primo vizio, il secondo perde il suo sostegno. Recise che siano le prime passioni, quelle che ne derivano spariranno senza fatica. Senza nulla rinnegare di quanto abbiamo detto dei modi in cui si uniscono gli otto vizi capitali, dobbiamo ora osservare che tra essi esistono quattro combinazioni… matrimoniali. Esiste una particolare connessione tra la gola e la lussuria, un’altra tra l’avarizia e l’ira; la tristezza e l’accidia; la vanagloria e la superbia sono unite da un vincolo di strettissima parentela. XI – Origine e natura di ogni singolo vizio Passiamo ora a parlare delle diverse forme che si riscontrano in ciascun vizio. Esistono tre sottospecie di golosità. La prima spinge il monaco a nutrirsi senza tener conto dell’ora stabilita dalla regola; la seconda si diletta nell’ingurgitarsi e nel mangiare con voracità; la terza vuole cibi ricercati e delicati. Tutte e tre arrecano al monaco un danno non indifferente, a meno che egli non si sforzi di liberarsene con grande impegno e pari fedeltà. Come non deve mai prendersi la libertà di rompere il digiuno prima dell’ora stabilita, così, il buon monaco deve sapersi interdire la ghiottoneria e la ricercata delicatezza dei cibi. Da queste tre fonti derivano molte gravissime malattie dell’anima. La prima forma di golosità produce l’odio del monastero e rende la permanenza in esso sempre più dura e insopportabile, fino al punto di suggerire l’allontanamento mediante la fuga veloce. La seconda forma accende i fuochi e gli stimoli della passione impura. La terza fa cadere sul capo delle sue vittime la rete inestricabile dell’avarizia e non permette al monaco di ben consolidarsi nella perfetta rinunzia di Cristo. C’è un segno per riconoscere in noi la presenza di quest’ultima malattia. Eccolo. Un fratello ci ha invitati alla sua mensa, ma i cibi da lui preparati non hanno per noi un sapore gradevole. Allora, senza timore di apparire sfacciati, noi osiamo chiedere qualche condimento supplementare. Questo modo di agire è assolutamente da condannare, e ciò per tre ragioni. Innanzi tutto perché un monaco deve esercitarsi sempre e in tutto a vivere parcamente: egli deve imparare a contentarsi di quel che ha, come dice l’Apostolo (Fil 4,11). Non è possibile che sappia frenare le passioni nascoste e più violente della carne, colui che, offeso da un piccolo sapore sgradevole, non sa frenare neppure per un momento il piacere della gola. In secondo luogo, potrebbe darsi che il nostro ospite non abbia quel che noi domandiamo; in tal caso noi faremmo offesa alla sua penuria e alla sua sobrietà, manifestando una povertà che egli voleva far conoscere a Dio solo. In terzo luogo può darsi che il condimento da noi richiesto non piaccia agli altri; così accadrà che noi, per soddisfare la nostra gola, recheremo offesa a molti. Per questi motivi dobbiamo nel modo più assoluto proibirci una tale libertà. Tre sono le forme della lussuria. La prima consiste nell’unione dell’uomo con la donna. La seconda si compie senza contatti sessuali ed è quella per cui Onan, figlio del patriarca Giuda, fu colpito da Dio (Gn 38,8-10). La sacra Scrittura la chiama « impurità » e l’Apostolo ne parla in questi termini: « Dico poi ai celibi e alle vedove: è bello per loro se rimangono come sono io, ma se non si contengono, si sposino, poiché è meglio sposarsi che ardere » (1 Cor 7,8-9). La terza forma è un peccato di pensiero e di desiderio; di questa dice il Signore nel Vangelo: « Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già — in cuor suo — commesso adulterio con lei » (Mt 5,28). L’Apostolo proclama che bisogna estirpare queste tre forme del vizio: « Mortificate — egli dice — le vostre membra terrene, cioè la fornicazione, l’impurità, la libidine » (Col 3,5). Agli Efesini l’Apostolo parla di due specie di lussuria e dice: « La fornicazione e l’impurità non siano neppur nominate tra voi » (Ef 5,3). E ancora: « Questo dovete tenere a mente, che ogni adultero o impudico o avaro, che vuol dire idolatra, non ha eredità nel regno di Cristo e di Dio » (Ef 5,5). Le tre colpe sono globalmente colpite con la minaccia di esclusione dal regno di Dio, perché da tutte ci guardiamo con uguale attenzione. Anche l’avarizia ci presenta tre forme. La prima impedisce all’uomo che rinuncia al mondo di liberarsi completamente dai suoi beni e dalle sue ricchezze. La seconda è quella che ci fa ricercare e richiedere con accresciuto ardore tutto ciò che avevamo dato qua e là o distribuito ai poveri. La terza ci fa desiderare e acquistare certe cose che neppure prima di lasciare il mondo possedevamo. Tre sono anche i generi dell’ira. Il primo è fuoco che arde dentro: i greci la chiamano « thumòs ». Il secondo si manifesta violentemente nelle parole e negli atti. I greci lo chiamano « orghé ». Di questi due primi generi, così parla l’Apostolo: « Buttate via anche voi tutte codeste cose: ira, animosità » (Col 3,8). Il terzo genere d’ira non è, come i due primi, una fiamma di poca durata, è un fuoco che cova per giorni e mesi. I greci lo chiamano « ménis ». Tutti questi gradi del vizio debbono essere da noi condannati con uguale orrore. La tristezza ha due forme soltanto. La prima nasce dalla collera che si estingue, da un danno sofferto, da un desiderio impedito; l’altra deriva da ansietà di spirito o da irragionevole perdita della speranza. Due sono ancora i generi di accidia. Uno fa cercare vogliosamente il sonno, l’altro spinge a fuggire dalla cella e a starne lontani. La vanagloria prende molti aspetti e si distingue in molte specie, noi però ne enumeriamo due soltanto. La prima specie è quella che si gonfia per le cose carnali e capaci d’impressionare i sensi, la seconda si compiace nel desiderio di una rinomanza legata a beni spirituali e ultrasensibili. XII – In che cosa consista l’utilità della vanagloria In un caso la vanagloria può essere utile, almeno ai principianti, cioè a coloro che sono ancora esposti ai vizi della carne. Facciamo un esempio. Mentre la tentazione impura li stimola più crudelmente, questi monaci alle prime armi, ripensano alla dignità sacerdotale che voglion raggiungere, o al giudizio comune fra gli uomini, secondo il quale sono stimati santi e senza peccato. Potrà così avvenire che gli stimoli impuri della concupiscenza appaiano turpi e indegni sia della stima che godono da parte degli uomini, sia del sacerdozio al quale aspirano, e questo pensiero farà sì che si difendano dall’assalto impuro. In tal modo un vizio minore — come la vanagloria — serve a difenderli da uno più grande, come la lussuria. È certamente meglio subire i danni della vanagloria che cadere nel fuoco dell’impurità, da dove l’anima non può uscire, o può uscire a stento. Il profeta ha espresso felicemente questo concetto quando ha detto, parlando a nome di Dio: « Per amore del mio nome, nel mio furore sarò longanime, e per la mia gloria, ti tratterò con raffrenato sdegno affinché tu non perisca » (Is 48,9). Ciò significa: ti frenerò affinché, incatenato dalle lodi che son care alla vanagloria, tu non vada a precipitarti nell’inferno e a seppellirti in esso commettendo il peccato mortale. Non ci deve meravigliare che la vanagloria abbia il potere di trattenere qualcuno sull’orlo del peccato impuro. E’ provato da una esperienza lunghissima che quando la vanità ha inoculato a qualcuno il suo veleno, quello diventa così insensibile ai richiami della carne che può digiunare perfino due o tre giorni di seguito senza risentirsene. Molti monaci di questo deserto hanno fatto esperienza di ciò e lo hanno candidamente confessato. Nel tempo in cui vivevano nei monasteri di Siria essi riuscivano senza difficoltà a prender cibo ogni cinque giorni; ora invece la fame li tormenta fin dall’ora di terza, cosicché durano una gran fatica a rimandare il pasto quotidiano fino all’ora di nona. C’è a questo proposito una profonda risposta dell’abate Macario. Un tale gli domandò perché mai nel deserto fosse tormentato dalla fame fin dall’ora di terza, mentre quando stava nel cenobio riusciva a digiunare settimane intere senza bisogno di nutrirsi. Macario rispose: « Qui nel deserto il tuo digiuno non ha alcun testimone che ti nutra e ti sostenga con le sue lodi; nel cenobio, invece, l’ammirazione di coloro che ti segnavano a dito t’ingrassava con la refezione della vanagloria ». Nel libro dei Re si legge un’allegoria bella ed espressiva per dimostrare che all’arrivo della vanagloria deve ritirarsi la lussuria. Nacao, re d’Egitto, tiene prigioniero il popolo d’Israele, ma sopraggiunge Nabucodonosor, re d’Assiria, che trasferisce gli ebrei dalle regioni d’Egitto a quelle del suo regno. Costui non li restituisce alla libertà o al suolo natale, ma li conduce nella sua terra, in una regione che per gli ebrei era più lontana dello stesso Egitto (2 Re 24,7-16). Questa figura risponde perfettamente al nostro argomento. La schiavitù della vanagloria è certamente più leggera di quella della lussuria, ma è più difficile sottrarsi alla tirannia della vanagloria. Un prigioniero condotto in terre lontanissime trova maggior difficoltà a ritornare nella terra natale e nella patria in cui si vive liberi. A quel prigioniero si rivolge giustamente il rimprovero del Profeta: « Perché sei invecchiato in terra straniera? » (Bar 3,11). È veramente un « invecchiare in terra straniera » il non potersi « rinnovare » spogliandosi dei vizi terrestri. Finalmente esistono due forme di superbia. La prima è carnale, la seconda è spirituale. Questa è la più pericolosa perché si attacca soprattutto a coloro che son progrediti in qualche virtù. XIII – Guerra di varia natura che ci muovono i vizi Questi otto vizi capitali fanno guerra a tutto il genere umano; i loro attacchi, però, non sono uguali in tutti i casi. In un caso tiene il posto d’onore lo spirito di fornicazione; in un altro predomina l’ira; in un terzo è la vanagloria a prendersi i primi onori, in un quarto caso la superbia è padrona incontrastata. Pur essendo certo che ciascun di noi deve sostenere l’attacco di tutti i vizi, non siamo tutti assaliti allo stesso modo e con lo stesso ordine di successione. XIV – II combattimento contro i vizi deve proporzionarsi al loro assalto Ecco ora quale dovrà essere la tattica da adottare nella guerra che intraprenderemo contro i vizi. Ognuno, dopo aver riconosciuto il suo vizio, incomincia soprattutto con quello il suo combattimento, e studia con la più grande attenzione possibile i suoi movimenti offensivi. Contro quel vizio indirizza — a modo di frecce — i suoi quotidiani digiuni; contro quello rivolge ogni momento le armi dei suoi sospiri e dei suoi gemiti; contro quello impiega le fatiche, le veglie, le meditazioni della mente; senza mai stancarsi rivolge a Dio lacrime e preghiere per implorare da lui la fine di questi assalti del vizio. È impossibile trionfare sopra una qualsiasi passione se prima non si comprende che la nostra industria e la nostra fatica, senza l’aiuto di Dio, non possono procurarci la vittoria. Con tutto questo però l’opera della nostra purificazione chiede a noi impegno e sollecitudine costante, sia di giorno che di notte. Quando il monaco è certo che il vizio è sconfitto, non riposi. Torni a investigare, con la stessa attenzione, le parti più segrete del suo cuore per individuare, fra le altre passioni che vi rimangono, quella più pericolosa, poi si rivolga contro di essa con tutte le armi dello spirito. Così, dopo aver superato di volta in volta il nemico più forte, sarà facile riportar vittoria su tutti, perché l’anima sentirà aumentare la sua forza col moltiplicarsi delle sue vittorie; e davanti ad avversari che si fanno sempre più deboli, la sua vittoria diventerà sempre più facile. Così avviene anche tra i gladiatori che nella lotta detta « pancarpo », col richiamo di ricchi premi, sono infiammati a combattere, davanti ai re della terra, contro ogni genere di fiere. Quei gladiatori, dopo aver compreso quali sono le bestie più temibili per la loro forza, o più rabbiose per la loro ferocia, assalgono per prime proprio quelle. Dopo che le hanno uccise, atterrano più facilmente le altre, che sono meno terribili e meno furiose. Così noi, dobbiamo affrontare e superare per prime le passioni più forti e passare poi alle più deboli; con questo metodo otterremo, senza il minimo rischio, la più completa vittoria. Né dobbiamo credere che, orientando i nostri sforzi contro un vizio in particolare, ci esporremo al pericolo di qualche ferita imprevista, quasi che ponessimo mente soltanto ai colpi che vengono da una parte. Questo male non c’incoglierà. È impossibile che un uomo, il quale si dà premura di purificare il suo cuore, e per questo convoglia tutte le potenze dell’anima contro un vizio particolare, non coinvolga gli altri vizi in un sentimento globale di odio, e non stia in guardia contro di essi. Come potrebbe conseguire la vittoria sulla passione che tanto lo inquieta, chi si mostrasse indegno della vittoria con l’abbandonarsi alle brutture degli altri vizi? Ma quando avremo preso come scopo della nostra vita la lotta contro un vizio determinato, noi pregheremo con una attenzione, una sollecitudine, un fervore speciale, per meritare la grazia di una vigilanza più delicata a proposito del vizio che ci preme sradicare e per ottenere una pronta vittoria. Il Legislatore del popolo ebraico ci suggerisce di seguire una simile tattica nei nostri combattimenti, pur raccomandandoci di non aver fiducia in noi stessi: « Tu non avrai paura di loro, perché il Signore Dio tuo sta in mezzo a te, Dio grande e terribile. Egli sterminerà nel tuo cospetto queste nazioni e poco per volta. Non le distruggerà tutte insieme, perché non abbiano a moltiplicarsi a tuo danno le bestie feroci. Il Signore Dio tuo metterà quei popoli in tuo potere, e li farà perire sinché siano affatto sterminati » (Dt 7,21-24). XV – Senza l’aiuto di Dio, niente potremmo contro i vizi: nelle vittorie ottenute su di essi non dobbiamo esaltarci Ma lo stesso Mosè ci avverte anche di non insuperbire delle nostre vittorie. Egli dice: « Dopo aver mangiato ed esserti satollato, dopo aver edificato belle case ed avervi abitato, dopo aver avuto armenti di bovi e greggi di pecore, abbondanza d’argento e d’oro e d’ogni cosa, non s’insuperbisca il tuo cuore, e non dimenticare il Signore Dio tuo, che ti trasse dall’Egitto, dal luogo di schiavitù, e fu tua guida nel deserto grande e terribile » (Dt 8,12-15). E Salomone dice nei Proverbi: « Della caduta del tuo nemico, non te ne rallegrare, e della sua rovina non ti goda il cuore. Ché il Signore non veda e gli dispiaccia e da lui storni l’ira sua » (Pr 224,17-18). E questo va inteso così: evita che il Signore, vedendo che il tuo cuore si è insuperbito, cessi di combattere il tuo nemico, e tu — abbandonato da Dio — sia nuovamente tormentato dal vizio sul quale la sua grazia ti aveva fatto trionfare. E il profeta non avrebbe mai detto a Dio, nella sua preghiera: « Non abbandonare alle bestie, o Signore, l’anima di coloro che ti lodano » (Sal 73,19), se non avesse conosciuto che molti, a causa della superbia del loro cuore, sono nuovamente abbandonati a quei vizi che avevano vinti, affinché, così, siano umiliati. Così la nostra esperienza e le testimonianze innumerevoli delle Scritture ci istruiscono e ci persuadono che le nostre sole forze, senza quell’aiuto che Dio solo può dare, non sarebbero capaci di superare nemici tanto potenti. Per questo noi dobbiamo riferire ogni giorno a Dio l’onore delle nostre vittorie. Questo avvertimento ci ripete il Signore per bocca di Mosè: « Quando il Signore Dio tuo li avrà sterminati dalla tua presenza, non dire: Per i miei meriti mi ha condotto il Signore a posseder questa terra, come per le loro empietà sono state distrutte queste nazioni. Non pei tuoi meriti, né per la rettitudine del cuor tuo, entrerai al possesso delle loro terre, ma perché esse avevano operato empiamente sono state distrutte al tuo arrivo » (Dt 9,4-5). Di grazia, come si poteva parlare più chiaramente contro la funesta opinione e la presunzione che ci fa attribuire tutto ciò che facciamo al nostro libero arbitrio e alla nostra industria? « Non dire — raccomanda il Signore — quando il tuo Dio avrà distrutto quelle nazioni alla tua presenza, non dire: per la mia giustizia il Signore mi ha condotto a posseder questa terra ». Per chiunque ha gli occhi dell’anima aperti ed ha le orecchie capaci d’intendere, è come se dicesse chiaramente: quando la vittoria avrà coronato i tuoi sforzi contro i vizi della carne, quando ti sarai liberato dalle loro brutture e dalla vita del mondo, non attribuire la vittoria alla tua virtù e alla tua sapienza, come se fossero stati i tuoi sforzi, il tuo zelo, il retto uso della libertà, ad ottenerti la vittoria sulle potenze del male e sui vizi della carne. È certissimo che non avresti potuto vincere alcuna occasione se Dio non fosse venuto a soccorrerti e a proteggerti. XVI – Senso mistico delle sette nazioni sulle quali il popolo ebreo, entrato nella terra promessa, riportò vittoria. Perché talvolta si dice che quelle nazioni erano sette, altra volta si dice che erano molte? Questi vizi sono i sette popoli le cui terre il Signore promette ai figli d’Israele, usciti che siano dall’Egitto. Secondo l’Apostolo tutto ciò che capitò agli Ebrei era una figura dei tempi messianici; noi dunque dobbiamo osservare questi fatti e sentirli scritti per la nostra istruzione. Dice dunque il Libro sacro: « Quando il Signore Dio tuo ti avrà introdotto nella terra di cui devi diventare possessore, ed avrà fugate dinanzi a te molte genti, l’Heteo, il Gergeseo, l’Amorreo, il Cananeo, il Ferezeo, l’Heveo, e il Gebuseo, sette popoli molto più numerosi e più forti di te, ed il Signore Dio tuo te li avrà abbandonati, li sterminerai fino all’ultimo » (Dt 7,1-2). Perché è detto che queste nazioni sono molto più numerose? Perché il numero dei vizi è più grande di quello delle virtù. Il catalogo enumera sette nazioni, ma quando si tratta della loro disfatta non si fa più menzione di un numero determinato. Dice la Scrittura: « Quando Dio avrà annientato molte nazioni davanti a te ». Il popolo dei vizi carnali che nasce da queste sette radici è assai più numeroso del popolo d’Israele. Di là nascono gli omicidi, le contese, le eresie, i furti, le false testimonianze, le bestemmie, gli eccessi nel mangiare, le ubriachezze, le maldicenze, i sollazzi, i discorsi osceni, le bugie, gli spergiuri, i discorsi sciocchi, le scurrilità, l’inquietudine, la rapacità, la scontentezza, il frastuono, lo sdegno, il disprezzo, la mormorazione, la tentazione di Dio, la disperazione e molti altri vizi che sarebbe troppo lungo elencare. Siccome questi vizi a noi sembrano leggeri, ascoltiamo ora che cosa ne pensa l’Apostolo e quale giudizio ne formula: « Non mormorate come alcuni di loro mormorarono, e perirono per opera dello sterminatore » (1 Cor 10,10), e della tentazione di Dio: « Non tentiamo il Cristo, come fecero alcuni di loro, che perirono morsi dai serpenti » (1 Cor 10,9). Della detrazione è scritto: « Non voler dire male degli altri, per non essere sradicato » (Pr 20,13). Della disperazione è detto: « Essi, perduta ogni speranza, si son dati alla dissolutezza, così da operare ogni impurità nella loro cupidigia di possesso » (Ef 4,19). Che il frastuono, l’ira, lo sdegno, la bestemmia siano da condannare ce lo afferma s. Paolo quando insegna: « Ogni acrimonia e animosità e ira e clamore e maldicenza sia bandita da voi insieme con ogni malizia » (Ef 4,31). E si potrebbe continuare ancora. Benché sia vero che il numero dei vizi supera di gran lunga quello delle virtù, tuttavia, poiché tutti derivano dagli otto vizi capitali, vinti che siano questi, tutti gli altri si afflosciano e scompaiono in una stessa morte. Dalla gola nascono gli eccessi nel mangiare e le ubriachezze; dalla lussuria nascono il turpiloquio, la scurrilità, i doppi sensi osceni, lo spergiuro, il desiderio di guadagni illeciti, le false testimonianze, le violenze, la crudeltà, la rapacità; dall’ira nascono gli omicidi, il clamore, la disperazione; dall’accidia nascono l’ozio, la sonnolenza, l’importunità, l’inquietudine, il vagabondaggio, l’instabilità della mente e del corpo, la ciarla e la curiosità; dalla vanagloria nascono le dispute, le divisioni, la millanteria, l’amore delle novità; dalla superbia nascono: il disprezzo, l’invidia, la disobbedienza, la bestemmia, la mormorazione, la detrazione. Questi vizi funesti non sono soltanto più numerosi delle virtù, sono anche più forti, come sentiamo bene dagli assalti che ci muove la nostra stessa natura. Nelle nostre membra è più forte il richiamo delle passioni carnali che il gusto delle virtù. Queste si acquistano a prezzo di una grande fatica dello spirito e del corpo. Se poi si considera con gli occhi della fede la schiera innumerevole di nemici che il beato Apostolo descrive quando dice: « La nostra lotta non è contro il sangue e la carne, ma contro i Principi e le Podestà, contro i dominatori del mondo delle tenebre, contro gli spiriti maligni dell’ira » (Ef 6,12); se si considera quel che è detto nel Salmo 90 a proposito dell’uomo giusto: « Mille cadranno al tuo fianco e diecimila alla tua destra » (Sal 90,7), apparirà chiaramente che questi nemici sono molto più numerosi e più forti di noi. Noi siamo carnali e terreni, ai nostri nemici è stata concessa una sostanza spirituale e sottile come l’aria. XVII – Domanda sulle somiglianze tra le sette nazioni e gli otto vizi Germano — Come mai sono otto i vizi capitali che ci fanno guerra, mentre Mosè enumera soltanto sette nazioni che si sono opposte al popolo d’Israele? E in qual senso è bene per noi possedere le terre occupate dai vizi? XVIII – Risposta: agli otto vizi corrispondono otto nazioni Serapione: Otto sono i vizi che fanno guerra al monaco: questa è la sentenza comune e assoluta. Se la sacra Scrittura non ce li presenta tutti, sotto il nome dei popoli che li contengono in figura, si deve al fatto che gli Ebrei son già usciti dall’Egitto e liberati da una nazione potentissima, quando Mosè, anzi il Signore stesso per bocca di Mosè, fa udir la sua voce nel Deuteronomio. La figura delle sette nazioni vale perfettamente anche per noi, che ci siamo liberati dai lacci della « gastrimargia », la quale è una specie di pazzia dello stomaco e della gola. Ormai anche noi abbiamo da combattere contro sette vizi: il primo, essendo già vinto, non conta più. C’è poi da notare che il territorio di questo popolo — la regione della gastrimargia — non viene assegnato da Dio al popolo d’Israele. Anzi, un comando espresso del Signore ordina di uscire per sempre da quella terra. Da questo siamo ammaestrati a regolare i nostri digiuni in maniera tale da non causare un indebolimento o una malattia della carne che ci risospingano verso l’Egitto, vale a dire, verso la concupiscenza del ventre e della gola, con la quale rompemmo i rapporti allorché rinunciammo al mondo. Qualcosa di questo genere capitò — in figura — agli Ebrei, i quali, usciti dall’Egitto per entrare nel deserto delle virtù, rimpiangevano le pentole piene di carne davanti alle quali stavano assisi in Egitto. XIX – Perché Dio domanda di risparmiare una nazione e di annientare le altre sette Perché, nei riguardi del popolo tra il quale Israele è nato, l’ordine di Dio non è di sterminarlo, ma soltanto di abbandonare il territorio? Perché, invece, nei riguardi degli altri sette popoli il comando divino è di sterminio completo? La ragione è questa: qualunque sia il fervore di spirito col quale siamo entrati nel deserto delle virtù, non possiamo fare a meno della vicinanza, del ministero e del quotidiano incontro con la gastrimargia 2) Il desiderio di mangiare è innato nell’uomo, è un bisogno naturale e rimarrà sempre, nonostante ogni nostro sforzo per rintuzzarne gli appetiti e i desideri superflui. Siccome quegli appetiti non si possono distruggere completamente, li dovremo evitare con molta cura, per non essere da loro dominati. È quanto c’insegna la Scrittura che dice: « Non abbiate cura della carne così da destarne le concupiscenze » (Rm 13,14). Se conserviamo un naturale affetto per le necessità della nostra carne, se quelle necessità devono esser moderate ma non distrutte, è chiaro che noi non abbiamo distrutto la nazione egiziana ma ci siamo separati da lei con una chiara divisione. Noi intendiamo rinunciare al pensiero di cibi troppo abbondanti e delicati, per contentarci — come dice l’Apostolo — del vitto quotidiano e di un vestito. Questo è il comando simbolico che ci rivolge la Legge: « Non considererai come abominevole l’egiziano, poiché abitasti come forestiero nella sua terra » (Dt 23,7). Rifiutare al corpo il nutrimento necessario sarebbe lo stesso che ucciderlo, e sarebbe anche un aggravare l’anima di peccato. Ma i movimenti degli altri sette vizi, dato che sono totalmente malvagi, bisogna bandirli in modo assoluto dai penetrali dell’anima nostra. Ecco come la Scrittura parla di essi: « Ogni acrimonia e animosità e ira e clamore e maldicenza sia sbandita da voi insieme con ogni malizia » (Ef 4,31). E ancora: « Fornicazione poi e qualsiasi impudicizia o avidità di possedere, non siano neppur nominate tra voi, e così niente disoneste parole, o buffonerie o scurrilità » (Ef 5,3-4). Potremo dunque estirpare quei vizi che sono sovrapposti alla nostra natura, ma è impossibile troncarne ogni rapporto con la gola. Sia pur altissima la perfezione da noi raggiunta, non potremo mai cessare di essere quelli che ci ha fatti la natura. È questa una verità che ci vien ricordata non solo dalla nostra condizione di infanti della vita spirituale, ma anche dalla vita di coloro che hanno raggiunto la perfezione. Costoro hanno per sempre messo a tacere le sollecitazioni degli altri vizi, hanno raggiunto il deserto per vivervi nel pieno fervore dello spirito e nel più completo spogliamento, ma non possono fare a meno di pensare al pane quotidiano e di procurarsi le provviste per l’annata. XX – II vizio della gola paragonato all’aquila La condizione di un monaco che è costretto a pensare al cibo, nonostante l’altissimo grado di perfezione raggiunto, si può illustrare col paragone dell’aquila. Il nobile uccello, dopo essersi sollevato al disopra delle nubi più alte, dopo essersi nascosto alla vista dell’uomo e a tutta la terra, è costretto dalla fame a riprender terra, a scendere nel fondo delle valli, a prender contatto con i corpi degli animali morti. Tutto ciò prova chiaramente che la potenza della gola non si può completamente troncare o spegnere come quella di altri vizi. Basterà contenerne gli stimoli e frenarne i moti smodati con la virtù dell’animo nostro. XXI – La resistenza della gola: disputa tra i filosofi Un vecchio discuteva con alcuni filosofi sul vizio della gola: i filosofi credevano d’aver a che fare con un uomo d’ingegno incolto, data la sua semplicità di cristiano, e pensavano di metterlo a mal partito. Ma il vecchio propose una specie di indovinello elegantissimo riguardante la natura della gola. Disse dunque: « Mio padre mi lasciò alle prese con molti creditori. Io li ho tutti liquidati e mi son liberato dalle loro importune richieste, ma ce n’è uno col quale non ho potuto far pari neppur pagandolo tutti i giorni ». I filosofi, non riuscendo a raccapezzarsi, domandarono al vecchio la soluzione. Quello disse: « Fin dalla mia nascita io ero legato a una catena di vizi, ma il Signore mise nel mio cuore il desiderio della libertà e io, rinunciando al mondo e ai beni che mi eran venuti in eredità, giunsi al punto di soddisfare tutti i miei petulanti creditori e di liberarmene completamente. Ma quanto alla gola, io non sono riuscito a liberarmi dal suo pungiglione. Pur avendola ridotta a proporzioni minime, non mi libero dai suoi quotidiani assalti. Sempre torna ad esigere e io devo pagarle una tassa che non ha né fine né tregua, è come un debito che non si estingue mai ». Allora i filosofi, che in principio lo avevano disprezzato come un sempliciotto e un rozzo, dissero che quel vecchio eccelleva nella parte più importante della filosofia, che è l’etica o scienza dei costumi. Furono anche pieni di meraviglia quando s’accorsero che costui aveva raggiunto, naturalmente e senza scuola, una scienza che essi, con tanta pratica e lunghi studi, non avevan potuto procurarsi. Ma è tempo di metter fine al nostro discorso sul vizio della gola. Torniamo all’argomento, già incominciato e poi sospeso, della parentela stretta che esiste fra tutti i vizi. XXII – Perché Dio profetizzò ad Abramo che il popolo d’Israele avrebbe vinto dieci nazioni C’è una difficoltà sulla quale non mi avete interrogato: quando il Signore parlò del futuro con Abramo, non enumerò sette nazioni ma dieci, e promise che avrebbe dato ai discendenti d’Abramo le terre di tutti quei popoli. La difficoltà si risolve facilmente: se si aggiungono agli otto vizi già elencati, l’idolatria e la bestemmia, che prima della conoscenza di Dio e del battesimo accompagnano, là nell’Egitto dello spirito, i pagani empi e i giudei bestemmiatori, il numero di dieci è raggiunto. Supponiamo ora che, mosso dalla grazia di Dio, uno rinunzi al mondo, esca dall’Egitto, trionfi sul vizio della gola e venga nel deserto spirituale. Costui è già vittorioso sugli attacchi di tre nazioni, gli rimane da combattere soltanto con le sette nazioni elencate da Mosè. XXIII – È utile per noi entrare in possesso di quella zona del nostro essere che era dominata dai vizi Quanto al comando di possedere le terre già occupate da questi popoli terribili, ecco come va inteso. Ogni vizio ha una particolare regione nel nostro cuore: di lì cerca di sterminare Israele, vale a dire la contemplazione delle cose celesti, e non si ritiene mai dal fargli guerra. Vizi e virtù non possono stare insieme: « Che cosa ha a che fare la giustizia con l’iniquità? Quale accordo può esservi tra Cristo e Belial? Quale comunanza tra la luce e le tenebre? » (2 Cor 6,14). Ma quando i vizi son vinti dal popolo d’Israele, cioè dalle virtù ad essi opposte, allora la regione che nel nostro cuore era occupata dallo spirito di concupiscenza e di fornicazione passa alla castità; la pazienza occupa il territorio dell’ira; alla tristezza che produceva morte, subentra una tristezza salutare e piena di gioia; dove l’accidia produceva le sue devastazioni incomincia a costruire la virtù della fortezza; l’umiltà innalza ciò che la superbia si metteva sotto i piedi. Così, ad ogni vizio messo in fuga, succede la virtù contraria, che ne prende il posto. Queste virtù si chiamano giustamente « Figlie di Israele », cioè dell’anima che vede Dio. Ma poi, a voler essere esatti, quando le virtù scacciano i vizi non si deve dire che esse s’impossessano di un territorio straniero, è meglio dire che rientrano in possesso di ciò che loro appartiene. XXIV – Le terre dalle quali furono espulsi i Cananei furono assegnate ai discendenti di Sem Un’antica tradizione insegna che la terra di Canaan (in cui furono introdotti i figli d’Israele) all’epoca della divisione del mondo, era toccata in sorte ai figli di Sem. Soltanto più tardi vi penetrarono con la forza e con la violenza i discendenti di Cam e la possedettero col diritto degli invasori. Ma qui appare il giusto giudizio di Dio che scaccia gli usurpatori dai luoghi ingiustamente occupati e restituisce al popolo d’Israele la terra dei loro padri, quella terra che era stata loro assegnata nella divisione del mondo. E qui c’è una figura che ha certamente in noi la sua realizzazione. La volontà di Dio assegnò il dominio del nostro cuore alle virtù, non ai vizi, ma dopo la prevaricazione di Adamo, questi cananei che sono i vizi cacciarono le virtù dalla loro terra. Ecco però che, ristabilite nei loro diritti per i nostri sforzi e le nostre fatiche, le virtù rientrano, con la grazia di Dio, nei loro possedimenti, né si può dire in alcun modo che occuparono terre straniere. XXV – Diversi testi riguardanti gli otto vizi capitali Anche il Vangelo parla di otto vizi capitali. Ecco in qual modo: « Quando lo spirito immondo è uscito da un uomo, se ne va per luoghi aridi in cerca di riposo, e non trovandolo, dice: Tornerò nella mia casa donde sono uscito. E quando vi giunge la trova vuota, spazzata e ornata. Allora va a prendere altri sette spiriti peggiori di lui i quali vi entrano e vi si stabiliscono, al punto che la condizione ultima di quell’uomo diventa peggiore della prima » (Mt 12,43-45). Nel Deuteronomio si parla di sette nazioni e si sottace l’Egitto dal quale gli ebrei erano usciti; qui si parla di sette spiriti immondi che tornano nella casa e si sottace quello che ne era uscito prima. Nel libro dei Proverbi Salomone parla così della radice dei setti vizi: « Se il nemico ti chiamerà a gran voce, non gli dare ascolto poiché sette scelleratezze sono nel suo cuore » (Pr 26,25). Vale a dire: se il vizio della gola, dopo essere stato sconfitto, incomincia a implorare dal fondo della sua umiliazione e vi supplica di rilassare un poco il vostro primo fervore, per non oltrepassare i limiti di una ragionevole austerità, non vi lasciate ingannare dal suo aspetto di sconfitto, né ritenetevi al sicuro dalle sue offese per il fatto che gli assalti della carne sembrano un po’ calmati. Chi si fida rischia di ricadere nello stato di rilassamento e nella concupiscenza della gola. Questa ricaduta potrebbe far dire allo spirito che avete vinto: « Tornerò nella casa dalla quale sono uscito ». E aggiungendosi a lui altri sette spiriti perversi, la vostra nuova passione diventerà molto più acre di quella che avevate superata e vi condurrà presto a peccati peggiori di quelli che commettevate per l’innanzi. XXVI – Dopo la vittoria sul vizio della gola, occorre applicare tutte le forze all’acquisto delle altre virtù Dobbiamo perciò stare attenti affinché, dopo esserci impegnati nel digiuno e nella mortificazione, e dopo aver vinto il vizio della gola, non lasciamo l’anima nostra priva di quelle virtù che la devono abitare. Dobbiamo invece far occupare dalle virtù tutti gli angoli del nostro cuore per evitare che lo spirito di concupiscenza, al suo ritorno, non ci trovi vuoti e sprovveduti. Se così ci trovasse, non si accontenterebbe di entrare da solo nell’anima nostra, ma introdurrebbe pure il suo corteggio di sette vizi e farebbe diventare la nostra nuova condizione peggiore di quella precedente. Colui che si vanta di aver rinunciato al mondo ha maggior ragione di arrossire, se accetta la tirannia dei vizi; la sua anima è più immonda e merita un castigo più severo di quello che avrebbe meritato se fosse rimasto nel secolo e non avesse scelto di far vita da monaco, o di portarne il nome. Si dice che questi sette spiriti sono peggiori del primo, perché la gola presa in sé sarebbe quasi innocua, se non si tirasse dietro altri vizi più gravi, come la lussuria, l’avarizia, l’ira, la tristezza, la superbia, che senza alcun dubbio sono mortalmente dannosi all’anima. Perciò non speri di ottenere la purezza dei perfetti colui che la chiede solo alla mortificazione o al digiuno corporale. Bisogna guardare più lontano e proporsi di voler usare la mortificazione del corpo come strumento per meglio assalire gli altri vizi, senza essere — in questo combattimento — attardati dall’insolenza di un corpo riempito fino alla saturazione. XXVII – L’ordine da seguire, nel combattere i vizi, non è lo stesso che si trova nella lista dei vizi stessi Ricordiamo bene però che l’ordine da seguire in questo combattimento non è uguale per tutti. L’assalto non si presenta in modo uniforme: ciascuno deve fare i suoi piani di battaglia secondo il nemico che più lo tormenta. Uno dovrà forse combattere per primo quel vizio che nel nostro elenco sta al terzo posto, un altro avrà da liberarsi prima dal quarto o dal quinto. Così regoleremo la nostra tattica tenendo conto dei vizi che sono in noi più potenti e badando al modo in cui ci assalgono. Una tattica intelligente ci otterrà vittoria e trionfo, e ci farà giungere alla purezza del cuore e alla pienezza della perfezione. Qui terminò il discorso dell’abate Serapione, sugli otto vizi capitali. Fino a quel momento noi eravamo stati incapaci di conoscere la sorgente e la parentela che lega tra loro le passioni nascoste nel nostro cuore. Ne avevamo però conosciuta la guerra dall’esperienza quotidiana. Ora, dopo che l’abate aveva gettato su quelle passioni una luce tanto abbondante, ci pareva di vederle davanti ai nostri occhi come riflesse in uno specchio. Note: 1) Questa enumerazione ottonaria dei vizi capitali non si accorda con quella settenaria ora in uso nella Chiesa. Per capire la differenza fra le due enumerazioni, si rifletta che Cassiano si limita a riferire una dottrina comune, ai suoi tempi, presso i moralisti del chiostro. Prima che il monachesimo prendesse vigore i peccati più gravi si chiamavano semplicemente « mortali »; furono i monaci a parlare di peccati capitali e a cercare di darne una classificazione. I primi elenchi non ebbero un numero e un ordine fisso; pare sia stato Evagrio Pontico — un monaco vissuto lungamente in Egitto, sul monte Nitro, e nel deserto delle Celle, durante la seconda metà del secolo III — a ridurre a sette i vizi capitali. L’enumerazione ottonaria che abbiamo letta in Cassiano è identica a quella di Evagrio Pontico, come si può riscontrare nella Storta Ecclesiastica di Socrate al capo 23 del libro IV. (P. G. 67, 516). San Giovanni Climaco (vissuto nel secolo VII sul monte Sinai) ridusse a sette i vizi capitali, basandosi sull’autorità di san Gregorio Nazianzeno e di altri, che però non ricorda espressamente. (Scala Paradisi grado 22; P. G. 88, 948). Dopo il Climaco tutti accettano il numero settenario e riducono vanagloria e orgoglio ad uno stesso vizio: la superbia, di cui la vanagloria è il principio e l’orgoglio è la completa consumazione, o grado supremo. 2) Tra la “gastrimagia” e la gola si stenta a trovare una differenza: la gola non è altro che la nostra traduzione del termine greco “gastrimagia”. Ma Cassiano aveva da accordare gli otto vizi capitali della morale monastica con le sette nazioni di cui parla la sacra Scirttura e lo fece giocando sul termine gastrimagia, come vediamo in questo capitolo della quinta conferenza. CONFERENZA DELL’ABATE TEODORO LA MORTE DEI SANTI Indice dei Capitoli I – Descrizione del deserto e domanda sulla morte dei Santi; I – Descrizione del deserto e domanda sulla morte dei santi In Palestina, vicino al villaggio di Tecue, che si vanta di aver dato i natali al profeta Amos, si estende un deserto vastissimo. I suoi confini sono: da una parte l’Arabia, dall’altra il Mar Morto, nel quale sfociano le acque del Giordano, e negli abissi del quale giacciono sepolti i resti di Sodoma. In quel deserto dimoravano da molti anni alcuni monaci di vita elettissima e di santità ammirevole: non molto tempo fa essi furono trucidati da bande di briganti saraceni. I Vescovi della contrada, e gli stessi abitanti arabi, fecero a gara nel ricercare i loro corpi, per deporli nei sepolcri in cui si conservano le reliquie dei martiri. La venerazione verso quei corpi fu sì grande che due schiere rivali, provenienti da paesi diversi, essendosi incontrate presso il sepolcro dei monaci, vennero in conflitto e sguainarono le spade per decidere chi di loro dovesse possedere il sacro tesoro. Ognuna delle due schiere accampava diritti a possedere la tomba e le reliquie. Gli uni dicevano che i santi monaci eran vissuti nelle vicinanze del loro paese, gli altri affermavano che quei monaci erano nati nella loro terra. Noi, tuttavia, rimanemmo profondamente colpiti da un fatto così strano; alcuni nostri confratelli ne rimasero addirittura scandalizzati. Perché — ci chiedevamo — uomini di così grande merito sono stati uccisi da briganti? Come ha fatto il Signore a permettere che un tale scempio si compisse sopra i suoi servi? Perché ha lasciato cadere nelle mani degli empi questi uomini che tutti ammiravano? Attristati da questi pensieri, andammo in cerca dell’abate Teodoro, uomo di alto valore nella vita ascetica. Costui abitava nel deserto delle Celle, che dista cinque miglia dal monastero di Nitra e ottanta miglia dal deserto di Scito, nel quale allora ci trovavamo. All’abate Teodoro manifestammo i pensieri che ci tormentavano a proposito dell’uccisione di quei monaci. Come ha fatto il Signore a sopportare che uomini di così alto merito perissero di una simile morte? La loro santità avrebbe dovuto liberare loro stessi dalle mani degli empi. Perché Dio aveva permesso che si compisse un sì grande delitto contro i suoi servi? Il santo abate rispose così. II – L’abate Teodoro risponde alla questione proposta Questo problema commuove l’anima di coloro che hanno poca fede e poca sapienza cristiana; per questo pensano che i santi dovrebbero trovare la loro ricompensa entro i brevi confini della vita presente. Invece i santi non ricevono il premio dei loro meriti qui sulla terra, Dio la tiene in serbo per l’eternità. Noi poi ricordiamoci bene le parole di san Paolo: « Se solo per questa vita abbiamo riposto in Cristo le nostre speranze, noi siamo i più miserabili di tutti gli uomini » (1 Cor 15,19), perché non vedremo in questo mondo il compimento delle sue promesse e perderemo il frutto eterno a causa della nostra incredulità. Non lasciamoci dunque irretire da opinioni erronee, perché, se non possederemo la vera dottrina, la tentazione ci troverà incerti e paurosi, e c’è da temere che ne saremo travolti. Finiremo così nel numero di coloro che rimproverano a Dio di agire ingiustamente, o di non curarsi degli eventi umani, perché egli non protegge nella prova i suoi santi o coloro che vivono rettamente, né rende, fin da questa vita, il bene ai buoni e il male ai cattivi. Questa accusa a Dio è una vera bestemmia e ci merita di esser condannati con quei tali che il Profeta Sofonia redarguisce con queste parole: « Costoro dicono in cuor loro: il Signore non fa né il bene né il male » (Sof 1,12). Oppure ci metteremo nella schiera di coloro che mormorano così contro il Signore: « Chiunque fa il male è buono negli occhi del Signore, e costoro gli piacciono. E se così stanno le cose, dov’è il Dio della giustizia? » (Mal 2,17). E faremo nostra anche questa bestemmia che segue poco dopo: « Chi serve il Signore serve invano: che guadagno abbiamo avuto dall’aver osservati i suoi comandamenti e dall’aver camminato nel raccoglimento davanti al Signore degli eserciti? Quindi, noi diremmo beati i miscredenti, perché hanno prosperato commettendo l’empietà; hanno tentato Dio e sono rimasti illesi » (Mal 3,14-15). Per liberarci dall’ignoranza, che è la radice e la causa di un errore così funesto, noi dobbiamo prima di tutto sapere che cosa è veramente buono e che cosa è veramente cattivo. Se, invece di seguire su questo argomento la falsa opinione del volgo, terremo la dottrina verace della sacra Scrittura, l’errore degli uomini senza fede non arriverà ad ingannarci. III – Tre categorie in cui si dividono le cose esistenti in questo mondo: le buone, le cattive, le indifferenti Tutte le cose che sono al mondo si dividono in tre categorie, esse sono: o buone, o cattive, o indifferenti. Tocca dunque a noi sapere ciò che è veramente buono, cattivo, o indifferente, affinché la nostra fede, sostenuta da una scienza sincera, rimanga salda dinanzi a tutte le prove. Notiamo che nelle cose umane, niente merita di essere stimato pienamente buono, all’infuori della virtù, la quale ci conduce a Dio nella sincerità della fede e a Dio ci fa aderire continuamente, come a sommo bene. Così pure, non c’è nulla di male in senso assoluto, all’infuori del peccato, il quale, dopo averci separati da Dio che è buono, ci unisce al diavolo che è cattivo. È indifferente tutto ciò che può essere indirizzato al bene o al male dalla volontà e dalla libertà di colui che ne usa. Indifferenti sono: le ricchezze, la potenza, l’onore, la forza fisica, la salute, la bellezza, la vita, la morte, la povertà, la malattia, le ingiurie e altre cose simili, che, secondo i sentimenti di colui che ne usa, possono servire sia al bene che al male. Non si può negare che le ricchezze servono spesso al bene: lo attesta l’Apostolo che dà questi consigli: « Ai ricchi dell’età presente do il consiglio di non essere alteri d’animo, ma di esser pronti a donare ai poveri i loro beni, tesoreggiando così per se stessi un buon fondamento per l’avvenire, affinché possano raggiungere quella che è veramente vita » (1 Tm 6,17-19). Anche il Vangelo afferma che son buone quelle ricche2ze che si usano a fare il bene: « Fatevi amici col denaro dell’iniquità » (Lc 16,9). Sono invece cattive quelle ricchezze che si ammassano al solo scopo di tesoreggiare, o per soddisfare la lussuria, non già per dispensarle ai poveri. Che la potenza, l’onore, la gagliardia fisica e la salute son cose indifferenti e suscettibili di servire al bene come al male, si prova facilmente dal fatto che molti santi dell’Antico Testamento furono in possesso di fortune sterminate, altissime dignità, forza e salute fisica e non furono per questo meno graditi a Dio. Lo stesso libro sacro ci mostra anche che coloro i quali abusarono delle ricchezze servendosene per soddisfare la loro cattiveria, furono giustamente puniti e tolti dal mondo; così attestano molti esempi del libro dei Re. La nascita di san Giovanni Battista e quella di Giuda dimostrarono che anche la vita e la morte sono cose indifferenti. Al Battista la vita giovò tanto che la sua nascita donò gioia anche agli altri, secondo quanto è scritto: « Molti godranno per la nascita di lui » (Lc 1,14). Di Giuda invece si legge: « Sarebbe meglio, per quest’uomo, se non fosse mai nato » (Mt 26,24). Di san Giovanni e di tutti i santi si dice: « Ha un prezzo assai alto al cospetto del Signore la morte dei suoi santi » (Sal 115,15). Della morte di Giuda, come di quella dei suoi consorti, si legge: « La morte dei peccatori è orribile » (Sal 33,22). Quali vantaggi possono ritrovarsi nella infermità del corpo, appare dalla gloria in cui ci è mostrato Lazzaro, il mendicante ricoperto di piaghe. Siccome la sacra Scrittura non nota in lui alcun’altra virtù, bisogna dire che egli meritò la bella sorte di essere ricevuto nel seno di Abramo per la grande pazienza esercitata nel sopportare la povertà e la malattia. Il bisogno, le persecuzioni, le ingiurie, son ritenute mali dal volgo; eppure la loro utilità è grandissima, come è provato dalla vita dei santi. Costoro, non contenti di accettare senza ribellarsi quei cosiddetti mali, li cercarono eroicamente e li sopportarono senza debolezza. In tal modo diventarono amici di Dio e guadagnarono il premio della vita eterna. Ecco a tal proposito come canta l’apostolo Paolo: « Io mi compiaccio nelle infermità, negli oltraggi, nelle privazioni, nelle persecuzioni, nelle angustie incontrate per Cristo. Quando sono infermo, proprio allora son forte, perché nella mia infermità risplende intera la forza di Dio » (2 Cor 12,10 e 9). Perciò non dobbiamo credere che coloro i quali si distinguono in questo mondo per le ricchezze, onori e potenze, siano in possesso del bene vero e sommo, che si ritrova soltanto nella virtù. Coloro che la fortuna ha ben provveduto sono in possesso di cose indifferenti. Quei beni sono utili e vantaggiosi ai giusti, che ne usano rettamente per soddisfare a reali bisogni — si tratta infatti di mezzi che aiutano a ben fare e a produrre frutti di vita eterna — sono invece inutili e dannosi a coloro che ne abusano, perché danno un’occasione di peccato e di morte. IV – Non si può far male a chi non vuole Teniamo fisse ed immobili le distinzioni stabilite e ricordiamoci che non esiste nulla di buono al mondo all’infuori della virtù, la quale nasce dal timore e dall’amore di Dio. Né c’è al mondo alcunché di male all’infuori del peccato, che è separazione da Dio. Ora investighiamo attentamente se Dio ha mai permesso che i suoi santi avessero a soffrire qualche male, o da lui o da altri. Vedremo che esempi di questo genere non se ne possono trovare. Ad un’anima che nega il consenso e fa resistenza, è impossibile far accettare il peccato. Questo penetra soltanto là dove un cuore fiacco e una volontà corrotta gli aprono la porta. Il demonio mise in azione, per far peccare il santo Giobbe, tutte le sue macchine da guerra: spogliò il sant’uomo di tutti i suoi beni e, quando lo vide sommamente addolorato per l’atroce e inattesa disgrazia, che fu la morte dei suoi sette figlioli, lo colpì con una piaga maligna che lo ricoprì da capo a piedi, poi lo sottopose a dolori insopportabili… Non poté tuttavia farlo cadere in peccato. Giobbe, nonostante tutto, rimase irremovibile, né dette alla bestemmia l’assenso più leggero. V – Obiezioni: come mai si dice che Dio ha creato il male Germano – Nella sacra Scrittura si legge più volte che Dio ha creato o ha mandato il male. Eccone un esempio: « Io sono il Signore e nessun altro vi è. Io formo la luce e creo le tenebre, faccio la pace e creo il male » (Is 45,6-7). E un altro esempio ancora: « Ci sarà sciagura nella città, ove non sia il Signore che operi? » (Am 3,6). VI – Risposta all’obiezione proposta Teodoro – La sacra Scrittura chiama talvolta « mali » le afflizioni. Ma non è che le afflizioni siano per loro natura dei veri mali; esse sembrano tali agli occhi di coloro che ne sono salutarmente colpiti. Quando Dio s’indirizza agli uomini per istruirli deve necessariamente parlare il loro linguaggio e adattarsi ai loro sentimenti. Il ferro e il fuoco che il bravo medico usa per curare le piaghe infette son rimedi salutari, tuttavia, a chi deve sopportar quei rimedi sembra di sostenere un male. Lo sperone non sembra dolce al cavallo, la correzione non è piacevole a chi ha sbagliato. Tutte le correzioni sembrano lì per lì amare a coloro che son corretti. Dice a proposito di ciò l’Apostolo: « Ogni castigo non sembra, lì per lì, esser di gioia, bensì di dolore; ma più tardi porta — a chi è da esso esercitato — pacifico frutto di giustizia »(Eb 12,11). E ancora: « Il Signore castiga chi ama e sferza ogni figliolo che accoglie. Qual figlio c’è che il Padre non corregga? » (Eb 12,6-7). Così è spiegato come spesso il termine « male » equivalga a quello di « afflizione », come si ha chiaramente nel seguente testo: « Dio ebbe di loro compassione; e il male che aveva detto di far loro, più non lo fece » (Gn 3,10). E altrove: « Tu, Signore, sei buono e propenso alla pietà, paziente e sommamente misericordioso, pronto a pentirti del male che fai » (Gal 2,13), cioè delle tribolazioni e dei castighi che i nostri peccati ti costringono ad infliggerci. Ben sapendo che a molti le afflizioni sono utili, un altro profeta, che vuol provvedere a non impedire la salvezza dei suoi fratelli, parla così: « Manda il male, manda il male, Signore, ai superbi della terra » (Is 26,15). Il Signore stesso parla in tal modo: « Ecco che io sto per far piovere su loro i mali » (Ger 11,11), cioè dolori e devastazioni, affinché, colpiti da un castigo salutare, siano costretti dal dolore e ricercare Colui che disprezzarono nel tempo della prosperità. Non possiamo dunque vedere dei « mali » nelle afflizioni, perché esse contribuiscono al bene di molti e forniscono un mezzo atto a guadagnare le gioie eterne. Per ritornare al nostro argomento, diremo che non si devono stimare veri mali tutti quei dolori che ci fanno soffrire i nostri nemici o altre persone; anziché di « mali » si dovrà parlare di cose indifferenti. Queste afflizioni non saranno nella realtà come le aveva immaginate colui che ce le aveva inflitte in un trasporto di collera, ma saranno come le farà diventare colui che le sopporta. Quando a un santo viene inflitta la morte, non si deve credere che gli è fatto un male: si tratta ancora di ima cosa indifferente. Quel che sarebbe un male per un uomo peccatore, per il santo è l’ora del riposo e della liberazione da tutti i mah. « La morte è un riposo per l’uomo la cui via è nascosta » (Gb 3,23 (LXX)). Il giusto non ha alcun danno dalla morte. In fin dei conti egli non soffre nulla di eccezionale perché la legge di natura lo aveva condannato a morire. La malizia del nemico, che lo uccide, non fa altro che donare al giusto il premio della vita eterna. Costui paga il debito che una legge senza eccezione lo obbligava a pagare: la morte, ma raccoglie dai suoi patimenti un frutto bellissimo e il premio di una infinita ricompensa. VII – Domanda: Siccome il giusto riceve il premio della sua morte, è proprio colpevole colui che l’uccide? Germano – Se il giusto che muore non soffre un male, ma riceve un premio della sua sofferenza, come si può accusare di colpa colui che, uccidendolo, non gli ha fatto del male, ma gli ha fatto invece un ottimo servizio? VIII – Risposta alla domanda precedente Teodoro – Noi stiamo parlando di ciò che è in sé o buono, o cattivo, o indifferente: non ci occupiamo delle intenzioni di coloro che agiscono. Tuttavia, l’uomo empio o ingiusto non resterà impunito per il fatto che la sua malizia non ha potuto nuocere al giusto. La pazienza e la virtù del giusto non merita la ricompensa a colui che gli procura la morte e i supplizi, ma a colui che morte e supplizi sopporta con pazienza. Il carnefice sarà giustamente punito della sua crudeltà, perché ha voluto far del male; la vittima, però, non ha sofferto alcun male perché la sua virtù, sopportando pazientemente la dolorosa prova, ha trasformato in mezzi di gioia e di vita eterna i maltrattamenti che gli s’infliggevano col proposito di fargli del male. IX – Esempio di Giobbe tentato dal demonio e del Signore tradito da Giuda. Prosperità e avversità giovano al giusto per la sua salvezza La pazienza di Giobbe, che uscì più santo dalla terribile prova, non potrà meritare un premio al diavolo che lo provò. Il premio spetta soltanto a chi sostiene fortemente gli assalti del tentatore. Così si dica per Giuda: egli non sarà immune dal supplizio eterno per il fatto che il suo tradimento ha giovato alla salvezza del genere umano. Non bisogna infatti considerare l’effetto di un’azione, ma l’intenzione di colui che la compie. Noi dunque dobbiamo ritenere fermissimamente questo principio: nessuno può far male ad un altro finché colui a cui si vuol far male non si arrende per leggerezza di cuore e pusillanimità. C’è un versetto dell’Apostolo che conferma questa sentenza: « Noi sappiamo che per coloro i quali amano Dio, tutto concorre al bene » (Rm 8,28). E dicendo: « tutto concorre al bene », l’Apostolo intende veramente tutto, non soltanto gli eventi favorevoli, ma anche quelli contrari. In altra occasione lo stesso Apostolo dice di essere passato anche lui per queste prove: « In mezzo alle armi della giustizia a destra e a sinistra ». Il che vuol dire « fra la gloria e l’ignominia, fra la calunnia e la lode, come seduttori eppur veritieri, come addolorati eppur sempre lieti, come miserabili ma capaci di arricchire molti » (2 Cor 6,7-10). Così, tutto ciò che va sotto il nome di prosperità e sta a destra, (l’Apostolo dice « onore e buona fama »), come tutto ciò che va sotto il nome di avversità e sta a sinistra, (l’Apostolo dice « ignominia e infamia »), tutto, diciamo, diventa arma di giustizia per l’uomo perfetto, purché egli accolga con cuore magnanimo ciò che gli capita. Tutto infatti gli serve per condurre la sua battaglia. Le stesse ferite con le quali si sperava di abbatterlo diventano per lui armi di difesa; egli se ne fa un arco, una spada, uno scudo validissimo contro coloro che lo assalgono. Così egli cresce in pazienza e in virtù, e riporta il trionfo gloriosissimo della costanza con quegli stessi strali che i nemici avevano destinati a produrre la sua morte. Non lo estolle (oppure: non si esalta per. Ndr.) la prosperità, non lo abbatte l’avversità: egli cammina per una via sempre uguale, per la via regia. Conserva la sua inalterabile tranquillità, senza che le gioie — quando le incontra — lo facciano deviare a destra, senza che gli assalti dell’avversità lo facciano piegare verso sinistra, sopraffatto dalla tristezza. « C’è una grande pace, o Signore, per coloro che amano il tuo nome: niente per loro è occasione di caduta » (Sal 118,165). Di coloro, invece, che cambiano ad ogni mutar di vento, si legge: « Lo stolto è mutevole come la luna » (Sir 27,12). Come per i perfetti è scritto: « Tutto concorre al bene per coloro che amano Dio » (Rm 8,28), così per i deboli e gli stolti è scritto: « Tutto è contrario all’uomo stolto » (Pr 14,7 (LXX)), egli non si avvantaggia nella prosperità e le avversità non lo correggono. Sopportare coraggiosamente l’avversità e dominarsi nella prosperità sono due effetti di una stessa virtù. Lasciarsi vincere in imo di questi scontri significa incapacità a sostenere l’una e l’altra prova. Tuttavia è più facile esser vinti dalla prosperità che dall’avversità. Quest’ultima frena e umilia, e, attraverso la salutare compunzione che ispira, libera dai peccati che si potrebbero commettere, o corregge da quelli commessi. La prosperità, invece, innalza l’anima con le sue lusinghe sottili e dannose, finché la fa precipitare in una rovina orrenda. X – Virtù dell’uomo perfetto, che è chiamato figuratamente ambidestro Noi stiamo parlando di quegli uomini perfetti che nelle sacre Scritture sono figuratamente chiamati « ambidestri ». Tale era, secondo il libro dei Giudici, il celebre Aoth, il quale « si serviva delle due mani con uguale destrezza » (Gdc 3,15). Anche noi potremo possedere questa virtù in senso spirituale, a patto che, attraverso un uso buono e retto della prosperità (la quale rappresenta la destra) e dell’avversità (la quale rappresenta la sinistra) rendiamo tutto profittevole alla nostra vita spirituale. Così tutto quello che ci capita sarà per noi — come dice l’Apostolo — un’arma di giustizia. Il nostro uomo interiore, lo sappiamo bene ormai, si compone di due parti essenziali; oppure — se è permesso esprimersi così — ha essenzialmente due mani. Nessun giusto può sottrarsi a quegli avvenimenti che noi abbiamo figuratamente chiamati « mano sinistra », ma la virtù perfetta si riconosce da questo segno: se avvenimenti prosperi e avvenimenti sfavorevoli diventano per il giusto una « mano destra » a causa del buon uso che costui sa farne. Cerchiamo di farci comprendere più chiaramente. L’uomo giusto ha la mano destra, vale a dire ha i suoi buoni successi nella vita spirituale. Egli allora, nel fervore del suo spirito, domina su tutte le passioni e le concupiscenze. Messo al sicuro da ogni assalto del demonio, respinge nettamente, senza fatica o difficoltà, tutti i vizi della carne. Il suo volo lo porta a tali altezze dalla terra che le cose presenti gli sembrano fumo che si dissolve, ombra vana: il loro carattere instabile e transitorio gli ispira disprezzo. Rapito in estasi, non solo desidera ardentemente le cose future, ma le contempla con somma chiarezza. La contemplazione lo nutre più efficacemente; i segreti celesti appaiono più chiari ai suoi occhi; le sue preghiere salgono al cielo più pure e più vive. Una grande fiamma lo brucia dentro; con l’anima fatta incandescente egli s’innalza alle cose invisibili ed eterne, tantoché non sembra che abiti ancora in una carne mortale. Ma l’uomo giusto ha pure la mano sinistra. La tempesta delle tentazioni lo assale; il fuoco della concupiscenza accende i desideri della carne; le passioni sobillano gli ardori della collera; la superbia e la vanagloria soffiano per farlo innalzare; la tristezza, che produce la morte, lo abbatte; l’accidia lo assale con tutte le sue macchine da guerra e lo scuote. Allora, essendogli sottratto tutto il primitivo fervore, egli s’intorpidisce nella tiepidezza e in una tristezza senza motivo: non ha più pensieri virtuosi e fervorosi. Che anzi: la salmodia, la preghiera, la lettura, la solitudine della cella gli diventano insopportabili: tutti gli strumenti di virtù gli ispirano un fastidio tetro e noioso. Quando il monaco si sente esposto a questi attacchi, deve ammettere che essi vengono da sinistra. Facciamo ora l’ipotesi di un monaco il quale, trovandosi nella situazione che noi abbiamo chiamato « di destra », non si è insuperbito al soffio sottile della vanagloria; e nella situazione « di sinistra » ha combattuto con tale coraggio da non soccombere alla disperazione, ma da trasformare pazientemente l’avversità in un’arma per l’acquisto della virtù. Quando abbiamo immaginato un tal monaco, abbiamo creato il tipo dell’ambidestro. Costui, trionfando nell’una e nell’altra battaglia, ottiene la palma della vittoria a destra e a sinistra. Una tale completa vittoria seppe ottenere il santo Giobbe, secondo quel che leggiamo nella sacra Scrittura. Egli acquistò la corona a destra. Padre di sette figli, viveva nell’abbondanza e nella ricchezza, tuttavia offriva ogni giorno per essi sacrifici espiatori al Signore, perché desiderava più di legarli a Dio che a se stesso. La sua porta era aperta a chiunque si presentasse: egli era piede per lo zoppo, occhio per il cieco. Le pelli delle sue pecore scaldavano le spalle degli ammalati; egli era il padre degli orfani, il difensore delle vedove. Se il suo nemico cadeva non se ne rallegrava neppure nel segreto del cuore. Ma Giobbe trionfò anche a sinistra opponendo alle avversità una virtù ancor più sublime. In uno stesso istante perse tutti i sette figlioli, e in quella circostanza non si vede in lui il padre sopraffatto da amaro dolore, bensì il vero servo di Dio che ripone la sua grazia nel fare la volontà del Creatore. Quando divenne da ricco, poverissimo; da ben provvisto, privo di tutto; da sano, un corpo coperto di piaghe; da onorato e glorioso, abietto e disprezzato, conservò intatta la sua forza d’animo. Spogliato di ogni sostanza e di ogni potenza, ebbe per casa una concimaia; a somiglianza di severo carnefice raschiò con un coccio il marcio che scaturiva dalle sue piaghe ed estrasse con le dita i grovigli di vermi che gli si annidavano nelle piaghe, in ogni parte del corpo. In mezzo a tanti mali mai disperò, mai ardì bestemmiare Dio o mormorare contro il Creatore. Anzi, per nulla atterrito da questo flagello di mali, ricorda che del suo antico splendore gli rimane ancora una bella veste, sfuggita alla rabbia del demonio, di cui si copre il suo corpo. Giobbe la straccia e la getta lontana da sé, e aggiunge questo spogliamento volontario a quelli che gli aveva procurati il crudele avversario. Gli rimanevano intatti i capelli, ultimo resto dell’antica gloria; egli li taglia e li getta al suo tormentatore; e mentre si priva di ciò che l’ira del nemico gli aveva lasciato, gli grida queste parole con tono di gioia e d’insulto: « Se abbiamo ricevuto dal Signore il bene, perché non dovremmo accettare anche il male? Nudo sono uscito dal seno di mia madre e nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha ritolto; tutto è avvenuto come è piaciuto al Signore. Sia benedetto il nome del Signore » (Gb 2,10; 1,21). Mi par giusto definire « ambidestro » anche Giuseppe ebreo. Egli fu, nella prosperità, carissimo al padre, modello di pietà ai fratelli, particolarmente gradito a Dio. Nell’avversità si dimostrò casto, fedele al suo padrone, dolce verso i compagni di prigionia, pronto a dimenticare le ingiurie, benefico verso i nemici, tenero e, più ancora, magnanimo verso i fratelli invidiosi e — almeno intenzionalmente — assassini. Uomini come questi, e tutti coloro che ad essi assomigliano, si possono giustamente chiamare ambidestri, perché usano delle due mani con uguale destrezza, e passando attraverso quegli estremi di cui parla l’Apostolo, possono ripetere con lui: « Fra le armi della giustizia a destra e a sinistra. Per l’onore e il disonore, per la buona e la cattiva fama… ». Anche Salomone parla di « destra » e di « sinistra » e lo fa nel Cantico dei Cantici, per bocca della sposa. « La sua sinistra sotto il mio capo, e la sua destra mi abbraccia » (Ct 2,6). Così la sposa afferma che tutte e due le mani sono utili, ma fa pure una distinzione. Dicendo « la sua sinistra sotto la mia testa », indica che le avversità debbono essere sottomesse alla parte principale dell’anima, qui designata con la figura della « testa ». Infatti le avversità giovano soltanto ad esercitarci e istruirci nella via della salvezza, e a renderci perfetti nella pazienza. Ma per quanto riguarda la destra, la sposa chiede di esser da quella circondata con un abbraccio indissolubile, che la scaldi e la protegga nell’unione perfetta e soave con lo sposo. Saremo anche noi ambidestri, se l’abbondanza o la privazione delle cose presenti ci lasceranno indifferenti: se l’abbondanza non ci porterà ai piaceri di un rilassamento mortale, né la privazione ci farà disperare o mormorare. È ambidestro chi ringrazia Dio nella buona e nella cattiva fortuna e cerca di trovare vantaggio sia dall’una che dall’altra. Così si presenta a noi quel perfetto ambidestro che fu l’Apostolo delle genti; egli dice di se stesso: « Ho imparato a bastare a me stesso con le cose che mi trovo ad avere. So esser povero e so esser ricco; in tutto e per tutto mi sono abituato, e ad essere sazio e ad avere fame, a nuotar nell’abbondanza e a patir nelle privazioni. Ogni cosa io posso in colui che mi dà forza » (Fil 4,11-13). XI – Due specie di tentazioni che si presentano in tre modi diversi Abbiamo detto che la tentazione ha due forme: quella della prosperità e quella dell’avversità, ma bisogna anche sapere che le tentazioni assalgono l’uomo per tre ragioni diverse. Spesso hanno lo scopo di provarlo, altre volte di purificarlo, in certi casi sono anche un castigo per i peccati commessi. Innanzi tutto la tentazione è una prova. Così fu per Abramo, Giobbe e molti santi che sostennero tribolazioni innumerevoli, come ci attesta la sacra Scrittura. In questo senso Mosè parla al popolo nel Deuteronomio, e dice: « Ricordati di tutto il cammino nel quale il Signore Dio tuo ti condusse per quaranta anni nel deserto, per castigarti e metterti a prova, perché divenisse manifesto quel che si rivolgeva nell’animo tuo, se osservavi o no i suoi comandamenti » (Dt 8,2). Analogo è il significato delle parole che si leggono nei Salmi: « Ti misi alla prova presso l’acqua della contraddizione » (Sal 80,8), e delle altre parole indirizzate a Giobbe: « Credi tu che io ti abbia parlato per un altro motivo che non sia quello di mettere alla prova la tua giustizia? » (Gb 40,3 (LXX)). La tentazione è anche una purificazione. Quando vede nei giusti certe colpe leggere, oppure scorge che si insuperbiscono della loro purezza, Dio per umiliarli li abbandona a diverse tentazioni, sì da liberarli fin da questa vita da tutte le impurità, o da tutte le « scorie », come dice il Profeta (Is 1,25), che il suo occhio scorge nelle parti più intime della loro anima. Il Signore agisce così perché vuole che i giusti si presentino un giorno come oro puro alla prova che avranno da sostenere davanti al suo tribunale, senza che sussista in loro neppur una pagliuzza da consumare — dopo il giudizio — col fuoco vendicatore del Purgatorio. Il disegno di Dio è così svelato dalla Scrittura: « Molte sono le tribolazioni dei giusti » (Sal 33,20), oppure: « Figlio mio, non far poco caso della disciplina del Signore, e non ti scoraggiare quando sei da lui ripreso; poiché il Signore castiga chi ama e sferza ogni figliolo che accoglie. Qual figlio c’è che il padre non corregga? Se siete fuori della disciplina, di cui tutti son partecipi, siete bastardi, non figli legittimi » (Eb 12,5-8). L’Apocalisse aggiunge: « Io, quanti amo, li riprendo e castigo » (Ap 3,19). I giusti son pure raffigurati nella città di Gerusalemme alla quale Dio così parla per bocca del profeta Isaia: « Annienterò tutte le genti tra le quali ti ho disperso, ma te non annienterò: ti darò il castigo che ti meriti affinché non ti creda innocente » (Ger 30,11). Per questa salutare purificazione, così pregava David: « Provami, o Signore, e sperimentami, saggia al fuoco i miei reni e il mio cuore » (Sal 25,2). Anche Isaia, che aveva compreso il valore di questa purificazione, pregava così: « Castigami, o Signore; ma con equanimità e non con tutto il tuo furore » (Ger 10,24); oppure: « Io ti celebrerò, o Signore, perché essendo sdegnato con me, ti sei rimesso dalla tua collera e mi hai consolato » (Is 12,1). In ultimo, la tentazione può essere un castigo del peccato, come quei castighi che il Signore minacciava di mandare al popolo d’Israele: « Manderò contro di loro i denti delle bestie feroci e il furore dei serpenti che strisciano sopra la terra » (Dt 32,24), oppure: « Inutilmente ho percosso Ì vostri figli; voi non avete ricavato alcun insegnamento » (Ger 2,30). Il Salmo canta: « Molti castighi cadono sui peccatori » (Sal 31,10) e il Vangelo aggiunge: « Non voler più peccare, affinché non t’incorra qualcosa di peggio » Gb 5,14). Si può anche dare una quarta ragione per spiegare le tentazioni, vediamo infatti nella sacra Scrittura che alcuni subiscono un male per il solo scopo di manifestare la gloria di Dio e le sue opere. Di questa ragione parla il Vangelo quando dice: « Non ha peccato lui e non hanno peccato i suoi antenati: il suo male ha lo scopo di manifestare le opere di Dio » (Gb 9,3); oppure: « Questa infermità non è per la morte, ma per la gloria di Dio e perché il Figlio dell’Uomo ne sia glorificato » (Gb 11,4). Ci sono anche altre specie di castighi divini che cadono all’improvviso su coloro che hanno oltrepassato il colmo della malizia umana. Così furono colpiti Datan, Abiron e Core e quelli di cui parla l’Apostolo quando dice: « Per questo Dio li ha abbandonati a passioni innominabili e al loro senso reprobo » (Rm 26 e 28). E questo è il più terribile di tutti i castighi; il salmista parla così di coloro che lo hanno meritato: « Ai travagli degli uomini non hanno parte, né con gli altri uomini sono flagellati » (Sal 72,5). Costoro non meritano di ricevere dal Signore quelle visite che salvano, o di ricevere una medicina che possa guarire i loro mali. Giunti ormai alla disperazione, « si son dati alla dissolutezza così da operare ogni impurità » (Ef 4,19). Essi, per l’indurimento del loro cuore, per l’abitudine al male, per il numero dei peccati, hanno oltrepassato il limite entro il quale è possibile, nella vita presente, una purificazione e una penitenza. A loro Dio rivolge questo rimprovero, per bocca del Profeta: « Vi ho sconvolti come Iddio ha sconvolto Sodoma e Gomorra, e vi siete ridotti come un tizzo sottratto all’incendio: e non siete tornati a me, dice il Signore » (Am 4,11). E Geremia soggiunge: « Già ne ho uccisi e fatti perire del popolo mio, e tuttavia dalle loro vie non si son ritirati » (Ger 15,7); e ancora: « Tu li hai percossi e si sono risentiti, li hai quasi rifiniti e ricusarono di ricevere correzioni, indurirono la loro faccia più di una pietra e non vollero ravvedersi » (Ger 5,3). Vedendo che tutte le medicine della vita presente erano incapaci di guarirli, il profeta, disperando ormai della loro salvezza, esclama: « Il mantice è stanco; il piombo si è consumato al fuoco; invano il fonditore ha cercato di fondere, perché la loro malvagità non si è sciolta. Chiamateli « argento di scarto » perché il Signore li ha scartati » (Ger 6,29-30). Ascoltiamo ancora il Signore che si lamenta di aver applicato inutilmente questa purificazione del fuoco ai peccatori incalliti nella colpa; costoro sono raffigurati in Gerusalemme profondamente penetrata dalla ruggine del peccato: « La poserai, vuota, sopra la brace, affinché si arroventi e si liquefaccia il suo rame e si sciolga in mezzo ad essa la sua contaminazione e si consumi la sua ruggine. Fatica sprecata! La sua grossa ruggine non si è disfatta neppure col fuoco » (Ez 16,42). A somiglianza di valentissimo medico il Signore ha sperimentato tutti i rimedi, ed ora non trova medicina che sia appropriata al loro male. Vinto — se così si può dire — dal cumulo delle loro iniquità, è costretto ad abbandonare i castighi che sono ispirati dalla clemenza e di ciò li avverte con queste parole: « Il mio sdegno contro di te si placherà e la mia gelosia verso di te sparirà » (Ez 16,42). Ben diverso è il linguaggio di David con quei tali che non sono stati induriti dalla frequenza del peccato e quindi non hanno bisogno di un trattamento rigoroso o di una medicina caustica, ma possono esser guariti con un semplice rimprovero: « Io li correggerò — dice il Signore — con parole che li affliggeranno » (Os 7,12 (LXX)). Non ignoriamo che ci sono anche altri motivi capaci di muovere i divini castighi. Talvolta Dio punisce i grandi peccatori, non per correggerli o metterli in condizione di espiare i loro delitti, sebbene per correggere gli altri uomini ispirando in loro il santo timore. Il castigo di Geroboamo, figlio di Nabat, quello di Baasa, figlio d’Achia, quello di Acab e di Gezzabele, ebbero indubbiamente un tale carattere, lo stesso libro sacro ce lo fa notare: « Ecco io farò venire sopra di te la sventura, io mieterò la tua prosperità e sterminerò dalla casa di Acab chiunque orina contro il muro, chi è rinchiuso e chi è ultimo in Israele; e ridurrò la tua casa come la casa di Geroboamo figlio di Nabat e come la casa di Baasa figlio di Achia, perché tu hai agito in modo da provocarmi alla collera e hai fatto peccare Israele ». Anche contro Gezzabele parlò il Signore dicendo : « I cani mangeranno Gezzabele nel campo di Israele. Se Acab morirà nella città lo mangeranno i cani, se morirà in campagna, lo divoreranno gli uccelli del cielo » (1 Re (3 Re; Vulg.) 21,21-24). C’è poi nelle Scritture anche questa minaccia terribile: « Il tuo corpo non sarà calato nella tomba dei tuoi padri » (1 Re (3 Re; Vulg.) 13,22). Il senso di queste parole non è che i delitti di Geroboamo (il quale introdusse per primo i vitelli d’oro tra gli ebrei, trascinando così il popolo lontano da Dio in una prevaricazione che non doveva finire), e i sacrilegi abominevoli e frequenti degli altri prevaricatori sopra ricordati, potessero essere espiati con un castigo breve come l’istante che fugge. No! Dio voleva inculcare sentimenti di terrore ad altri uomini distratti, o increduli a riguardo delle pene eterne, ma molto sensibili al pensiero dei castighi presenti; per questo mise sotto i loro occhi esempi di vendetta da spaventare. Questa severità doveva anche convincerli sperimentalmente che la divina maestà non si disinteressa delle cose umane, né abbandona al caso gli avvenimenti della vita quotidiana. Doveva anche persuaderli, con la vista di castighi così terribili, che Dio premia e castiga, secondo il merito, tutte le nostre opere. Abbiamo anche l’esempio di molti che furono puniti con sentenza di morte improvvisa per colpe leggere: la divina giustizia li mise alla pari con quei sacrileghi di cui abbiamo parlato prima. Così avvenne per colui che aveva raccolto la legna in giorno di sabato, per Anania e Saffira che, vinti dall’errore della infedeltà, si erano ritenuti un poco del loro denaro. La loro colpa non stava alla pari, in gravità, con quella degli altri peccatori da noi conosciuti; era però d’una forma nuova. Essi dovevano essere un esempio di penitenza come lo erano stati di peccato. Dovevano essere un esempio atto ad ispirare terrore, affinché chiunque si fosse provato ad imitarli si sentisse condannato allo stesso modo, se non in questa, almeno nell’altra vita, e conoscesse il castigo che lo attendeva al giudizio finale. Ma, per trattare delle varie specie di tentazioni e delle vendette divine che puniscono le colpe, ci siamo un poco allontanati dal nostro tema, che era quello di provare come i giusti conservano la stessa inalterabile calma nella prosperità e nell’avversità. Ora è tempo di tornare al nostro argomento. XII – II giusto non deve somigliare alla cera, ma al sigillo di diamante L’anima del giusto non deve somigliare alla cera o a qualche altra cosa molle, la quale cede sempre al sigillo che le si imprime, ne prende la forma e l’impronta per conservarla fino a che l’applicazione di un nuovo sigillo non le imprime un’altra figura. Se così fosse, l’anima non rimarrebbe mai in uno stato durevole, ma assumerebbe di continuo le forme che le potrebbe imprimere il flusso delle cose e degli eventi. Al contrario! L’anima deve essere come un sigillo di diamante il quale, oltre a conservare inviolabile la sua figura, segna con quella i diversi avvenimenti della vita e li fa simili a sé, senza mai subire impressioni o impronte da parte di quelli. XIII – Domanda: può l’anima rimanere continuamente nel medesimo stato? Germano — È impossibile, per l’anima nostra, rimanere sempre nel medesimo stato? Perseverare nella stessa disposizione? XIV – Risposta alla domanda Teodoro — C’è una legge inviolabile, così presentata dall’Apostolo: « O l’uomo — rinnovato nella sua parte spirituale — segnerà ogni giorno qualche progresso, slanciandosi alle cose davanti » (Cfr. Ef 4,23 e Fil 3,13), oppure — se sarà negligente — tornerà indietro e andrà di male in peggio. L’anima dunque non può in alcun modo rimanere nel medesimo stato. Pensiamo un uomo che si trovi in una barca in mezzo alle acque di un fiume impetuoso. Che cosa può fare? o impiega tutta la forza delle sue braccia e risale la corrente impetuosa spostandosi a monte, oppure si abbandona, e allora la forza della corrente se lo porta dove vuole. Ecco il segno evidente delle nostre perdite: se ci accorgiamo di non aver progredito, dobbiamo tener per certo di essere andati indietro. Il giorno in cui non siamo andati avanti abbiamo abbandonato qualche posizione. È impossibile — come abbiamo già detto — che l’anima dell’uomo possa rimanere stazionaria. Non c’è un santo, finché vive in questa carne, che possa stabilirsi sulla vetta della virtù e là rimanere immobile: o cresce continuamente in virtù, oppure diminuisce. Non c’è creatura in cui la perfezione abbia raggiunto un grado tale da non poter più crescere o diminuire. Ce lo afferma anche il libro di Giobbe: « Che cosa è l’uomo perché sia senza macchia, e perché appaia giusto chi è nato da donna? Ecco, fra i santi di Dio nessuno è immutabile, e i cieli non sono puri agli occhi suoi » (Gb 15,14-15). Dio solo è immutabile; di lui dice il Profeta: « Tu sei sempre il medesimo » (Sal 101,28), ed egli dice di sé: « Io sono il Signore e non muto » (Mal 3,6). Dio solo è, per natura sua, sempre buono, sempre nella pienezza della perfezione, a lui niente si può aggiungere e niente si può togliere. Noi dobbiamo perciò esser protesi alla conquista della virtù con una diligenza che non si stanca mai; dobbiamo continuamente stare occupati negli esercizi della virtù, per timore che, cessando di progredire, non abbiamo a tornare verso il vizio. L’abbiamo già detto: l’anima non può fermarsi in uno stato stazionario: o cresce in virtù, o diminuisce. Non acquistare è perdere: quando si spegne il desiderio di progredire, non è lontano il pericolo d’indietreggiare. XV – A quali danni va incontro chi si allontana dalla cella Tutto questo richiede che rimaniamo fedeli al ritiro nella nostra cella. Ogni qualvolta l’avremo lasciata per attendere ad altre occupazioni, al nostro ritorno ci troveremo come estranei e sperduti in essa: sarà come se cominciassimo allora ad abitarvi, pieni d’incertezza e di turbamento. Il fervore di spirito che il monaco aveva acquistato standosene ritirato nella sua cella, perduto che sia, non sarà facile a riconquistarsi. Chi è decaduto dal primo stato non può pensare al progresso che avrebbe potuto fare se non avesse lasciato la cella, ma sarà contento se potrà riacquistare il grado da cui era caduto. Come non si recupera il tempo perduto così non si ritrovano i meriti che ci siamo lasciati sfuggire. Tutto ciò che di buono può produrre il nuovo fervore dello spirito e progresso del giorno presente, è guadagno del momento che fugge, non è affatto una riconquista delle ricchezze spirituali perdute. XVI – Anche le virtù vanno soggette a mutazione Anche le potenze spirituali o angeliche, sono sottomesse al cambiamento, come abbiamo già avuto occasione di dire e come ci prova la caduta degli angeli dovuta alla corruzione della loro volontà. Neppure quegli spiriti che perseverano in quella beatitudine in cui furono creati, possono esser giudicati immutabili per il semplice fatto che non si son lasciati attirare dalla parte contraria a Dio. Altra cosa è l’immutabilità per diritto di natura, altra cosa è la capacità di non mutare, ottenuta con lo sforzo della virtù e della fedeltà al bene: questa capacità è frutto della grazia di Dio, il quale è immutabile per natura. Tutto ciò che si acquista e si conserva mediante la nostra diligenza, si può perderlo per negligenza. Per questo è detto nella Scrittura: « Non beatificare l’uomo prima che sia morto » (Sir 11,28); infatti, finché l’uomo è nella mischia, finché rimane nel mezzo dell’arena, per quanto sia abituato a vincere e per numerose che siano le sue vittorie, non può essere immune dal timore di una caduta sempre possibile. Ecco perché si dice che solo Dio è immutabile e solo Dio è buono: egli possiede la bontà non per studio o industria ma per essenza, quindi non può essere altro che buono, non può non essere buono. Nessuna virtù può essere possesso immutabile per l’uomo; chi — dopo averla acquistata — vuol conservare una virtù, deve usare a conservarla la stessa attenzione e diligenza che usò ad acquistarla. XVII – Nessuno cade all’improvviso Quando uno cade non si tratta mai di una disgrazia improvvisa. I casi sono due: o una formazione difettosa fin dalle origini lo ha messo per ima via sbagliata, oppure una prolungata negligenza ha indebolito a poco a poco la sua virtù e fatto crescere i vizi: quella dolorosa caduta è l’effetto di uno di questi stati. « La superbia precede la caduta e prima della rovina s’inorgoglisce lo spirito » (Pr 16,18). Una casa non crolla mai all’improvviso. Sarà un difetto del fondamento, tanto antico quanto la costruzione, sarà la trascuratezza degli abitanti che ha lasciato penetrare l’acqua a goccia a goccia finché questa ha fatto marcire le travi del tetto e poi, col progredire del tempo, ha formato aperture più grandi e incrinature più pericolose. Alla fine la pioggia è entrata con impeto, a torrenti. « Per via della pigrizia precipiterà il soffitto e per l’inerzia delle mani farà acqua la casa » (Qo 10,18). Ecco detto metaforicamente quel che accade all’anima. Ce lo ripete con altre parole lo stesso Salomone: « L’acqua che cade dal tetto caccia l’uomo di casa in un giorno d’inverno » (Pr 27,15 (LXX)). Molto elegantemente il libro paragona l’anima negligente al tetto non sorvegliato: attraverso la trascuratezza infatti giungono nell’anima gl’impulsi delle passioni, a somiglianza di gocce impercettibili. Se si trascurano come cose da poco o di nessun conto, adagio adagio corrompono le travi, che son le virtù, e poi lasciano passare il diluvio dei vizi. In un giorno d’inverno, cioè nel tempo della tentazione, il demonio attacca e scaccia l’anima dalla dimora della virtù nella quale una diligenza piena d’attenzione le aveva permesso fin qui di abitare come in casa propria. Quanto avevamo udito era per noi un alimento spirituale di cui non potevamo assaporare tutta l’infinita dolcezza. La gioia di questa conferenza superava di gran lunga la tristezza che aveva cagionato il pensiero della morte dei santi. Non solo erano stati sciolti i nostri dubbi, ma c’erano state rivelate, in questa occasione, molte altre cose che la nostra corta intelligenza non avrebbe mai pensato d’indagare. PRIMA CONFERENZA DELL’ABATE SERENO MOBILITÀ DELL’ANIMA E DEGLI SPIRITI MALIGNI Indice dei Capitoli I – Castità dell’abate Sereno; I – Castità dell’abate Sereno Ci fu un uomo di grandissima santità ed astinenza, chiamato abate Sereno; egli rifletteva, nella persona e nella vita, tutta la pace che portava nel nome. Noi lo ammiravamo e lo veneravamo al disopra di tutti gli altri monaci. Io vorrei far conoscere quest’uomo di Dio a tutte le anime assetate di perfezione, né ho altro mezzo per soddisfare il mio desiderio tranne quello di inserire nella presente opera le sue conferenze spirituali. Fra tutte le virtù che la grazia del Signore faceva risplendere nelle sue opere, nei suoi costumi e persino nella sua faccia, egli aveva ricevuto il dono particolare di una castità sì alta da non sentire più, neanche durante il sonno, i moti naturali della carne. Io penso che sia bene spiegare come egli arrivò — con l’aiuto della grazia divina — ad una purezza così eccellente da sembrar superiore alla condizione umana. II – Domanda del santo vecchio sullo stato dei nostri pensieri Fin dall’inizio della vita monastica il suo più grande pensiero era stato quello di acquistare la purezza dello spirito e del cuore: pregava giorno e notte ed accompagnava la preghiera con digiuni e veglie, infaticabilmente perseverante nella ricerca della castità. Quando s’accorse che i suoi desideri erano compiuti, che gli ardori della concupiscenza si erano spenti nel cuore, come se il gusto dolcissimo della purezza non avesse fatto altro che accenderne in lui una sete più bruciante, si senti più che mai infiammato dal desiderio della purezza. A questo scopo raddoppiò i digiuni e le preghiere. Il vizio impuro era morto nel suo uomo interiore; ora voleva che, per benigna concessione del Signore, quella stessa morte si estendesse anche all’uomo esteriore. Voleva essere penetrato da una purezza perfetta, fino al punto di non essere soggetto neppure a quei movimenti semplici e naturali che si producono anche nei fanciulli di tenera età, o addirittura lattanti. La grazia della purità interiore, già ottenuta, lo incoraggiava a sperare. Quella prima grazia non era stata frutto delle sue fatiche, ma soltanto — e lo sapeva bene — un dono di Dio. Da questa considerazione sentiva crescere la speranza di ottenere il nuovo dono. A Dio non costa fatica — egli diceva — bruciare fino alle più profonde radici quegli stimoli della carne che anche l’industria e l’arte degli uomini possono talvolta sopprimere con bevande medicamentose, col ferro o con altri rimedi. Non è forse vero che il Signore mi ha già donato la purezza dello spirito? E allora perché non sperare ancora? Il bene che ho già ricevuto è il più alto che si possa dare: tutto lo sforzo e tutto lo zelo di cui è capace il cuore umano non potrebbero nulla per raggiungere quel bene. Mescolando lacrime e preghiere, l’abate Sereno insisteva senza mai stancarsi nella sua domanda. Ecco che una notte gli si presentò la visione di un angelo che gli aprì il corpo, ne estrasse un tumore infiammato e lo gettò lontano; poi rimise le viscere al loro posto e disse: « Ora gl’impulsi della tua carne sono domati. Sappi che oggi tu hai ottenuta la perfetta purezza del corpo, quella purezza che avevi domandato con fede sincera ». E basti quel che abbiamo detto sulla grazia che Dio concesse a questo sant’uomo, per uno specialissimo privilegio. Delle virtù che egli aveva in comune con gli altri solitari stimo meglio non parlarne, anche per evitare che le lodi tributate a Sereno non facciano pensare che gli altri possedevano quelle virtù in grado inferiore. Accesi dal desiderio di conoscere quest’uomo e di udire una sua conferenza spirituale, andammo a trovarlo durante la quaresima. Con voce pacata egli ci rivolse molte domande sulla qualità dei nostri pensieri, sullo stato della nostra vita interiore, e ci chiese anche quale profitto avessimo saputo ritrarre, per la purezza della nostra anima, da una sì lunga permanenza nel deserto. Noi rispondemmo piangendo. III – Nostra risposta riguardante la volubilità dello spirito Il conto degli anni da noi passati nella solitudine del deserto ti fa pensare che siamo giunti alla perfezione dell’uomo interiore, ma purtroppo non è così. Tutto quel che abbiamo potuto ottenere dalla nostra professione, è stato di conoscere quanto, per la nostra debolezza, siamo ancor lontani dalla meta a cui dobbiamo tendere. Quella che abbiamo acquistata è una scienza vana, incapace di radicarci nella perfetta costanza della desideratissima purezza. Quella scienza non ha conferito fermezza ai nostri pensieri, ma ha servito a far crescere la nostra vergogna e la nostra confusione. In qualsiasi professione, lo studio e lo sforzo quotidiano hanno lo scopo di condurre il garzone incerto alla conoscenza ferma e sicura dell’arte. Quel che in principio era nascosto o completamente ignoto, si fa, con l’esercizio, più chiaro e conosciuto, l’apprendista avanza con passo sicuro nella via intrapresa, incomincia a lavorare senza errori e senza difficoltà. A noi però — nella ricerca della purezza di spirito — è capitato il contrario: non abbiamo fatto altro progresso che questo: abbiamo capito ciò che non siamo riusciti ad essere. Per questo ci rammarichiamo, ma dal nostro dolore, che pure è sì grande, non ritraiamo altro profitto che un senso di insoddisfazione; così piangiamo a lungo, ma non cessiamo di essere quelli che non dovremmo essere. Che ci giova aver conosciuto la perfezione, se poi non la raggiungiamo? Talvolta sentiamo che il cuore si dirige al suo termine di perfezione, ma l’anima insensibilmente cade da quelle altezze e torna con impeto accresciuto alle antiche divagazioni. Assediata dalle distrazioni, che ogni giorno si moltiplicano, l’anima si sente portare incessantemente verso forme di schiavitù. Ormai disperiamo di poterci correggere, la nostra stessa osservanza incomincia a sembrarci inutile. Se dalle pericolose divagazioni in cui si smarrisce ad ogni istante, tentiamo di ricondurre il nostro pensiero al sentimento del timor di Dio e alla contemplazione spirituale, prima che abbiamo potuto fermarlo è già fuggito con accresciuta rapidità. Come se ci svegliassimo da un sonno profondo, noi ci accorgiamo che il pensiero ha deviato dal fine che gli avevamo segnato: allora lo richiamiamo alla contemplazione abbandonata e vorremmo in qualche modo incatenarlo con una applicazione tenace della mente, ma sul più bello del nostro sforzo fugge dai penetrali dell’anima, col guizzo di un’anguilla che ci scappa dalle mani. Passano così i giorni fra lotte faticose, senza che il nostro cuore diventi più costante. Lo scoraggiamento ci assale e incominciamo a pensare che queste distrazioni non sono un difetto personale, ma un vizio inerente alla costituzione della natura umana. IV – L’abate tratta dello stato dell’anima e delle sue capacità Sereno – È una pericolosa presunzione voler determinare la natura delle cose dopo un esame frettoloso e superficiale, senza aver prima raggiunto una certezza. È presunzione formarsi un giudizio sopra una qualsiasi professione o disciplina, non già da quel che essa è in se stessa o da quel che ne dice l’esperienza degli altri, ma dalla considerazione della propria fragilità. Immaginiamo un uomo che non sappia nuotare: egli vede che l’acqua non può sostenere il suo peso e, partendo da questa esperienza che è solo indizio della sua incapacità, sentenzia che è impossibile, per un essere in carne e ossa, tenersi a galla sulla superficie delle acque. Costui dice una cosa comprovata dalla sua esperienza, ma noi non accettiamo per vera la sua opinione, perché sappiamo nella maniera più certa e per testimonianza dei nostri stessi occhi, che per molti navigare, oltre a non essere impossibile, è la cosa più facile del mondo. L’anima umana è definita: « noùs aeichìnetos kài polikìnetos » che vuol dire: sempre mobile e molto mobile. Il libro della Sapienza che si attribuisce a Salomone dice la stessa cosa con altre parole: « Il tabernacolo terreno opprime l’anima, agitata da molti pensieri »[1]. La sua natura è tale che non può starsene oziosa. Se non le è stato presentato un oggetto sul quale possa esercitare la sua attività e di cui possa incessantemente occuparsi, la sua naturale leggerezza la porta a vagare, a svolazzare di qua e di là, su tutto ciò che le si presenta. Soltanto dopo molto tempo, quell’esercizio e quell’uso nei quali voi dite di avere sprecato il vostro tempo, le faranno conoscere per esperienza gli oggetti da offrire all’attenzione, per tornare a quelli continuamente, senza stancarsi mai, e per acquistar la capacità di fissarsi in essi. In tal modo potrà superare le suggestioni del nemico che la invitano da ogni parte, e potrà restare costante nello stato e nelle disposizioni che desidera. La distrazione del nostro spirito non deve dunque attribuirsi alla nostra natura, e neppure a Dio che della natura è autore. La sacra Scrittura dice il vero quando afferma che: « Dio fece l’uomo retto, ma egli si perde dietro a infinite questioni »[2]. Dunque la qualità dei nostri pensieri dipende da noi: « Un buon pensiero si avvicina a coloro che lo conoscono; l’uomo prudente lo troverà »[3]. Quando una cosa si può trovare, sol che si usino prudenza e diligenza, se da noi non è trovata, non ne incolpiamo la nostra natura, ma piuttosto la nostra pigrizia e negligenza. Il salmista si accorda a questo pensiero quando dice: « Beato l’uomo che pone in te il suo sostegno e dispone in cuor suo di salire »[4]. Vedete perciò che dipende da noi disporre in cuor nostro sia le ascensioni (cioè i pensieri che salgono a Dio), sia le discese (cioè i pensieri che precipitano verso le cose terrestri e carnali). Se non avessimo avuto questa facoltà, il Signore non avrebbe potuto rivolgere ai farisei quel rimprovero: « Perché pensate male nei vostri cuori? »[5]. E neppure ci avrebbe comandato — per bocca del profeta — « Togliete di sotto ai miei occhi il male dei vostri pensieri » [6]. E ancora: « Fino a quando rimarranno in te i mali pensieri? »[7]. Nel giorno del giudizio — se i nostri pensieri non dipendessero da noi — la quantità di essi non dovrebbe essere esaminata insieme con quella delle opere. Isaia dice invece: « Ecco io vengo a raccogliere le loro opere e i loro pensieri con tutte le genti e le lingue » [8]. La testimonianza dei pensieri non potrebbe intervenire in quel tremendo giudizio, né per condannarci, né per difenderci, mentre l’Apostolo dice: « I loro pensieri li accusano e li difendono nel giorno in cui Dio giudicherà i segreti degli uomini secondo il mio Vangelo »[9]. V – La perfezione dell’anima spiegata con la figura del centurione evangelico Il centurione del Vangelo può ben raffigurare l’anima elevata alla perfezione. Egli era un uomo di grande virtù e costanza: non si lasciava trasportare da ogni pensiero che potesse passargli per la mente, ma accoglieva quelli buoni e scacciava senza esitazione i cattivi, secondo il giudizio della sua prudenza. Ascoltiamolo parlare in termini allegorici: « Anch’io sono un uomo sottoposto, ed ho soldati ai miei ordini e dico ad uno: Va’! ed egli va. E ad un altro: Vieni! ed egli viene; ed al mio servo: Fa’ questo! ed egli lo fa »[10]. Se anche noi lotteremo coraggiosamente contro i movimenti sregolati dell’anima, contro i vizi, arriveremo a sottometterli alla nostra autorità e discrezione; se anche noi, poiché rimaniamo nella carne, cercheremo di spegnere il fuoco delle passioni e inalbereremo il segno della croce che è la bandiera della salvezza, per respingere dai confini del nostro cuore le crudeli legioni delle potenze nemiche, come premio della nostra magnifica vittoria, ci vedremo elevati al grado dei « Centurioni spirituali ». Anche Mosè parla allegoricamente di questi condottieri nel libro dell’Esodo, dove dice: « Eleggi uomini che comandino alle migliaia, alle centinaia (= centurioni) e alle decine » [11]. Elevati anche noi alla dignità del centurione, avremo il diritto e la forza di comandare; allora i pensieri che non vogliamo ricevere non penetreranno più in noi; ci sarà invece facile attaccarci a quelli che ci fanno gustare le delizie spirituali. Diremo alle cattive suggestioni: « Andatevene », e se n’andranno; diremo alle buone: « Venite », e verranno. Al nostro servo — cioè al nostro corpo — comanderemo di curare le leggi della castità e dell’astinenza, e quello obbedirà senza ribellarsi: non lo sentiremo più ad aizzarci contro le belve della concupiscenza: sarà pronto ad obbedire in tutto allo spirito. Per quanto riguarda le armi del centurione spirituale, ascoltiamo l’Apostolo che ci dice quali sono e come debbono essere impiegate: « Le armi della nostra milizia non sono carnali, ma potenti in Dio » [12]. Ecco dunque come sono: né carnali, né deboli, ma spirituali e potenti di virtù divina. Poi l’Apostolo indica in quale combattimento vanno impiegate: « Per distruggere anche le fortezze, distruggendo noi i falsi ragionamenti e ogni rocca elevata contro la conoscenza di Dio, e facendo schiava ogni intelligenza all’obbedienza di Cristo; avendo in pronto anche il punire ogni disobbedienza, quando la vostra obbedienza non sia completa » [13]. Commentare uno a uno questi avvertimenti è per noi un dovere, ma lo rimandiamo ad altro tempo. Ora voglio soltanto descrivere il genere e la proprietà delle armi di cui dobbiamo essere continuamente rivestiti, se vogliamo combattere le battaglie del Signore e militare nelle file del centurione evangelico: « Prendete — dice 1’Apostolo — lo scudo della fede, su cui possiate spegnere tutti i dardi infocati del maligno »[14]. È dunque la fede che riceve i dardi infocati delle passioni e li rende innocui col timore del giudizio futuro e con la fiducia nel regno dei cieli. « Rivestitevi — continua l’Apostolo — con la corazza della carità»[15]. È infatti la carità che avvolge e protegge le parti vitali del nostro cuore, si oppone alle ferite mortali che potrebbero venirci dalle passioni, respinge gli assalti nemici, impedisce alle frecce del demonio di penetrare fino al nostro « uomo interiore »: essa infatti tutto soffre, tutto sopporta [16]. « Prendiamo per elmo la speranza della salute » [17]. L’elmo protegge la testa. Il capo per noi è Cristo: questo capo dobbiamo continuamente difendere con l’elmo inespugnabile che è la speranza dei beni futuri. Attraverso tutte le prove e tutte le persecuzioni bisogna conservare intatta e senza incrinature la nostra speranza in lui. Chi sia stato privato delle membra può conservare ancora una vita debole e malsicura, ma senza la testa nessuno può vivere un istante. « Impugniamo la spada dello spirito, che è la parola di Dio »[18]. Quella spada è « più tagliente di un’arma a due tagli, e penetrante sino a dividere l’anima e lo spirito e le giunture e le midolla, e scrutatrice dei sentimenti e dei pensieri del cuore »[19]. Essa dunque separa e taglia tutto ciò che trova in noi di carnale e di terrestre. Chiunque si riveste di queste armi sarà sempre difeso contro le frecce e le incursioni del nemico. Mai sarà legato a catena dai suoi vincitori e condotto prigioniero o schiavo nella terra nemica dei cattivi pensieri. Per lui non sonerà il rimprovero del Profeta: « Perché sei diventato vecchio in terra straniera? »[20]. Al contrario, egli sceglierà la sua dimora — come un trionfatore — nella regione dei pensieri che più gli piaceranno. Volete ora conoscere la forza e l’ardimento con cui il centurione porta le armi descritte, armi non carnali ma potenti in Dio? Ascoltate il re che chiama a raccolta i valorosi per la milizia spirituale. Ecco il segno col quale li contraddistingue: « Il debole dice: io sono forte »[21], e « Colui che è paziente sia soldato »[22]. Vedete dunque che per combattere le battaglie del Signore bisogna essere pazienti e infermi. Si tratta però di quella infermità sulla quale si fondava Paolo, il celebre centurione evangelico, quando esclamava: « Allorché sono infermo, proprio allora son forte » [23]; oppure: « Nella debolezza, meglio risplende la potenza di Dio »[24]. Parlando della medesima infermità, dice il Profeta: « Colui che è il più debole tra loro, sarà stabile come la casa di David »[25]. Per combattere queste battaglie è necessaria la pazienza: precisamente quella pazienza di cui è detto: « La pazienza è per voi necessaria, affinché, facendo la volontà di Dio, otteniate i beni che vi sono stati promessi »[26]. VI – Della perseveranza nel custodire i nostri pensieri La nostra personale esperienza ci farà conoscere che noi dobbiamo e possiamo rimanere intimamente uniti a Dio, se mortificheremo la nostra volontà ed estirperemo i desideri mondani. Lo stesso insegnamento ci verrà poi dalla testimonianza di coloro che, parlando fiduciosamente col Signore, dicono: « L’anima mia aderisce a te »[27]; oppure: « Io sto attaccato ai tuoi comandi, Signore »[28]; e ancora: « È bene per me stare unito al Signore »[29]; e infine: « Chi sta unito al Signore, fa un solo spirito con lui » [30]. Le divagazioni della mente non debbono mai farci abbandonare questo esercizio dell’unione con Dio, perché « colui che coltiva la sua terra avrà abbondanza di pane », chi invece « si abbandona all’ozio, vivrà nella miseria »[31]. Né dobbiamo farci distrarre, in questo salutare esercizio, a causa di un dannoso scoraggiamento; perché « dove c’è lavoro, c’è abbondanza, ma chi vive nelle delizie senza fatica si troverà in miseria »[32]; e ancora: « L’uomo che lavora, lavora per sé e impedisce così la sua perdita »[33]. Fa al nostro caso anche la parola evangelica: « Il regno dei cieli si acquista con la forza, e i violenti se ne impadroniscono »[34]. Non c’è virtù che si acquisti senza fatica e non c’è nessuno che sia capace di elevarsi alla costanza del pensiero, senza una profonda contrizione del cuore. L’uomo infatti nasce per la fatica[35], né può giungere « alla maturità di uomo fatto, alla misura d’età della pienezza di Cristo » [36], se non si applica continua- mente e fortemente al lavoro interiore. Nessuno raggiungerà « la piena misura » nella vita eterna, se dei valori eterni non avrà nutrito e riempito la sua mente fin dalla vita terrestre: se dell’eternità non avrà gustato un anticipo. Chi è destinato ad essere un membro preziosissimo di Cristo, dovrà possedere fin da questa vita un pegno di quella unione che un giorno lo unirà al corpo del Signore. Costui non avrà che un desiderio, non avrà che una sete: indirizzare tutti i suoi atti e tutti i suoi pensieri al medesimo fine, che è quello di godere fin dalla terra lo stato riservato ai santi in cielo: cioè che « Dio sia tutto in tutti »[37]. VII – Domanda sulla volubilità dello spirito e sugli assalti che ci muovono gli spiriti del male Germano – La volubilità della nostra mente potrebbe essere contenuta, se l’anima umana non fosse assediata da un vero esercito di nemici che la sospingono continuamente là dove essa non vuole, o piuttosto là dove la trascina la volubilità che le è connaturale. Assediata da tanti nemici, e per di più così potenti e feroci, noi stimeremmo l’anima assolutamente incapace di resistere — considerata anche la fragilità della carne — se le vostre parole, che suonano come oracoli, non ci incoraggiassero a credere e a sperare il contrario. Vili – Risposta sull’aiuto di Dio e le facoltà del libero arbitrio Sereno – Tutti coloro che hanno sperimentato le lotte dell’uomo interiore, sanno bene che noi abbiamo dei nemici sempre occupati a tenderci insidie. Ma noi diciamo che questi nemici si oppongono al nostro progresso in quanto ci sollecitano al male, non in quanto ci determinano al peccato. Se i nostri avversari, oltre alla facoltà di istigarci al peccato, avessero anche il potere di farci peccare, quando volessero accenderci in cuore il fuoco di una qualsiasi concupiscenza, non ci potrebbe essere alcuno capace di resistere. Invece non è così. Essi hanno avuto la facoltà di tentarci, noi abbiamo avuto la libertà di respingere o accettare le loro suggestioni. Se ci spaventano i loro assalti e la loro potenza, non dobbiamo d’altra parte dimenticare l’aiuto e la protezione di Dio; la sacra Scrittura dice: « Chi è in voi è più potente di colui che sta nel mondo »[38]. L’aiuto di Dio combatte per noi con una forza molto più grande di quella che i demoni impiegano contro di noi. Il Signore infatti non si accontenta di suggerirci il bene, ma se ne fa promotore e operatore, cosicché tante volte ci attira alla salute senza che noi lo vogliamo e ce n’accorgiamo. È chiaro dunque che nessuno può essere ingannato dal demonio, se prima non gli ha voluto dare il consenso della sua volontà. Questa verità è espressa nell ‘Ecclesiaste con queste parole: « Poiché non si resiste da parte di coloro che fanno il male, ecco che il cuore degli uomini si riempie di pensieri malvagi »[39]. È dunque chiaro che l’uomo pecca perché non oppone resistenza ai pensieri malvagi che lo assalgono, dice infatti il Signore: « Resistete al demonio, ed egli fuggirà da voi »[40]. IX – Domanda sull’unione dell’anima coi demoni Germano – Quale comunanza c’è fra l’anima e gli spiriti maligni? Si tratta di unione così stretta che alle volte sarei tentato di dire che quegli spiriti non solo si avvicinano all’anima, ma si congiungono con essa. Infatti le parlano intimamente, la penetrano, le ispirano tutto ciò che vogliono, la sospingono agli atti che vogliono, vedono e conoscono in ogni particolare i suoi pensieri e i suoi movimenti. Insomma, è tale e tanta la congiunzione degli spiriti maligni con l’anima nostra, che, senza una grazia speciale di Dio, non sarebbe possibile distinguere ciò che procede da loro e ciò che procede dalla nostra volontà. X – Risposta sul modo in cui gli spiriti immondi si uniscono con l’anima umana Sereno – Non deve recar meraviglia che uno spirito possa insensibilmente unirsi a un altro spirito, ed esercitare su quello una forza segreta di persuasione per certi suoi fini. Tra gli spiriti, come del resto tra gli uomini, esiste una somiglianza di natura e una certa parentela. Prova ne sia che la definizione data per l’essenza dell’anima si addice anche agli altri spiriti. Però non è possibile una compenetrazione, una unione tale che uno contenga l’altro. Questa prerogativa è riservata soltanto alla divinità perché essa sola è una sostanza incorporea e semplice. XI – Obiezione: Possono gli spiriti immondi, penetrare nell’anima di coloro che hanno infestato Germano — Questa risposta ci sembra contraddetta da ciò che vediamo nelle persone invasate dal demonio: esse, sotto l’influsso dello spirito immondo, dicono e fanno cose di cui non hanno conoscenza. Come si fa a dire che la loro anima non è unita a questi spiriti, dal momento che le vediamo trasformarsi in un loro strumento, e lasciare il loro stato naturale per assumere dai demoni passioni e sentimenti? Si giunge a tal punto che parole, gesti, volontà, son dei demoni e non delle persone da questi possedute. XII – Risposta sul modo in cui gli spiriti immondi dominano gli energumeni Sereno – Quanto voi dite degli energùmeni, i quali, sotto l’influsso degli spiriti immondi, dicono o fanno ciò che non vogliono, oppure sono costretti a dir cose che ignorano, non contraddice la mia sentenza, È certo intanto che l’influsso degli spiriti sugli uomini non si esercita in un solo modo. Ci sono energumeni che non hanno alcuna conoscenza di ciò che fanno o dicono, ce ne sono altri che ne hanno conoscenza e se ne ricordano quando l’accesso è passato. Non pensate che questi fenomeni derivino da una tale infiltrazione dello spirito immondo per cui questo, penetrato nella sostanza dell’anima, faccia quasi una sola cosa con essa, e come rivestito di lei, parli per bocca del paziente. Non si può credere che gli spiriti immondi abbiano una tale potenza. Certi fenomeni non si verificano per una diminuzione dell’anima, ma per la debolezza del corpo; di ciò potrà persuaderci un ragionamento evidente. Quando lo spirito immondo s’impossessa di quelle membra in cui risiede il vigore dell’anima, le grava di un peso insopportabile e così fa piombare nelle più dense tenebre le facoltà intellettuali. Gli stessi effetti vediamo che talvolta si producono anche per vino, febbre, freddo eccessivo, o per altre infermità che vengono dal difuori. Ma lo spirito immondo non ha potere sull’anima; nel caso di Giobbe, il demonio, che aveva avuto ogni potere sul corpo, sentì proibirsi ogni potere sull’anima: « Eccolo in tuo potere, soltanto risparmia la sua anima »[41]. E voleva dire: ti proibisco di sconvolgergli la mente indebolendo Porgano che è sede del pensiero; ti proibisco ancora — finché egli ti resisterà — di oscurargli l’intelletto e il giudizio, soffocando col tuo peso la parte più alta del suo cuore. XIII – Uno spirito non può penetrare un altro spirito. Dio solo è assolutamente incorporeo Uno spirito può penetrare una materia densa e solida come la nostra carne: questa è cosa facilissima. Non bisogna credere, però, che uno spirito possa unirsi con l’anima (la quale è spirito a sua volta) in maniera tale da compenetrarsi vicendevolmente. Questo è possibile soltanto alla ss. Trinità, la quale si unisce in modo tale alle nature intellettuali che, oltre ad abbracciarle e avvolgerle, le penetra e le conquista all’interno, a somiglianza dell’olio che entra nei corpi. Noi diciamo che esistono sostanze spirituali come gli angeli, gli arcangeli, le altre virtù celesti, la nostra stessa anima, Paria che respiriamo, ma non si deve credere che queste sostanze siano assolutamente immateriali. Hanno anch’esse un corpo nel quale sussistono: corpo assai più sottile del nostro, come afferma l’Apostolo quando dice: « Ci sono corpi celesti e corpi terrestri » [42]; e ancora: « Si semina un corpo animale, risorge un corpo spirituale » [43]. Da ciò si deduce che Dio solo è assolutamente privo di corpo, perciò lui solo può penetrare tutte le sostanze spirituali e intellettuali, in quanto egli è tutto intero, in tutto e dappertutto. Egli può così vedere e sorvegliare i pensieri dell’uomo, i suoi movimenti interiori e perfino i misteri più profondi dell’anima. Di lui solo l’Apostolo può dire: « Viva è la parola di Dio ed efficace, e più tagliente di una spada a due tagli, e penetrante sino a dividere l’anima e lo spirito, e le giunture e le midolle, e scrutatrice dei sentimenti e dei pensieri del cuore; e non v’è creatura che rimanga nascosta davanti a lui, ma tutto è nudo e palese agli occhi suoi »[44]. E il beato David dice: « Egli forma i loro cuori a uno a uno » [45]; e ancora: « Egli conosce i segreti del cuore »[46]. E Giobbe a sua volta: « Tu solo conosci il cuore degli uomini »[47]. XIV – Obiezione tendente a dimostrare che i demoni vedono i pensieri degli uomini Germano — Secondo quello che vai dicendo, gli spiriti immondi non potrebbero neppur vedere i nostri pensieri, ma ciò pare inaccettabile, perché la sacra Scrittura dice: « Se lo spirito del potente si leva contro di te »[48], e ancora: « Il diavolo aveva messo in cuore a Giuda, figlio di Simone Iscariote di tradirlo »[49]. Come si fa a credere che i nostri pensieri non sono visibili a loro, dal momento che esperimentiamo come la più gran parte dei pensieri nascono in noi per loro istigazione? XV – Risposta: ciò che i demoni possono e ciò che non possono sopra i pensieri degli uomini Sereno — È certo che gli spiriti immondi possono conoscere la natura dei nostri pensieri, ma dal di fuori, attraverso congetture che si fondano su segni sensibili, come possono essere le nostre disposizioni, le parole che diciamo, le occupazioni alle quali ci vedono più inclinati. Non possono però conoscere quei pensieri che non sono ancora usciti dal segreto delle nostre anime. L’accoglienza d’accettazione o di ripulsa che noi riserviamo agli stessi pensieri che essi ci suggeriscono, non la conoscono nell’essenza dell’anima nostra, vale a dire dai movimenti interiori che restano nascosti nel midollo dello spirito; la conoscono invece attraverso i movimenti dell’uomo esteriore e attraverso gli indizi che lasciamo scorgere. Diciamolo con un esempio. Supponiamo che gli spiriti immondi abbiano suggerito un pensiero di gola: se vedranno che il monaco leva gli occhi alla finestra, guarda a qual punto del suo corso è il sole, domanda impaziente che ora è, conosceranno da questi segni che il pensiero di ghiottoneria ha trovato buona accoglienza. Oppure il pensiero suggerito era di fornicazione: se si accorgeranno che il monaco ha ricevuto senza reagire il dardo della passione, se vedranno qualche moto carnale, o per lo meno che non c’è stata una pronta difesa contro la suggestione impura, capiranno che la freccia del piacere avvelenato si è conficcata nel profondo dell’anima. Anche nelle tentazioni di tristezza, di ira, di furore gli spiriti immondi giudicano dai movimenti del corpo e dalle reazioni esteriori, se esse sono entrate nel cuore. Basta uno sdegno muto, un sospiro sdegnato, un trascolorare del volto, un pallore, un rossore. Questi sono i mezzi con i quali quelle intelligenze finissime conoscono chi s’è dato al vizio e a quale vizio si è dato. Sanno bene che ci attrae di più quel vizio il quale, appena suggerito, provoca nel nostro corpo un gesto, un movimento, dal quale arguiscono infallibilmente che ha ottenuto la nostra accettazione, la nostra complicità. Questa perspicacia degli spiriti immondi non ha niente di strano: vediamo che molti uomini dotati d’intuito psicologico fanno spesso altrettanto: dall’aspetto, dal volto, dal modo d’agire dell’uomo esteriore, riconoscono lo stato dell’uomo interiore. Ora, con quanta più certezza potranno far ciò i demoni, i quali sono indubbiamente, per la loro natura spirituale, più intelligenti e più penetranti degli uomini? XVI – Una comparazione con la quale si dimostra come i demoni conoscono i pensieri degli uomini Ci son dei ladri che hanno l’abitudine di fare un’ispezione nelle case in cui vogliono compiere il furto per conoscere gli oggetti preziosi che la notte nasconde. Nel più fitto delle tenebre essi scagliano con mano cauta una rena finissima e dal suono lievissimo che risponde alla caduta di quei granelli indovinano gli oggetti preziosi che gli occhi non possono vedere. Dal suono di quella strana voce riconoscono, senza pericolo d’errore, gli oggetti e i metalli di cui son formati. Anche i demoni, per esplorare i tesori del nostro cuore, scagliano la rena finissima delle loro suggestioni maligne; la risonanza che, a seconda dei casi, sentono destarsi nella nostra sensibilità, è come lo squillo che esce dalle parti più nascoste di una stanza e lascia loro conoscere che cosa sta nascosto nel santuario segreto dell’uomo interiore. XVII – Ogni singolo demonio non suggerisce all’uomo tutte le passioni Non dobbiamo credere che ogni demonio suggerisca all’uomo tutti i vizi indistintamente. No. Ogni schiera di demoni è specializzata in qualche genere di vizi. Ci son quelli che si compiacciono delle impurità e d’ogni sorta di libidini; ce ne son altri che curano più particolarmente le bestemmie; altri ancora si dilettano con l’ira e il furore. Questi si pascono di tristezza, quelli hanno particolare trasporto per la vanità e la superbia. Ognuno di loro cerca di far entrare nel cuore degli uomini il vizio in cui maggiormente si compiace. Né si creda che scarichino tutti insieme le loro frecce avvelenate: si alternano secondo che richiedono le circostanze di tempo e di luogo e le disposizioni della persona da tentare. XVIII – Domanda: È vero che i demoni hanno un ordine nei loro attacchi e che ciascuno di loro ha un compito particolare? Germano – Si deve dunque credere che tra i demoni c’è un ordine e una disciplina nel fare il male? Essi hanno un compito da svolgere, e i loro assalti si sviluppano secondo un piano preordinato e ragionevole? Eppure è noto a tutti che la misura e la ragione si trovano nel bene e nella virtù, dice infatti la Scrittura: « Cercherai la sapienza presso i cattivi e non la troverai »[50]; oppure: « I nostri nemici sono insensati » [51]; e ancora: « Non c’è sapienza, né prudenza, né consiglio presso gli empi »[52]. XIX – Risposta: In qual modo i demoni si accordino sull’ordine dei loro attacchi Sereno – Certo, fra i cattivi non vi può essere un accordo durevole e completo; neppure tra i vizi, dei quali i cattivi si dilettano, può esservi una perfetta armonia. Voi l’avete detto già: non si può trovare la disciplina e l’ordine nel cuore del disordine. Tuttavia esistono casi nei quali, o l’azione fatta in comune, o la necessità, o l’identità d’interessi invitano all’unione; allora è necessario che anche i cattivi si trovino per qualche tempo d’accordo. Un simile accordo si riscontra anche tra gli spiriti del male: si sa infatti che osservano tra loro un ordine di avvicendamento nel tempo e si fissano a certi luoghi per farne la loro abituale dimora. La prova evidente che i demoni sono obbligati ad alternare le tentazioni e che possono assalirci soltanto in momenti determinati e con determinati vizi, sta in questo: è impossibile essere, nello stesso tempo, giocati dalla vanità e bruciare di fuoco impuro, gonfiarsi di orgoglio — vizio spirituale — e abbandonarsi alla gola — vizio carnale —. Così non si può sgangherarsi dalle risa ed essere allo stesso tempo sotto gli impulsi dell’ira, o farsi prendere da una consumante tristezza. Bisognerà allora che ogni demonio abbia il suo tempo per assalire l’anima. Quando è vinto e costretto a ritirarsi, cede il posto ad un altro che attaccherà l’anima con più violenza; ma anche se il primo demonio riesce ad avere la meglio, cede sempre l’anima a un altro spirito maligno perché vi produca anch’esso i suoi scempi. XX – I demoni non hanno tutti la stessa forza e non possono tentarci come vogliono Non bisogna dimenticare che i demoni non son tutti feroci o appassionati allo stesso modo, non hanno tutti la stessa forza e malizia. Coloro che muovono i primi passi nella vita spirituale, o sono comunque ancor deboli, sono assaliti dai demoni più deboli, ma quando l’atleta di Cristo ha riportato vittoria dei primi avversari, deve gradualmente affrontare battaglie sempre più dure. A mano a mano che aumentano le nostre forze e i nostri progressi, aumentano le difficoltà della battaglia. Nessun santo, chiunque egli sia, potrebbe sostenere la protervia di tali e tanti nemici, potrebbe sventare le loro insidie, sopportare la loro crudele ferocia, se Cristo, il quale presiede al nostro combattimento come arbitro clementissimo e direttore dei giochi, non ristabilisse l’uguaglianza di forze tra noi e i nostri nemici, non respingesse (o almeno frenasse) l’impeto dei loro assalti e non ci concede — insieme con la tentazione — anche la via d’uscita, in modo che possiamo resistere. XXI – I demoni si affaticano nel combattimento con gli uomini Noi pensiamo che anche i demoni abbiano la loro fatica da sostenere in questo combattimento. Sentono anch’essi, mentre lottano, l’inquietudine e la tristezza, specialmente quando hanno a che fare con gli avversari più forti, voglio dire i santi e i perfetti. Altrimenti, per loro, non si tratterebbe più di combattimento, ma semplicemente di un permesso d’ingannare gli uomini con tutta facilità. E allora come sarebbe ancor vera la parola dell’Apostolo: « La nostra lotta non è con il sangue e con la carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori del mondo delle tenebre, contro gli spiriti maligni dell’aria» [53]? E l’altro passo dell’Apostolo? « Faccio del pugilato, ma non dando i colpi all’aria » [54]. E ancora: « Io ho combattuto la buona battaglia » [55]. Quando si parla di combattimento, di lotta, di battaglia, è necessario che da entrambe le parti ci sia fatica, sudore, incertezza; da entrambe le parti la sconfitta deve generare dolore e confusione, la vittoria deve condurre la gioia. Se invece, mentre uno dei due contendenti si affatica a combattere, l’altro combatte senza fatica e senza pericolo, e può abbattere il suo avversario solo che lo voglia, allora non si può più parlare di battaglia, di lotta, di combattimento, è meglio dire « aggressione », che va contro la giustizia e la ragione. Ma no; nella guerra che conducono contro gli uomini, anche i demoni provano difficoltà e fatiche che affrontano per ottenere su ciascuno la vittoria desiderata. Nel caso che restino sconfitti, la confusione che era riservata a noi, qualora avessimo ceduto, cade su di loro, secondo quel che è stato scritto: « Sul capo di quelli che mi stanno d’attorno, ricada la malignità delle loro labbra e li ricopra »[56]; e ancora: «Ricada la calamità sul suo capo»[57]. Infine: «Gli venga addosso la rovina a cui non pensa, e la rete che ha nascosto lo acchiappi, e qui nel laccio egli cada »[58]. I demoni hanno anch’essi da soffrire, e non meno di noi. Qualche volta ci abbattono e qualche volta noi li abbattiamo, e quando sono stati vinti, se ne vanno pieni di confusione. II Salmista, che aveva sani gli occhi dell’uomo interiore, poteva vedere ogni giorno gli assalti e le sconfitte dei demoni. Ma li vedeva anche far festa per le nostre cadute e le nostre sconfitte, e per timore che potessero menar vanto anche sulla sua personale sconfitta, rivolgeva al Signore questa preghiera: « Dà luce ai miei occhi, che non mi addormenti nel sonno della morte. Guarda e ascoltami, Signore mio Dio, affinché non dica il mio nemico: l’ho sopraffatto, e i miei persecutori non esultino, quand’io barcolli »[59]. E ancora: « Dio mio, non godano a motivo di me. Non dicano in cuor loro: bene, bene, per noi! Non dicano: l’abbiamo divorato! »[60]. Oppure: « Digrignano contro me i loro denti. Signore, fino a quando starai a guardare? »[61]. Perché « I suoi occhi spiano il misero, si rimpiatta nel nascondiglio qual leone nella sua tana, per agguantare il misero attirandolo nella sua rete »[62]. E infine: « Egli chiede a Dio il suo pasto »[63]. Ma quando, nonostante ogni sforzo, s’accorgono di non poterci ingannare, è inevitabile « che siano confusi e svergognati a un tempo, quelli che cercano le anime nostre per togliercele »[64]; che si ricoprano di vergogna e di confusione coloro che pensano male contro di noi[65]. E Geremia dice: « Siano confusi quelli che mi perseguitano e non sia confuso io, siano spaventati loro e non sia spaventato io: manda sopra di essi il giorno dell’afflizione »[66]. Nessuno può dubitare che, dopo essere stati da noi sconfitti, essi saranno tormentati da un doppio cruccio: prima perché vedranno che gli uomini cercano la santità, mentre loro hanno perduto la santità che possedevano e si son fatti causa di perdizione per il genere umano; poi perché pur essendo creature spirituali sono sconfitti da creature carnali e terrestri. Intanto, mentre contempla la rovina dei suoi nemici e le sue vittorie, ogni santo esclama, in un trasporto di gioia: « Inseguirò i miei nemici e li raggiungerò, e non tornerò indietro sino a che non saranno distrutti. Li abbatterò e non potranno risorgere, cadranno sotto i miei piedi »[67]. E lo stesso profeta prega così contro questi nemici: « Giudica, o Signore, quei che mi fanno del male, combatti quei che mi combattono. Piglia le armi e lo scudo e levati in mio aiuto. Sguaina la spada e sbarra la via di fronte ai miei persecutori, dì all’anima mia: io son la tua salvezza »[68]. E quando, dopo aver sottomessi tutti i vizi, avremo riportato piena vittoria sopra i demoni, meriteremo di sentirci rivolgere questa parola di benedizione: « La tua mano si levi sopra i tuoi nemici e tutti coloro che ti si oppongono periranno »[69]. Queste strofe, e altre simili, che noi leggiamo e cantiamo sui libri sacri, le dobbiamo intendere come scritte unicamente contro gli spiriti del male, che c’insidiano di giorno e di notte. Se le intendessimo in altro senso, non soltanto non potremmo più essere edificati e istruiti nella pazienza e nella dolcezza, ma ne trarremmo dei sentimenti di cattiveria incompatibili con la perfezione evangelica. Perché in tal caso, oltre a non pregare per i nostri nemici e a non amarli, impareremmo anche a detestarli con un odio implacabile, a maledirli e a imprecare continuamente contro loro. Pensare che quegli uomini santi e amici di Dio abbiano detto tali espressioni con sentimento di odio, sarebbe un peccato e un sacrilegio. Essi infatti, prima ancora della venuta di Cristo, si levarono al disopra delle prescrizioni della Legge e, anticipando i tempi, preferirono obbedire ai comanda- menti del Vangelo e ricercare quella perfezione che poi fu degli apostoli. XXII -I demoni non hanno facoltà di nuocere come e quanto a loro piace Gli spiriti maligni non hanno facoltà di far male a chi vogliono. L’esempio del beato Giobbe ne è una prova lampante: il nemico non ardisce tentarlo al di là di quel segno che ha stabilito la volontà divina. Il fatto è confermato nel Vangelo con la confessione degli stessi demoni, i quali dicono al Signore: «Se ci scacci di qui, mandaci in una mandria di porci » [70]. Con quanta più ragione bisognerà pensare che essi non han facoltà di entrare a loro arbitrio nel corpo di un uomo creato a immagine di Dio, se si riflette che senza il permesso divino non poterono entrare neppure in una mandria di porci. Infine, se i demoni avessero la facoltà e la libertà di nuocere e tentare a loro capriccio, nessuno di questi giovani che noi vediamo costantemente dimorare nel deserto — anzi nessuno degli uomini ormai perfetti — potrebbe abitare solo nell’eremo, assediato da così numerosi e così terribili nemici. E l’evidenza del nostro ragionamento è suffragata anche dalla parola che il Signore e Salvatore nostro, nell’umiltà della sua natura umana, rivolse a Pilato: « Non avresti su di me alcuna potestà, se non ti fosse stata data dall’alto »[71]. XXIII – La potenza dei demoni è diminuita La nostra esperienza e la tradizione che ci viene dagli anziani ci assicurano che i demoni non hanno, ai nostri tempi, tutta quella forza che avevano una volta, al principio cioè della vita anacoretica, quando il deserto dava ricetto soltanto a qualche raro solitario. La loro violenza era allora tanto feroce che solo un piccolo numero di monaci, ben radicati nella virtù e molto avanzati in età, poteva sopportare la dimora del deserto. Anzi, la ferocia dei demoni si scatenava terribile negli stessi monasteri dei cenobiti, dove vivevano insieme fino a otto e dieci fratelli. Gli attacchi, anche sotto forma visibile, erano così frequenti che i monaci non potevano dormire tutti contemporaneamente, ma erano costretti a darsi il turno. Mentre alcuni prendevano riposo, altri vegliavano nella recita dei Salmi, nella preghiera, nella lettura spirituale. Quando la stanchezza li costringeva a prendere riposo, svegliavano gli altri, perché montassero di guardia e proteggessero quelli che stavano per darsi al sonno. Da questo si deduce che la sicurezza e la fiducia di cui godiamo oggi, non solo noi vecchi che troviamo un certo aiuto negli anni e nell’esperienza, ma anche i più giovani, hanno alla loro origine due cause. O la potenza della croce ha penetrato fino nell’intimo le nostre solitudini e la sua grazia, che brilla in ogni luogo, ha mortificato i demoni, op pure la nostra negligenza li ha resi svogliati ad assalirci e li ha dissuasi dall’impiegare contro di noi la violenza con la quale si scagliavano contro quegli antichi e meravigliosi atleti di Cristo. La stessa cessazione degli assalti visibili potrebbe servir loro per ingannarci e per infliggerci sconfitte più cocenti. Molti monaci ormai son caduti in una spaventosa tiepidezza. Bisogna accarezzarli con ammonizioni che sanno di debolezza. Bisogna accontentarsi che non abbandonino le loro celle, per tornare alle antiche e pericolose inquietudini, per andarsi a cacciare in vizi più gravi, dopo a- ver assecondato il loro istinto di girovaghi. Sembra di aver ottenuto molto se si riesce a convincerli di rimanere nel deserto, anche se appesantiti dall’apatia. Gli anziani hanno preso l’abitudine di esortarli cosi: « Rimanete nelle vostre celle, e poi mangiate, bevete, dormite, quanto vi pare e piace: basta che rimaniate in cella ». XXIV – Come i demoni si preparino l’ingresso nel corpo degli ossessi Siamo ormai convinti che gli spiriti immondi non possono penetrare in coloro che vogliono possedere, senza prima essersi impadroniti del loro spirito e dei loro pensieri. Ed ecco le fasi della conquista. Prima sottraggono alle vittime designate il timore di Dio, il suo ricordo, la meditazione spirituale, poi, quando vedono l’anima spoglia del soccorso e della protezione divina, si gettano audacemente sulla preda, che è divenuta facile; infine fissano nell’anima la loro dimora, come se fosse un possesso lasciato in loro balia. XXV – Coloro che son posseduti dai vizi son più miserabili di coloro che sono posseduti dal demonio Ma in una forma ancor più grave e terribile son tormentati dai demoni coloro che, pur essendo liberi dal loro dominio per quanto riguarda il corpo, sperimentano nell’anima, fatta schiava dei vizi e dei piaceri peccaminosi, la più tremenda possessione diabolica. Per loro dice l’Apostolo: « Uno è schiavo di colui dal quale è stato vinto » [72]. Lo stato di questi tali è il più disperato di tutti, perché, essendo diventati come cose possedute dal demonio, non si accorgono degli attacchi ai quali sono esposti e della tirannia che subiscono. Sappiamo che anche il corpo di uomini santi fu abbandonato al demonio, o colpito da gravi malattie, per colpe molto leggere. Ed eccone la ragione: la clemenza di Dio non sopporta di trovare in loro il più piccolo difetto o la più piccola macchia, nel gran giorno del giudizio; perciò si prende premura — come dice il Profeta, anzi come dice Dio stesso — di togliere fin da questa vita le scorie che ancora conservano, affinché possano essere introdotti immediatamente nell’eternità beata, a somiglianza di oro o d’argento che non abbisogna di altra purificazione, perché è già stato purificato dal fuoco. « Fonderò — dice il Signore — le tue scorie e le colerò e toglierò via tutto il tuo stagno; e dopo di ciò sarai chiamata città del giusto, città fedele »[73]. E ancora: « Come l’argento si prova al fuoco e l’oro al fornello, così il Signore prova i cuori »[74]. E insiste: « Nel fuoco si saggia l’oro e l’argento e gli uomini accetti nel crogiuolo dell’umiliazione »[75]; e infine: « Il Signore castiga chi ama e sferza ogni figliolo che accoglie »[76]. XXVI – Morte violenta di un profeta sedotto; malattia dell’abate Paolo da lui meritata a scopo di purificazione Un esempio che vale a confermare la verità di quanto siamo venuti dicendo è quel profeta e uomo di Dio del quale si legge al terzo libro dei Re. Egli commette una sola colpa di disobbedienza, e non per calcolo o volontà perversa, ma perché è raggirato da un altro; eppure è subito ucciso da un leone. Ecco come la Scrittura parla del fatto: « È l’uomo di Dio che, essendo stato disobbediente alla parola del Signore, fu dal Signore dato in preda al leone, il quale lo ha lacerato e ucciso secondo la parola che gli aveva detto » [77]. Questo episodio ci mostra che Dio abbandonò il profeta al leone, soltanto per lavare la colpa da lui appena commessa, per cancellare l’errore di un momento d’inavvertenza ; ma nello stesso tempo Dio volle riaffermare i meriti del suo profeta, come si vide dalla insolita condotta del leone, il quale, nonostante la sua naturale voracità, non osò toccare il cadavere che aveva davanti. Un altro esempio chiaro e lampante di questa verità, si è avuto ai nostri tempi nella persona dell’abate Paolo e in quella dell’abate Mosè. Il secondo di questi abitava quella parte del deserto che si chiama Calamo; il primo abitava in un eremo vicino alla città di Panefisi; il quale eremo, si è formato in tempi piuttosto recenti, a seguito di una inondazione d’acque salate. Quando soffia il vento del Nord, l’acqua, sollevata dagli stagni, si spande sulle terre circostanti e copre tutta la superficie della regione; così gli antichi paesi, abbandonati ormai dai loro abitanti per le ragioni note, emergono sull’acqua come tante isole. Il nostro abate Paolo, dunque, nella pace e nel silenzio del deserto, era salito a tale purezza di cuore da non poter sopportare la vista, non dico di un volto, ma neppure di un vestito di donna. Un giorno, mentre Paolo, in compagnia dell’abate Archebio, che abitava nello stesso eremo, andava alla cella di un monaco anziano, s’imbatté per caso in una donna. L’incontro lo turbò fino al punto che immediatamente dimenticò il dovere di carità per il quale si era proposto di render visita al confratello, tornò indietro e si mise a correre verso il suo monastero con la velocità di uno che avesse visto un leone o un dragone spaventoso. Inutilmente l’abate Archebio lo richiamava; grida e implorazioni non valevano a piegarlo e a convincerlo che bisognava continuare il cammino intrapreso per fare visita al vecchio confratello. Quel gesto era stato ispirato da zelo per la castità e da amore per la purezza, tuttavia non era compiuto con moderazione, e oltrepassava i limiti di una austerità anche rigorosa. Il nostro abate credeva di dover fuggire non la sola familiarità con donne — cosa questa veramente pericolosa — ma la stessa vista di una figura femminile. Il castigo arrivò immediato. Il suo corpo fu colpito da paralisi e nessun membro fu più capace di compiere i propri uffici. I piedi e le mani rifiutavano ogni servizio; la lingua rimaneva immobile nella bocca muta, le orecchie stesse avevano perduto la capacità di udire. Diventato insensibile e immobile, conservava la sola apparenza dell’uomo. In quello stato, la carità degli uomini suoi confratelli non bastava più a tutti i servizi di cui l’infermo abbisognava e si mostravano necessarie le cure di una donna. Fu portato allora in un monastero di sacre Vergini e furono mani femminili a fargli prendere da mangiare e da bere, a provvedere ad ogni altra sua necessità; egli ormai era diventato incapace di chiedere qualcosa anche con un segno del capo. E così durò quattro anni, cioè fino al termine della sua vita. Mentre la paralisi immobilizzava così tutte le sue membra, sottraendo ad esse sensibilità e moto, usciva da lui una virtù operatrice di miracoli. L’olio che era stato a contatto con il suo corpo — meglio sarebbe dire cadavere — guariva istantaneamente i malati che ne venivano unti, qualunque fosse il loro male. Per tal modo fu chiaro come la luce del sole, anche agli occhi degli infedeli, che quella paralisi generale era un dono misericordioso di Dio e la grazia delle guarigioni era venuto, dallo Spirito Santo, per comprovare la sua purezza e manifestare i suoi meriti. XXVII – Tentazione dell’abate Mosè L’abate Mosè, il quale, come già abbiamo detto, abitava in questo deserto, pur essendo un uomo unico e davvero incomparabile, in punizione di una parola poco caritatevole, che aveva pronunciato nel corso di una discussione con l’abate Macario, fu abbandonato a un demonio tanto crudele che lo spingeva a cibarsi di escrementi umani. Ma il Signore mostrò, con la prontezza della guarigione, che quel castigo aveva lo scopo di purificare il colpevole, affinché nell’anima sua non rimanesse la macchia neppur di una colpa momentanea. Essendosi messo in preghiera l’abate Macario, lo spirito maligno lasciò Mosè in men che non si dice. XXVIII – Non si possono disprezzare coloro che sono in potere degli spiriti immondi Da questo si deve dedurre che non possiamo abominare o disprezzare quei fratelli che vediamo alle prese con diverse tentazioni, o dati in potere degli spiriti maligni. Noi dobbiamo ritenere fermamente due cose: innanzi tutto, nessuno è tentato dai demoni senza che Dio lo permetta; in secondo luogo, che tutto quanto ci viene da Dio — triste o lieto che ci appaia — ci è dato da un padre amoroso, da un medico desideroso del nostro profitto. Coloro che sono umiliati assomigliano ai bambini affidati al pedagogo: l’umiliazione fa sì che, partendosene da questo mondo, si presentino purificati alla porta dell’eternità, oppure abbiano da subire una purificazione leggera prima di iniziare la vita beata. Insomma: essi sono — dice l’Apostolo — « Consegnati a Satana nella vita presente, per la rovina della sola carne, affinché lo spirito si salvi nel giorno del Signore » [78]78. XXIX – Obiezione: perché coloro che son posseduti dagli spiriti immondi sono esclusi dalla comunione eucaristica? Germano – E allora, perché nelle nostre regioni, coloro che son posseduti dal demonio, oltre ad essere in orrore e disprezzo a tutti, sono anche — per un’antica usanza — tenuti lontani dalla comunione eucaristica? Perché si applica a loro la parola del Vangelo: « Non date le cose sante ai cani; non gettate le margherite davanti ai porci »? [79]. La nostra condotta non è da approvarsi, se è vero — come tu dici — che Dio umilia le anime con queste prove al solo fine di purificarle e di beneficarle. XXX – Risposta alla domanda Sereno – Se possediamo questa persuasione, o meglio questa fede, di cui ho parlato sopra, e secondo la quale tutto viene da Dio ed è indirizzato al bene delle anime, invece di guardare con disprezzo gli indemoniati, noi pregheremo continuamente per loro, come pei membri del nostro stesso corpo. Avremo altresì compassione del loro stato, perché « quando un membro soffre, tutte le membra soffrono con lui »[80]. Dobbiamo ricordare che per il fatto che essi sono « nostre membra », noi non potremo raggiungere la nostra completa perfezione senza di loro, come anche i santi che vissero avanti a noi non poterono ottenere senza di noi il pieno compimento della divina promessa. Dice di loro l’Apostolo: « Tutti costoro, pur ricevendo testimonianza per la loro fede, non conseguirono Poggetto della loro promessa, Dio infatti volle — per un favore particolare che ci ha fatto — non arrivassero alla perfezione senza di noi »[81]. Quanto alla comunione eucaristica non conosco disposizioni che ne allontanino gli energumeni; penso, al contrario, che essi dovrebbero riceverla ogni giorno. Infatti non è vero che in tal caso — secondo la sentenza evangelica da voi citata a sproposito — si darebbero le cose sante ai cani, o ai demoni, ma si deve invece ritenere che la santa comunione andrebbe a purificare e a proteggere corpo e anima del posseduto da Satana. L’Eucaristia diventa, per lo spirito che risiede in quel corpo o tenta di penetrarci, un fuoco che brucia e lo obbliga a fuggire. In questo modo e con questa cura noi abbiamo visto guarire l’abate Andronico e molti altri. Il nemico sarà tanto più feroce verso il povero ossesso se lo vedrà tenuto lontano dalla medicina celeste, e quanto più a lungo lo vedrà escluso dalla medicina dello spirito, tanto più i suoi assalti si faranno feroci e frequenti. XXXI – Sono più miserabili coloro che non meritano di esser sottoposti a queste prove temporali I veri miserabili sono coloro che, dopo essersi macchiati delle colpe più vergognose, non solo non lasciano scorgere alcun segno della possessione diabolica, ma non hanno neppur da subire qualche prova degna della loro condotta; non ricevono neppure il più piccolo fastidio. Costoro non sono degni del rimedio rapido e pronto del tempo presente. Il loro indurimento, il loro cuore impenitente, superano i castighi propri di questa vita. Perciò essi « ammassano un tesoro d’ira per il giorno dell’ira e della manifestazione del giusto giudizio di Dio »[82]. E dopo quel giorno, « il loro verme non morrà, e il loro fuoco non si estinguerà »[83]. Meravigliato di vedere i santi afflitti da disgrazie e tentazioni, mentre i peccatori trascorrono il viaggio della vita senza sentire il flagello dell’umiliazione, anzi allietati dall’abbondanza delle ricchezze e favoriti dalla fortuna, il Profeta grida in atto sdegnoso: « Per poco non hanno vacillato i miei piedi, per poco non sono sdrucciolati i miei passi, perché mi sono indignato contro i malvagi, vedendo la pace dei peccatori. Non c’è timore nella loro morte, e le piaghe da cui sono stati colpiti non avevano durata; non hanno per- te alla fatica degli uomini e con gli uomini non sono stati castigati »[84]. E vuol dire che nell’eternità saranno puniti in compagnia dei demoni coloro che non meritarono in questa vita la parte e il trattamento dei figli, né d’essere colpiti come il resto degli uomini. Anche il profeta Geremia tratta col Signore della prosperità degli empi e, pur protestando di non dubitare della giustizia divina (dice infatti: Tu sei giusto, o Signore, e io non posso disputare con te)[85], domanda tuttavia la causa di questa disparità, e dice: « Com’è che agli empi tutto cammina prosperamente, che tutti i prevaricatori e quelli che si danno a malfare sono felici? Tu li hai piantati e hanno messo radice, fanno bella crescita e fanno frutto. Tu stai vicino alla loro bocca e lontano dal loro cuore »[86]. Nonostante tutto, il Signore piange sulla loro rovina, come si legge nella stessa profezia di Geremia. Pieno di sollecitudine per loro, manda — allo scopo di guarirli — medici e maestri: li provoca in qualche modo a piangere con lui, e dice: « All’improvviso è caduta Babilonia ed è andata in sfacelo, ululate sovr’essa, cercate balsamo pel suo dolore, se mai potesse guarire »[87]. Ecco ora la risposta disperata degli angeli ai quali è stata affidata la cura della salvezza degli uomini, oppure, ecco la risposta del profeta a nome degli Apostoli, oppure, ecco la risposta degli uomini spirituali e dei maestri che conoscono l’indurimento di questi infelici e il loro cuore impenitente: « Abbiamo curato Babilonia e non è guarita, abbandoniamola e andiamo ciascuno al proprio paese, perché il suo giudizio ha raggiunto il cielo, fino alle nubi si è alzato » [88]. Anche Isaia pensa al loro male inguaribile quando, in persona di Dio, così parla a Gerusalemme: « Dalla pianta dei piedi fino alla sommità della testa, non ho nulla di sano; ferita e lividura ed enfiata piaga, non fasciata, non medicata, né curata con l’olio » [89]. XXXII – Diversità di gusti e d’inclinazioni che si riscontrano negli spiriti dell’aria È certo che nei demoni ci sono — come negli uomini — inclinazioni diverse. Alcuni di loro, che la voce popolare chiama « vagabondi », sono ingannatori e buffoni. Stanno in luoghi abitati o sulle strade, ma non si dilettano a tormentare quei passanti che riescono ad ingannare; si accontentano di ridere e scherzare: hanno più il gusto di affaticare che di nuocere. Alcuni si divertono ad assalire gli uomini con incubi notturni, ma senza far alcun male. Ce ne sono altri particolarmente pazzi e crudeli. Non contenti di tormentare con cru deli lacerazioni il corpo di coloro che posseggono, si scagliano, anche da lontano, su coloro che passano per infliggere loro gravissimi danni. Di questa specie erano i demoni dei quali ci parla il Vangelo: la gente ne aveva paura, tanto che nessuno ardiva più di passare per la via in cui svolgevano la loro attività[90]. Son questi stessi demoni — o altri somiglianti a loro — che, accesi di una ferocia insaziabile, si dilettano di guerre e di stragi. Vediamo altri demoni, detti volgarmente « Bacucèi », gonfiare di sciocco orgoglio coloro che hanno preso a possedere. Sforzandosi di innalzare la propria statura, questi ossessi prendono talvolta atteggiamenti alteri e maestosi, altra volta sembra vogliano farsi piccoli e affabili, prendendo tutti i segni dell’umiltà. Può anche accadere che pensino di essere grandi personaggi, cosicché tutti tengano gli occhi fissi su loro; ma ecco che poi s’inchinano come per rendere omaggio a qualcuno più potente di loro. Qualche volta credono di ricevere anch’essi segni di rispetto e li accolgono con quegli atteggiamenti umili o superbi che sono di prammatica nella vita normale. Abbiamo trovato certi spiriti del male che non solo amano la menzogna, ma addirittura ispirano la bestemmia. E questo posso attestarlo io stesso che ho udito un demonio dichiarare espressamente di essersi servito di Ario e di Ne- storio per mettere in circolazione dottrine empie e sacrileghe[91]. Uno di questi spiriti bugiardi, nel quarto libro dei Re si vanta in questi termini: « Uscirò e sarò spirito di menzogna sulla bocca di tutti i suoi profeti »[92]. Di questa categoria dei demoni parla l’Apostolo, quando, rimproverando coloro che da essi si fanno ingannare, così esclama: « Alcuni danno retta a spiriti ingannatori e a dottrine dei demoni che mentiscono ipocritamente » [93]. Il Vangelo ci assicura che esistono altri generi di demoni, come quelli sordi e quelli muti. Il profeta poi ci avverte che esistono spiriti della libidine e della lussuria, dice infatti: « Lo spirito di fornicazione li trasse nell’errore ed hanno fornicato apostatando dal loro Dio »[94]. L’autorità della sacra Scrittura c’insegna che esistono i demoni della notte, del giorno, del mezzogiorno. Ma non si finirebbe più se si volessero scorrere tutte le sacre Scritture per raccogliervi a imo a uno tutti i generi di demoni: ci sono gli onocentauri, i pelosi, le sirene, i gufi, i barbagianni, le lamie, gli struzzi, i ricci: tutti questi si trovano nei profeti. Bisogna inoltre aggiungere l’aspide e il basilisco di cui parlano i Salmi, più il leone, il dragone, lo scorpione, di cui parla il Vangelo, poi il principe di questo mondo, i capi di questo mondo delle tenebre, gli spiriti di malizia, dei quali parla s. Paolo. E ancora non dobbiamo credere che questi nomi siano dati a caso. Queste bestie selvatiche, che sono per noi più o meno dannose, indicano il particolare grado di ferocia o di rabbia dei vari demoni. È così che la straordinaria somiglianza con la perfidia veramente sovrana di certi animali selvaggi e di certi serpenti fa trasferire ai demoni il nome di quelle bestie. Ad uno si addice la qualifica di leone, a causa della sua violenza e degli scoppi funesti della sua ferocia; a un altro conviene il nome di basilisco, a motivo del suo veleno mortale, che uccide prima ancora di essere avvertito; a un altro ancora il torpore della malizia ha meritato il nome di onocentauro, riccio, struzzo. XXXIII – Domanda: da dove ha origine una sì grande diversità tra i demoni? Germano – Siamo certi che si riferiscono ai demoni anche quelle classificazioni di cui parla s. Paolo quando dice: « La nostra lotta non è col sangue e con la carne, ma contro i Principi e le Potestà, contro i dominatori del mondo delle tenebre, contro gli spiriti maligni dell’aria »[95]. Vorremmo ora conoscere donde deriva una sì grande diversità tra loro e come hanno avuto origine tanti gradi di malizia. Hanno forse sortito dalla stessa creazione il grado ora occupato in quella che potremo chiamare la gerarchia della malizia? XXXIV – Si rimanda ad altro tempo la soluzione della questione proposta Sereno — Le vostre domande ci hanno fatto dimenticare il riposo della notte; non ci accorgiamo neppure che è vicina l’aurora; anzi, tutto ci invoglia a continuare fino alla levata del sole un colloquio che non ci fa mai sazi. Ma la domanda che mi avete ora rivolto ci condurrebbe — se raffrontassimo — in un mare vastissimo e profondissimo di problemi, mare che la brevità del tempo a nostra disposizione non ci consentirebbe di attraversare. Perciò stimo più conveniente rimandare tutto alla notte prossima, così anch’io — da un più lungo colloquio con voi — trarrò più gioia e vantaggio spirituale, e oltre a ciò, se lo Spirito Santo ci ispirerà propizio, avremo agio di penetrare più a fondo i sensi nascosti della questione. Prendiamo dunque un po’ di sonno, per scuotere quel sopore che, sul far del giorno, ci grava gli occhi. Poi andremo tutti alla Chiesa, dove ci invita la ricorrenza domenicale che oggi celebriamo. Dopo la sacra sinassi, sentiremo raddoppiare la nostra gioia nello scambiarci quei doni di luce che il Signore ci vorrà elargire, mosso dall’ardore del vostro desiderio. [1] Sap 9, 15. [2] Qo 7, 29. [3] Pr 19, 7 (LXX). [4] Sal 83, 6. [5] Mt 9, 4. [6] Is 1, 16. [7] Ger 4, 14. [8] Is 66, 18. [9] Rm 2, 15-16. [10] Mt 8, 9. [11] Es 18,21; Non stiamo a notare che in questo passo, l’interpretazione allegorica della sacra Scrittura è più forzata del solito. [12] 2 Cor 10, 4. [13] 2 Cor 10, 4-6. [14] Ef 6, 16. [15] 1 Ts 5, 8. [16] 1 Cor 13, 7. [17] 1 Ts 5, 8. [18] Ef 6, 17. [19] Eb 4, 12. [20] Bar 3, 11. [21] Gl , 10 (LXX). [22] Gl 3,11. [23] 2 Cor 12, 10. [24] 2 Cor 12, 9. [25] Zc 12, 8 (LXX). [26] Eb 10, 36. [27] Sal 62, 9. [28] Sal 118, 31. [29] Sal 72, 28. [30] 1 Cor. 6, 17. [31] Pr 28, 19. [32] Pr 14, 23. [33] Pr 16, 26. [34] Mt 11, 12. [35] Gb 5, 7. [36] Ef 4, 13. [37] 1 Cor 15, 28. [38] Gb 4, 4. [39] Qo 8, 11 (LXX). [40] Gc 4, 7. [41] Gb 2, 6. [42] 1 Cor 15, 40. [43] 1 Cor 15, 44. [44] Eb 4, 12-13. [45] Sal 32, 15. [46] Sal 43, 22. [47] 2 Cr 6, 30; oltre a notare che la citazione di Giobbe è sbagliata, ricordiamo ai nostri lettori che la teologia anteriore a san Tommaso d’Aquino attribuiva agli spiriti creati un corpo fatto di sostanza sottilissima, che molti, con termine preso in prestito da Aristotele, chiamavano « etere ». [48]Qo 10, 4. [49] Gv 13,2. [50] Pr 14, 6. [51] Dt 32, 31. [52] Pr 21, 30. [53] Ef 6, 12. [54] 1 Cor 9, 26. [55] 1 Tm 4, 7. [56] Sal 139, 10. [57] Sal 7, 17. [58] Sal 34, 8. [59] Sal 12, 3-5. [60] Sal 34, 24-25. [61] Sal 34, 16-17. [62] Sal 9, (10), 9. [63] Sal 103, 21. [64] Sal 39, 15. [65] Sal 34, 26. [66] Ger 17, 18. [67] Sal 17, 38-39. [68] Sal 34, 1-3. [69] Mi 5, 9. [70] Mt 8, 31. [71] Gv 19,11. [72] 2 Pt 2,19. [73] Is 1, 25-26. [74]Pr 17, 3. [75] Pr 2, 5. [76] Eb 12, 6. [77] 1 Re (3 Re; Vulg.) 13,26. [78] 1 Cor 5,5. [79] Mt 7,6. [80] 1 Cor. 12, 26. [81] Eb 11, 39-40. [82] Rm 2, 5. [83] Is 66, 24. [84] Sal 72, 2-5 (LXX). [85] Ger 12, 1. [86] Ger 12, 1-2. [87] Ger 51, 8. [88] Ger 51, 9. [89] Is 1, 6. [90] Mt 8, 28. [91] Ario e Nestorio sono due eretici. Il primo negò la divinità di Cristo, il secondo negò, insieme, la divinità del Figlio e dello Spirito Santo. [92] 1 Re (3 Re; Vulg.) 22, 22. [93] 1 Tm 4, 1-2. [94] Os 4, 12. [95] Ef 6, 12. SECONDA CONFERENZA DELL’ABATE SERENO GLI SPIRITI CHE SI DICONO PRINCIPATI Indice dei Capitoli I – Cortesia dell’abate Sereno; I – Cortesia dell’abate Sereno Dopo aver compiuti gli atti che il giorno festivo esigeva, quando l’assemblea si sciolse, noi tornammo alla cella del santo vecchio, dove ci fu offerta una lauta refezione. Invece della solita salsa condita d’una goccia d’olio, che costituiva il suo cibo quotidiano, quel giorno l’abate Sereno preparò un intingolo nel quale versò una razione d’olio più abbondante del solito. Ho detto prima che ogni monaco, quando sta per prendere il suo cibo quotidiano, vi lascia cadere una goccia d’olio, ma non lo fa per avere qualche piacere nel gustarla. Del resto la quantità è così piccola che, oltre a non poter accarezzare le papille della gola, direi che non è neppur capace di raggiungerle. L’uso della goccia d’olio ha lo scopo di reprimere la superbia, che in seguito alle penitenze straordinarie, tenta accortamente e nascostamente d’insinuarsi nel cuore. Quella goccia vuole spuntare le armi dell’orgoglio, perché quanto più l’astinenza è segreta e nascosta allo sguardo degli uomini, tanto più diventa un motivo di sottile tentazione per colui che l’esercita. Oltre all’intingolo, Sereno ci offrì sale arrostito e tre olive per ciascuno; poi portò un canestro con ceci abbrustoliti — quei ceci nel linguaggio dei monaci si chiamano Trogalia o Zuccherini — e noi ne prendemmo soltanto cinque per ciascuno. Prendemmo inoltre due prugne e un fico secco, perché in quel deserto sarebbe una colpa oltrepassare una tal misura. Terminata la refezione, chiedemmo al nostro ospite di mantenere la promessa e di continuare la trattazione del tema. Al che Sereno rispose: proponete la domanda di cui abbiamo rimandato l’esame a questo momento. II – Domanda sulle diversità che si riscontrano tra gli spiriti maligni Germano allora incominciò: vorremmo sapere da dove nasce questa sì grande varietà e molteplicità di potenze nemiche collegate fra loro ai danni dell’uomo. Di queste potenze parla l’Apostolo quando dice: « La nostra lotta non è col sangue e con la carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori del mondo delle tenebre, contro gli spiriti maligni dell’aria »[2] e ancora: « Né angeli, né principati, né virtù, né alcun’altra creatura potrà separarci dall’amore di Dio in Cristo Gesù Signor nostro »[3]. Da qual parte, io domando, ci son venuti contro tanti nemici gelosi e malintenzionati? È forse vero che il Signore ha creato queste potenze nemiche perché facessero guerra agli uomini con diversità e con gradi diseguali? III – Risposta: la sacra Scrittura racchiude diversi alimenti Sereno – Tra le tante verità che la divina Scrittura offre alla nostra istruzione ve ne sono alcune che sono rivestite di assoluta chiarezza, anche per le menti meno colte; quelle verità non soltanto escludono un senso nascosto sotto i veli dell’allegoria, ma non hanno bisogno neppure di una spiegazione letterale: ogni parola mostra chiarissimo il suo significato. Altre verità, invece, sono così nascoste e coperte da veli che, per essere spiegate e comprese, chiedono una applicazione vasta e profonda. I motivi per cui Dio ha voluto così, sono certamente molti. Il primo è questo: se i segreti di Dio non si nascondessero sotto il velo del senso spirituale, potrebbero conoscerli tutti, senza alcuna distinzione tra iniziati e profani; tutti avrebbero la stessa facilità e si annullerebbe la differenza tra gli indolenti e coloro che s’impegnano a cercare con fatica e prudenza. In secondo luogo la sacra Scrittura, per il fatto che offre profondità vertiginose da esplorare, presenta una ragione valida per rimproverare ai cristiani pigri la loro negligenza, e per lodare l’ardore e l’impegno dei cristiani fervorosi. La sacra Scrittura si può opportunamente paragonare a un campo ricco e fertile, che produce una mirabile varietà di cibi; ma alcuni di questi sono atti a diventare cibo del- l’uomo, così come son nati, senza che sia necessaria la cottura; altri invece sono sconvenienti o nocivi a chi li usa se prima non hanno perso, attraverso la cottura, la loro naturale asprezza, che dev’essere sostituita da una tenera appetibilità. Ci sono poi altri prodotti dei campi che si prestano ad essere mangiati cotti e crudi; anche se non sentono il fuoco, la loro asprezza non è disgustosa, né può causare mali di sorta. Tuttavia, quando sono cotti al fuoco, acquistano una più alta virtù nutritiva. Una gran parte dei prodotti della natura son destinati agli animali privi di ragione: alle bestie da soma, alle bestie selvagge, agli uccelli. Quei prodotti non andrebbero bene come cibo dell’uomo, ma sono ottimi per conservare la vita degli animali bruti, ai quali convengono, così come la natura li ha prodotti, senza bisogno d’alcuna cottura. Qualche cosa di somigliante avviene — almeno così mi pare — in quel paradiso ricchissimo che è la sacra Scrittura. In esso si trovano alcune espressioni così luminose ed evidenti che, senza bisogno di spiegazioni più profonde, nutrono lo spirito col semplice suono delle parole. Ecco qualche esempio: « Ascolta, Israele: il Signore Dio nostro è il solo Dio »[4]; e ancora « Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze »[5]. Altri passi del Libro sacro, invece, se non si ammorbidiscono con una spiegazione allegorica e non si addolciscono alla prova del fuoco spirituale, anziché fornire all’uomo interiore un alimento vitale, immune da ogni germe d’infezione, possono portare un danno serio. Daremo anche a questo riguardo qualche esempio: « I vostri fianchi siano cinti, e le lucerne stiano nelle vostre mani »[6]; e ancora: « Chi non ha una spada venda la tunica e se la compri »[7]; oppure: « Chi non prende la sua croce e mi segue, non è degno di me » [8]. Quest’ultima parola del Vangelo, da certi monaci molto austeri, che possedevano « lo zelo di Dio ma non secondo scienza » [9], fu presa alla lettera; perciò si costruirono delle croci di legno che portavano continuamente sopra le spalle. Ma così facendo non dettero edificazione al prossimo, anzi mossero tutti al riso. Altri passi della sacra Scrittura possono essere intesi storicamente e allegoricamente, sempre con vantaggio di chi legge: in tutti e due i casi l’anima vi trova vital nutrimento. Ecco anche qui alcuni esempi: « Se uno ti percuote sulla guancia destra, mostragli la sinistra » [10]; e ancora: « Quando vi perseguitano in questa città, fuggite in un’altra » [11]; e infine: « Se vuoi essere perfetto, va’ vendi quel che possiedi, donalo ai poveri ed avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi » [12]. Ma la sacra Scrittura produce anche il fieno per le bestie da soma [13]; anzi di quel fieno sono ripieni tutti i campi delle Scritture: intendo dire il senso storico — letterale puro e semplice. Anche le menti prive di cultura e incapaci di una perfetta penetrazione del senso mistico, vi trovano un alimento proporzionato al loro stato, rispondente ai loro bisogni, un alimento che dona vigore e forza soltanto per l’escremo della vita attiva. È per questo che il salmista ha detto al Signore: « Tu salverai gli uomini e le bestie »[14]. IV – Nella interpretazione della sacra Scrittura si possono avere due sentenze diverse Nei casi in cui la sacra Scrittura parla con evidente chiarezza, possiamo affermare la nostra interpretazione senz’alcun timore, esprimere con certezza il nostro pensiero. Ma in quelle verità che lo Spirito Santo ha profondamente velato, allo scopo di somministrare materia alla riflessione e alla ricerca, in quelle cose, dico, che il Signore ha voluto farci apprendere per semplici indizi e congetture, occorre avanzare con cautela, a passi circospetti, in modo che chi parla sia libero di affermare o no, e chi ascolta sia libero di accettare o non accettare. Può darsi infatti che sopra uno stesso argomento si abbiano due spiegazioni, e tutte e due ragionevoli. Allora si potrà, se non c’è pericolo per la fede, scegliere l’una o l’altra: dare alla prima un assenso condizionato, tale cioè che non escluda assolutamente la seconda sentenza. Esempi di questa doppia interpretazione sono: Elia è venuto nella persona di Giovanni Battista e dovrà tornare ancora per annunziare l’ultima venuta del Signore[15]; oppure: l’abominio della desolazione, posto nel luogo santo[16], indica la statua di Giove che sappiamo essere stata collocata nel tempio di Gerusalemme, o può significare la profanazione della Chiesa con l’avvento dell’Anticristo. Allo stesso modo, ciò che nel Vangelo segue alla desolazione e profanazione del tempio può essere inteso come profezia che si è compiuta prima della distruzione di Gerusalemme, o che dovrà compiersi prima della fine del mondo. Nessuna delle due interpretazioni esclude l’altra, e la prima maniera di spiegare non rende vana e inutile la seconda. V – La risposta al quesito proposto è da computarsi tra le opinioni liberamente dibattute La questione da voi proposta non pare sia stata molto discussa per l’addietro e resta ancora oscura alla più gran parte degli uomini, perciò quel che io dirò potrà apparire poco sicuro a molti. In vista di ciò non sarò perentorio nelle mie affermazioni. La fede della santissima Trinità non soffrirà alcun danno per il fatto che la mia spiegazione sia presentata come soltanto probabile, pur non appartenendo essa al numero delle opinioni che si fondano semplicemente sopra supposizioni e congetture, ma essendo basata su testimonianze chiarissime della Scrittura. VI – Dio non ha creato nulla che sia cattivo Lungi da me la volontà di affermare che Dio ha creato qualcosa di sostanzialmente cattivo; la sacra Scrittura infatti ci attesta che tutto quanto Dio fece era assai buono[17], Se ammettessimo che gli spiriti maligni furono creati da Dio come sono oggi, oppure che furono destinati fin dal primo momento a ingannare e rovinare gli uomini, andremmo contro l’affermazione già citata nella sacra Scrittura e accuseremmo Dio di essere il creatore e l’inventore del male; perché in tal caso avrebbe creato lui queste volontà e nature malvage, affinché rimanessero fisse nella loro malizia, senza mai poter giungere a sentimenti di bontà. Ecco dunque la ragione della diversità tra le potenze del male, come si può apprenderla alle fonti della sacra Scrittura, secondo la tradizione dei nostri Padri. VII – Origine dei Principati o Potestà Nessun cristiano dubita che Dio, prima di creare questo mondo visibile, creò le virtù spirituali e celesti[18], le quali, consapevoli di essere state create dal nulla per un’altissima gloria e beatitudine, dovevano rendere continue azioni di grazia alla benignità del Creatore e unirsi a lui in un canto incessante di lode. Non dobbiamo infatti pensare che Dio abbia dato inizio all’opera creativa con la produzione di questo mondo in cui viviamo, quasi che gli infiniti secoli che precedettero la nascita del nostro mondo la Provvidenza divina fosse rimasta inattiva, e Dio, non avendo in chi riversare i benefici della sua bontà, fosse rimasto in assoluta solitudine, impedito di esercitare la sua munificenza. Questo equivarrebbe ad avere un concetto meschino e sbagliato della maestà divina, infinita, eterna e incomprensibile. Molto più che il Signore stesso ci parla così di quelle potenze: « Quando gli astri apparvero in coro, tutti i miei angeli mi lodarono a gran voce » [19]. Se dunque gli angeli erano presenti alla creazione degli astri; se, al veder tutte le creature materiali balzare dal nulla, proruppero in canti d’ammirazione e di lode, bisogna evidentemente ammettere che essi furono creati prima di quel « principio » che segue l’inizio del cielo e della terra. Prima dell’inizio dei tempi, che secondo il senso letterale e giudaico dato al Genesi, segna l’età del mondo, è fuori dubbio che Dio creò le potenze e virtù celesti. Abbiamo detto « secondo il senso letterale e giudaico », per escludere il senso cristiano, per il quale Cristo è principio di tutte le cose. Il Padre ha tutto creato in Cristo, secondo quella parola evangelica: tutto fu fatto per mezzo di lui e senza di lui niente fu fatto [20]. Di queste nature spirituali, create prima del mondo, san Paolo ci dà il catalogo quando dice: « In Cristo furono create tutte le cose nei cieli e sulla terra, le cose visibili e le invisibili, siano i Troni, siano le Dominazioni, siano i Principati, siano le Potestà. Tutto per mezzo di lui e in lui fu creato » [21]. VIII – La caduta del diavolo e degli angeli Molti di questi spiriti, e proprio quelli di più elevata dignità, caddero miseramente. Ce ne fanno fede le lamentazioni di Ezechiele o d’Isaia, nelle quali si geme e si piange sul principe di Tiro e su Lucifero che sorgeva splendente al mattino. Riguardo al principe di Tiro, ecco come il Signore parla ad Ezechiele: « Figlio dell’uomo, intona una lamentazione sul re di Tiro e gli dirai: Così parla il Signore Dio: tu eri sigillo di perfezione, pieno di sapienza, al colmo dello splendore: eri nelle delizie del paradiso di Dio, ogni sorta di pietre preziose ingemmava la veste che ti copriva, il sardio, il topazio, lo iaspide, il crisolito, l’onice, il berillo, lo zaffiro, il carbonchio, lo smeraldo, l’oro fu apprestato in servizio della tua bellezza e la filigrana era creata per il giorno in cui saresti stato creato. Tu eri un cherubino che stende le ali protettrici, io ti avevo posto sul monte santo di Dio e tu incedevi in mezzo a pietre infocate. Perfetto nei tuoi procedimenti dal giorno in cui fosti creato fino a tanto che l’iniquità fu ritrovata in te. Nell’immensità del tuo traffico il tuo interno si riempì di iniquità e hai peccato, e io ti scacciai dal monte di Dio e ti mandai in perdizione o cherubino protettore, di mezzo le pietre fiammeggianti. Il tuo cuore s’innalzò nella tua bellezza, e nella tua bellezza hai perduto la tua sapienza. Io ti ho gettato a terra, nel cospetto dei re ti ho esposto, affinché ti contemplassero. Per l’eccesso delle tue iniquità, per la malvagità del tuo traffico hai profanato il tuo sacrario »[22]. Di Lucifero dice Isaia: « Come sei caduto dal cielo, o Lucifero, che nascevi all’aurora? Sei stato abbattuto a terra, tu che straziavi le genti, tu che dicevi nel tuo cuore: al disopra degli astri di Dio innalzerò il mio trono, sederò nel monte del convegno dei numi, nei penetrali aquilonari; salirò sulla sommità delle nuvole, sarò simile all’Altissimo »[23]. I due non furono soli a precipitare dal loro altissimo grado di beatitudine; la sacra Scrittura ci attesta che il Dragone travolse nella sua rovina un terzo delle stelle[24]. Uno degli Apostoli è ancor più esplicito a tal proposito: « Gli angeli che non riconobbero la loro dignità, ma abbandonarono la loro dimora, li riservò per il giudizio del gran giorno, nelle tenebre, stretti in eterne catene »[25]. E quelle parole che si leggono nei Salmi: « Voi al par degli uomini morrete, e come uno dei principi cadrete »[26], che cosa significano, se non s’intendono dette dei Principi celesti che caddero in gran numero? Da tutti questi indizi noi possiamo scoprire la ragione della diversità tra le potenze del male. Esse possono aver conservato le loro differenze a seconda del grado in cui ciascuna schiera angelica fu creata, oppure, dopo essere precipitate dall’alto dei cieli, hanno cercato di imitare gli angeli fedeli a Dio, nel nome e nella dignità, distinguendosi — contrariamente a quelli — a seconda della malizia e della perversità. IX – Obiezione: la caduta del diavolo incomincia con la seduzione di Eva Germano – Noi credevamo fino ad ora che la causa per cui il diavolo prevaricò e cadde dalla dignità degli angeli, fosse stata l’invidia dimostrata quando, con la sua astuzia gelosa, sedusse Adamo ed Eva. X – Risposta riguardante l’origine della caduta del diavolo Sereno – Il libro del Genesi afferma chiaramente che il principio della ribellione e della caduta di Satana non fu quello che voi dite. Prima ancora che i progenitori fossero sedotti, la Scrittura santa ritenne giusto chiamare Lucifero col nome di serpente; dice infatti: « Il serpente era il più sapiente — o il più astuto, come recano i testi ebraici — di tutti gli animali della terra, creati dal Signore Dio » [27]. Da ciò potete intendere che prima di aver ingannato Adamo, il demonio era già decaduto dalla santità degli angeli. Non solo meritava già di essere designato col nome di serpente, ma era dichiarato superiore a tutti gli altri animali della terra per quanto riguarda i raggiri della malizia. La sacra Scrittura non avrebbe mai chiamato un angelo fedele a Dio con nome infamante, essa non parlerebbe mai degli angeli fedeli con termini come questi: « Il serpente era il più sapiente fra tutte le bestie della terra ». Un nome di tal genere non solo sarebbe ingiurioso per angeli come Gabriele o Michele, ma anche per un uomo rispettabile. Perciò noi diciamo che il termine « serpente » e il paragone con gli altri animali, non indicano la dignità dell’angelo ma la vergogna del ribelle. È vero piuttosto che dalla caduta del demonio, già consumata quando l’uomo fu creato, nacque la gelosia che spinse a ingannare la prima coppia umana con quegli artifici che conosciamo. Satana non sopportava di vedere quest’uomo (fatto col fango della terra) chiamato alla gloria che una volta era stata sua, e dalla quale era caduto quando cessò di essere uno dei principi delle schiere celesti. È dunque vero che la prima colpa del demonio fu un atto di orgoglio, e questa gli meritò il nome di serpente: la colpa d’invidia venne in un secondo tempo. Prima di peccare per invidia il maligno era ancor capace di stare eretto, di intrattenere una conversazione e di prendere una decisione con l’uomo, ma dopo quel peccato la giusta sentenza di Dio lo abbatte completamente. Ormai egli non potrà più alzare verso il cielo i suoi sguardi; assumere una posizione eretta: è condannato a strisciare sul suolo, ad avere per alimento la terra, che significa le opere del vizio. Fino a quel momento egli era stato per l’uomo un nemico nascosto, ma Dio lo scoprì e stabilì tra lui e l’uomo una utile inimicizia, una discordia salutare. D’ora in avanti sarà possibile difendersene come da un nemico pericoloso: egli non potrà più nuocere all’uomo dissimulando un’amicizia fraudolenta. XI – Il castigo riservato a chi inganna e a chi è ingannato Quanto abbiamo detto deve servire soprattutto a noi, insegnandoci a fuggire i cattivi consigli. Perché, è vero che il seduttore è stato punito come si era meritato, ma anche il sedotto non è sfuggito al castigo, anche se è vero che nel secondo caso la severità è stata minore. Tutto questo è detto chiaramente nella Scrittura divina. Adamo fu sedotto, o se vogliamo usare le parole di san Paolo, « non fu sedotto » [28], ma si arrese, per sua disgrazia, a colei che era stata sedotta; in conseguenza di ciò si vide condannato alla fatica e al sudore della fronte. Dove è da osservare che questi mali non sono l’effetto di una maledizione che cade direttamente su Adamo; sono invece effetto della maledizione della terra e della sua infecondità. La donna invece, che persuase l’uomo a commettere il male, si ebbe una colluvie di gemiti, di dolori, di tristezze. In più essa sarà per sempre sottomessa all’uomo. Il serpente, poi, che fu il primo istigatore del peccato, fu colpito da una maledizione eterna. Bisogna dunque star bene in guardia contro i cattivi consigli, perché se questi ricadono come punizioni su colui che li dona, non lasciano indenne da colpa e da castigo colui che li accetta. XII – Demoni che a schiere popolano l’aria e loro movimenti Lo spazio che si stende fra la terra e il cielo è popolato da un numero sterminato di spiriti che volano e operano senza un momento di riposo o di ozio. Sono tali e tanti che fu una benigna disposizione della Provvidenza averli sottratti alla nostra vista. Il loro numero, la mostruosità delle forme che possono prendere a loro piacere, darebbero agli uomini uno spavento insopportabile, tale da non permetter loro di reggersi in piedi: occhi di carne non son capaci di sostenere sì orribile vista. Potrebbe anche avvenire’ che quella vista, con i mali esempi continui che comporterebbe, provochi gli uomini all’imitazione, e li renda di giorno in giorno più perversi. Da ciò nascerebbe, tra gli uomini e gli spiriti immondi dell’aria, una dannosa familiarità, una consuetudine di morte. Nessuno nega che tra gli uomini si commettano molti delitti, ma sono nascosti dal segreto delle mura, dalla distanza dei luoghi, da un certo senso di pudore. Ora, se quei delitti si avessero continua- mente sotto gli occhi, per opera dei demoni, l’umanità sarebbe spinta a più grave smania di fare il male. Non ci sarebbe infatti più un istante in cui non si dovessero vedere di questi delitti, perché i demoni non vanno soggetti come noi alla stanchezza del corpo, alle preoccupazioni della famiglia, al pensiero del pane quotidiano; cose queste che ci obbligano, anche con nostro dispiacere, a interrompere le nostre imprese. XIII – Le schiere degli angeli buoni e di quelli malvagi esercitano tra loro le stesse battaglie che suscitano tra gli uomini È poi certo che gli spiriti celesti e quelli del male, combattono tra loro le stesse battaglie che suscitano tra gli uomini. L’origine della discordia sta nel fatto che i demoni prendono sotto il loro patrocinio alcuni popoli, che hanno stretto con loro un patto d’unione nella perversità. Di qui discordie, lotte e una guerra senza fine con gli angeli di Dio. Una visione del profeta Daniele ci dà la riprova di questa verità. Ecco come gli parla l’arcangelo Gabriele: « Non temere, Daniele, perché dal primo giorno che, per ottenere intelligenza, ti sei messo in cuore di darti alla penitenza nel cospetto del tuo Dio, le tue parole sono state esaudite, e io sono venuto qui in seguito alle tue parole. Il principe del regno dei Persiani mi ha fatto resistenza per ventun giorni; quand’ecco Michele, imo dei primissimi principi, venne in mio aiuto, ed io rimasi qua presso il re dei Persiani. Ora son venuto per istruirti intorno alle cose che saranno per venire al tuo popolo negli ultimi giorni » [29]. Nessun dubbio che questo « principe del regno dei Persiani » è una potenza maligna, favorevole al popolo persiano e nemica del popolo di Dio. Siccome, per opera dell’arcangelo Gabriele, stava sul punto di risolversi la difficoltà per la quale Daniele si era rivolto al Signore, lo spirito maligno vuole impedire questo effetto; perciò si mette, invidioso, contro l’angelo del Signore, allo scopo di impedire che la parola di questo giunga a Daniele e conforti il popolo del Signore, sul quale Gabriele stendeva la sua protezione. Lo stesso Gabriele assicura al profeta che l’opposizione dello spirito maligno è stata così violenta che egli non sarebbe arrivato fino a lui se l’arcangelo Michele non fosse venuto in suo aiuto, non si fosse schierato di fronte al principe del regno dei Persiani e avesse preso a combattere contro di lui, per consentire a Gabriele — ormai al riparo dagli assalti del maligno — di recare a Daniele il messaggio di cui era stato incaricato da ben ventun giorni. Poche righe dopo la profezia di Daniele riprende così: « Sai tu, disse l’angelo, perché son venuto a te? Ora ritornerò per combattere la mia causa contro il principe dei Persiani; mentre io uscivo apparve il principe dei greci che stava venendo. Ma io ti annuncerò ciò che è registrato nel libro della verità e nessuno mi dà aiuto in tutto questo al- l’infuori di Michele vostro principe »[30]. E ancora: « In quel tempo sorgerà Michele il principe grande che sta alla difesa dei figli del tuo popolo »[31]. Abbiamo visto dunque un altro spirito avverso che è il « principe dei Greci »; questo sta in favore di quel popolo che gli è soggetto e si mostra nemico sia del popolo di Dio che del popolo persiano. Da ciò si deduce chiaramente che le discordie, le rivalità, le guerre, eccitate fra i popoli dalle potenze contrarie, hanno le loro ripercussioni fra gli angeli buoni e cattivi. Come la vittoria dei loro protetti li fa godere, così la sconfitta li fa soffrire. Fra queste potenze è impossibile che si stabilisca una concordia: ognuna combatte, con avversione implacabile, a favore del popolo che protegge, contro la potenza che protegge il popolo rivale. XIV – Da dove è derivato il nome di Principati e Potestà agli spiriti maligni Alle opinioni già riferite bisogna aggiungere che questi spiriti son chiamati Principati e Potestà per un motivo evidente, cioè perché esercitano sopra i diversi popoli un vero dominio e una vera presidenza: oppure perché hanno alle proprie dipendenze altri spiriti e demoni di minor dignità. Dal Vangelo infatti sappiamo — come essi stessi confessano — che i demoni sono legioni. Sta di fatto che quegli spiriti non potrebbero chiamarsi Dominazioni se non avessero dei soggetti sui quali esercitare il loro dominio; né potrebbero chiamarsi Principati se non ci fosse su chi poter esercitare la loro sovranità. Questa verità è confermata dalla bestemmia che il Vangelo coglie sulla bocca dei farisei, quando dicono : « Per virtù di Beelzebub, principe dei demoni, egli (Gesù) scaccia i demoni »[32]. Altrove leggiamo il nome di « rettori delle tenebre »[33] attribuito ai demoni, oppure troviamo che un altro demonio è chiamato « principe di questo mondo » [34]. L’Apostolo però ci assicura che questa specie di gerarchia scomparirà quando tutto sarà sottomesso a Cristo. Egli dice: « E consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver; annientato ogni Principato, Potestà e Dominazione » [35]. E ciò avverrà soltanto quando saranno stati sottratti all’impero dei demoni coloro sui quali si esercita ora la loro potenza, il loro dominio, la loro potestà. XV – Non senza una ragione gli spiriti celesti hanno ricevuto il nome di Angeli e di Arcangeli Non v’è dubbio che questi stessi nomi sono stati opportunamente attribuiti anche agli angeli buoni, per designare la loro gerarchia, per distinguere i loro uffici, il merito, la dignità. È certo dunque che il nome di Angeli, che vuol dire « messaggeri », è preso dal compito loro spettante di annunciare le divine volontà. Il nome di Arcangeli deriva dal fatto che questi comandano ai semplici Angeli, come esprime l’etimologia della parola. Altri spiriti son chiamati Dominazioni perché realmente dominano su molti altri; altri ancora son detti Principati perché hanno sudditi che loro obbediscono come a principi; oppure Troni a causa della stretta unione d’amicizia che li lega a Dio, tanto che la divina maestà sembra riposare particolarmente in loro, come sopra un trono, e stabilirsi in loro in maniera più ferma. XVI – La sottomissione che i demoni osservano nei confronti dei loro capi viene dimostrata attraverso la visione di un monaco Riguardo alla dipendenza di alcuni spiriti immondi da altri peggiori di loro, non abbiamo soltanto la testimonianza del Vangelo, in cui è riferita la risposta del Signore ai farisei : « Se io scaccio i demoni in nome di Beelzebub principe dei demoni… »[36] con quel che segue. La stessa cosa ci è confermata da molte visioni ed esperienze dei santi. Uno dei nostri fratelli viaggiava in questo deserto verso Torà del tramonto; trovò una caverna e vi entrò per compiere la sua prece vespertina. Nella recita dei Salmi trascorse la mezzanotte e, terminato l’ufficio, il fratello si distese un poco per ricreare le membra stanche. Subito vide eserciti di demoni che irrompevano da ogni parte: erano schiere innumerevoli e fitte che avanzavano in una interminabile sfilata: alcune precedevano il loro principe, altre lo seguivano. Finalmente arrivò il gran capo: di statura superava tutti gli altri demoni, d’aspetto era il più spaventoso tra tutti. Fu eretto un trono e quello vi prese posto, come in un tribunale altissimo, per cominciare un esame meticoloso della condotta di ciascuno. Coloro che confessavano di non essere ancora riusciti a far cadere i loro avversari, li faceva togliere dalla sua presenza come pigri e buoni a nulla; nello stesso tempo li caricava d’improperi e d’ingiurie, mentre, fremendo di furore, rinfacciava loro tanto tempo sprecato e tanti sforzi andati perduti. Quelli invece che riferivano di aver fatto cadere le anime loro affidate, li copriva d’elogi, fra la gioia e gli applausi di tutti; poi li faceva sfilare davanti agli altri, come combattenti valorosissimi, degni d’essere additati ad esempio. Nel numero dei demoni vittoriosi se ne presentò uno particolarmente lieto, per riferire un trionfo straordinarissimo. Egli fece il nome di un monaco assai noto, che era caduto dopo quindici anni di assedio. In quella stessa notte il monaco era caduto in peccato di lussuria con una fanciulla, alla quale aveva poi fatto promettere che sarebbe vissuta con lui come sua moglie. A questa notizia si alzarono da tutti grida di grandissima gioia e il vincitore si ritirò, colmato di elogi e di gloria, dal principe delle tenebre. Al sopraggiungere dell’aurora la moltitudine dei demoni dileguò, e il fratello che aveva avuto la visione incominciò a dubitare sulla verità della notizia data da quello spirito immondo. Era propenso a credere che, con la sua solita scaltrezza, il demonio avesse tentato di ingannarlo addossando a un fratello innocente un peccato di lussuria. Gli veniva alla mente in proposito la parola del Vangelo: « Egli non perseverò nella verità, perché la verità non è in lui. Quando dice la menzogna parla del suo perché è bugiardo e padre della menzogna » [37]. Perciò si recò a Pelusio, dove sapeva che dimorava il monaco sul quale il demonio affermava di aver riportato vittoria, Si trattava per di più di un fratello assai noto al monaco della visione. Dopo averlo attentamente cercato, venne a sapere che in quella stessa notte in cui il sozzo demonio aveva annunziata la caduta ai suoi compagni e al suo capo, il poveretto aveva abbandonato il monastero e s’era recato al villaggio, dove era miseramente caduto in peccato con la fanciulla designata. XVII – Ogni uomo ha due angeli attorno a sé La Scrittura afferma che ciascuno di noi ha vicini due angeli: uno buono e uno cattivo. Parlando degli angeli buoni, così dice il Signore: « Guardatevi dal disprezzare qualcuno di questi piccoli, poiché vi dico che i loro angeli, nei cieli, vedono continuamente il volto del Padre mio che è nei cieli »[38]. E il salmo dice: « S’accampa l’angelo del Signore attorno a quei che lo temono e li salva »[39]. Negli Atti degli Apostoli si legge a proposito di s. Pietro: « È il suo angelo! »[40]. C’è poi il Pastore di Erma che ha una trattazione completa sull’angelo buono e su quello cattivo[41]. Se infine consideriamo il demonio che tenta Giobbe, ci accorgeremo che è lo stesso del quale si dice che gli tendeva insidie senza riuscire a farlo peccare. Per questo domanda al Signore di avere potestà su di lui, perché sa che Giobbe gli resiste, non per forza propria, ma perché è continua- mente avvolto dalla protezione divina. Di Giuda poi è scritto che « il diavolo stava alla sua destra »[42]. XVIII – Due filosofi dimostrano la diversità di malizia esistente tra gli spiriti maligni Sulle diversità che corrono tra i vari raggruppamenti di demoni, siamo stati bene informati da quei due filosofi che un tempo, per mezzo delle arti magiche, ne misero ripetutamente alla prova la debolezza, la forza, la ferocia. I nostri filosofi disprezzavano il beato Antonio, come uomo rozzo e ignorante, e volevano nuocergli in qualche modo. Dato che non avevano altro mezzo per attuare il loro disegno, vollero almeno cacciarlo fuori dalla cella con sortilegi e inganni diabolici. A tale scopo gli mandarono una schiera di spiriti immondissimi. Li spingeva a fare ciò la gelosia nata in loro a causa delle grandissime folle che andavano ogni giorno a visitare Antonio, ritenuto servo di Dio. Ma il santo monaco, ora si faceva il segno di croce sul petto e sulla fronte, ora si sprofondava in una preghiera umilissima, e così quei demoni ferocissimi non ardivano neppure avvicinarglisi; furono anzi costretti a ritornarsene presso coloro che li avevano mandati senza aver concluso nulla. Allora furono mandati altri demoni di una malizia più furiosa, ma anche quelli spesero invano le loro fatiche e dovettero tornarsene senza aver ottenuto nulla. Una terza schiera, più potente ancora, fu mandata ad assalire il beato Antonio, già vittorioso di due attacchi; ma neppure questa poté spuntarla contro il soldato di Cristo. Tutte quelle insidie, ordite con le più raffinate arti della magia, non valsero ad altro che a far brillare più luminosamente la singolare forza che si unisce alla professione della vita cristiana. Quei potenti spiriti che i filosofi ritenevano capaci di oscurare il sole e la luna — qualora di ciò fossero stati incaricati — non soltanto furono incapaci di procurare il più piccolo male al beato Antonio, ma non riuscirono neppure a farlo uscire per un momento dal suo monastero. XIX – Niente possono i demoni contro gli uomini, se prima non s’impossessano della loro mente I filosofi, colpiti da grande ammirazione, si recarono subito dal beato Antonio, al quale confessarono di avergli suscitato contro assalti così potenti perché dominati dalla gelosia; poi domandarono di esser fatti immediatamente cristiani. Antonio allora domandò in qual giorno erano avvenuti gli assalti di cui gli parlavano e assicurò che in quel giorno era stato sconvolto da pensieri dolorosissimi. L’esperimento fatto dal beato Antonio prova la verità di ciò che dicemmo ieri, vale a dire che i demoni non possono invadere né un corpo né un’anima, né hanno facoltà di irrompere in uno spirito, senza averlo prima spogliato di tutti i santi pensieri che formano la contemplazione spirituale. Bisogna ora sapere che gli spiriti immondi possono obbedire agli uomini. O sono soggiogati dalla santità dei cristiani, per mezzo della virtù e della grazia divina, oppure si lasciano soggiogare dai sacrifici degli empi e dalle loro formule magiche: allora si assoggettano a loro come ad amici intimi. Questo secondo modo è quello che ingannò i farisei quando pensarono che anche il Signore comandasse così ai demoni. Dissero infatti: « Egli scaccia i demoni per mezzo di Beelzebub, principe dei demoni » [43]. Pensarono cioè a quei sortilegi per mezzo dei quali i loro maghi e indovini invocavano Beelzebub e gli offrivano sacrifici — a lui invero molto graditi — allo scopo di diventargli amici e di avere potestà sopra i demoni a lui soggetti. XX – Domanda riguardante quegli angeli ribelli dei quali si legge, nel libro del Genesi, che ebbero rapporti con le figlie degli uomini Germano – È stata certamente una disposizione della Provvidenza che poco fa sia risonato nel discorso un passo del Genesi. Quella citazione ci ha persuasi a porre una domanda che da gran tempo volevamo porre. Si tratta di questo: che cosa dobbiamo pensare di quegli angeli ribelli dei quali si legge che ebbero rapporti carnali con le figlie degli uomini? [44]. Come è possibile ciò per esseri spirituali? Inoltre desideriamo approfondire quel testo evangelico che poco fa è stato applicato al diavolo: « È bugiardo lui e suo padre » [45]. Ora domandiamo: chi si deve intendere quando si parla di padre del diavolo? XXI – Soluzione della questione proposta Sereno — Mi avete rivolto due domande tutt’altro che facili: io cercherò di rispondere meglio che potrò e secondo l’ordine da voi seguito nell’interrogare. Non si deve assolutamente credere che una natura spirituale possa avere rapporti carnali con donne. Se il fatto si fosse avverato una volta, secondo il suono delle parole scritturali, noi ci chiediamo perché non dovrebbe — sia pur raramente — avverarsi ancora. Perché non si dovrebbero anche oggi vedere concepimenti e nascite per opera del demonio, senza concorso di parte maschile? Sappiamo bene che i demoni si dilettano molto di atti libidinosi; ora, se a loro fosse possibile, non è vero che preferirebbero compierli essi stessi piuttosto che provocare a ciò gli uomini? È quello che dice anche l’Ecclesiaste: « Che è ciò che è stato? Quello stesso che sarà. Che è ciò che è accaduto? Quello stesso che accadrà. Non c’è nulla di nuovo sotto il sole, né alcuno può dire: guarda, questa cosa è nuova, poiché essa fu già nei tempi andati, prima di noi » [46]. Ma ecco ora come si risolve il problema da voi proposto. Dopo la morte del giusto Abele, affinché tutto il genere umano non traesse origine da un fratricida e da un empio, nacque Seth, per sostituire il fratello defunto e prendere il suo posto in famiglia, ma più ancora per ereditarne la giustizia e la pietà. I discendenti di Seth seguirono le orme paterne e si tennero lontani da ogni contatto con la discendenza del sacrilego Caino. Prova di ciò è la netta distinzione della genealogia della Bibbia: « Adamo generò Seth, Seth generò Enos, Enos generò Cainan, Cainan generò Malaleel, Malaleel generò Jared, Jared generò Enoc, Enoc generò Matusalem, Matusalem generò Lamech, Lamech generò Noè »[47]. La genealogia di Caino è riportata a parte: « Caino generò Enoc, Enoc generò Cainan, Cainan generò Malaleel, Malaleel generò Matusalem, Matusalem generò Lamech, Lamech generò Jabal e Jubal »[48]. Le generazioni discese dal giusto Seth, non ammettevano alleanze se non nella loro linea e nel loro sangue e rimasero per molto tempo fedeli alla santità dei loro padri e del loro capostipite, senza mescolarsi ai delitti e alla malizia di quella razza perversa che portava con sé il germe dell’empietà, trasmessa come un’eredità da Caino. Finché durò questa separazione, i discendenti di Seth, come piante uscite da nobile radice, meritarono per la loro santità il nome di angeli del Signore, o, come dicono molti testi, « figli di Dio ». I discendenti di Caino, invece, per colpa della loro empietà e per quella dei loro padri, nonché per motivo delle loro opere terrestri, furono chiamati figli degli uomini. Questa utile e santa divisione durò fino al giorno in cui i figli di Seth — detti anche figli di Dio — misero gli occhi addosso alle figlie dei discendenti di Caino, e, colpiti dalla loro bellezza, scelsero fra quelle le loro spose. Quelle contagiarono i mariti coi vizi dei loro padri e li ritrassero dalla santità in cui erano nati, dalla semplicità degli antenati. Ai figli di Seth si applica giustamente la parola divina: « Io ho detto: voi siete Dei e figli dell’Altissimo tutti! Ma voi al par degli uomini morrete e come uno dei principi cadrete »[49]. Essi infatti dimenticarono quella scienza della natura che avevano ricevuto dai padri e che il primo uomo — venuto al mondo immediatamente dopo le nature infraumane — aveva potuto apertamente contemplare e trasmettere con sicurezza ai suoi discendenti. Adamo aveva visto il mondo bambino; ancor fresco e palpitante nella sua nascita; pur tuttavia possedeva tale pienezza di scienza e così alto grado di virtù profetica, che dopo aver abitato sulla terra per un minuto solo, dette il nome a tutti gli animali, distinse la ferocia delle bestie selvatiche e il veleno dei serpenti, le virtù delle erbe e delle piante, le qualità delle pietre; conobbe anche — senza averne fatta l’esperienza — l’avvicendamento delle stagioni. Perciò potrà dire con verità: « Il Signore mi ha dato la scienza vera delle cose, sì da conoscere la compagine del mondo e la virtù degli elementi, il principio e la fine e il mezzo dei tempi, il periodo dei solstizi e i mutamenti delle stagioni, i cicli degli anni e le posizioni delle stelle, le nature degli animali e i violenti istinti delle fiere, la forza dei venti e i pensieri degli uomini, le varietà delle piante e le virtù delle radici. Ciò che è nascosto e palese, tutto io ho imparato »[50]. La discendenza di Seth, finché rimase segregata dalla razza sacrilega, si tramandò questa scienza della natura, come una tradizione di famiglia, che passa di generazione in generazione. La riceve santamente e santamente la usò, sia per ciò che attiene al culto divino, sia per ciò che riguarda le necessità comuni della vita. Ma quando si mescolò ai figli dell’empietà, fece servire ad usi profani e funesti — per istigazione del demonio — quel che aveva imparato come esercizio di pietà. Allora istituì le pratiche degli indovini, degli stregoni, dei prestigiatori, dei maghi; coloro che seguirono a questa prima generazione di traviati impararono anch’essi ad abbandonare il culto del vero Dio e adorare gli elementi della natura: il fuoco, i demoni, l’aria. Il nostro argomento non chiede che io spieghi come e perché queste superstizioni di cui ho parlato, non sono annegate nel diluvio, ma sono invece passate ai secoli successivi. Pur non essendo necessario all’argomento, dato che l’occasione è propizia, io dirò qualcosa a questo proposito, richiamandomi ad antiche tradizioni. Cam, figlio di Noè, era stato iniziato alle superstizioni, alle arti magiche e profane. Siccome sapeva che non avrebbe potuto portare nell’arca, dove stava per entrare col padre e coi fratelli, un libro che descrivesse quei riti, ricorse ad uno stratagemma: scolpì in lamine metalliche e in due pietre, che non possono esser distrutte dall’acqua, i precetti della superstizione e le dottrine magiche. Dopo il diluvio andò a ricercare le sue tavolette con la stessa diligenza che aveva usato nel nasconderle, poi le trasmise ai posteri come un seme di sacrilegi e di iniquità[51]. Con questa spiegazione abbiamo fatto giustizia di una credenza che corre tra il popolo, secondo la quale sarebbero stati gli angeli a insegnare agli uomini le superstizioni e le pratiche dell’occultismo. Dall’unione dei figli di Seth con le figlie di Caino, nacque una prole peggiore dei genitori: cacciatori robusti, uomini violentissimi e furiosi, i quali per l’enormità del loro corpo, o forse per l’enormità della loro malizia e della crudeltà, furono chiamati giganti. Costoro furono i primi a devastare le contrade dei loro vicini; ad esercitare la rapina, contenti di vivere rubando più che di vivere lavorando e sudando. I loro delitti crebbero a tal segno che il mondo non poté esser purificato in altro modo che dall’inondazione del diluvio. Poiché i figli di Seth — spinti dalla concupiscenza — avevano oltrepassato quel limite che un istinto naturale aveva fatto lungamente rispettare fin dall’origine del mondo, fu necessario tracciare quel limite con una legge scritta: « Non darai ad un figlio di loro la tua figlia, né prenderai una figlia di loro per il figlio tuo; perché essa sedurrebbe il tuo figlio a non più seguirmi e a servire invece agli dei stranieri » [52]. XXII – Come si può imputare ai figli di Seth la loro unione con le figlie di Caino, se quella unione non era stata proibita in antecedenza? Germano – Si potevano rimproverare i figli di Seth per essersi uniti alle figlie di Caino, se intorno a ciò fosse stato posto un comandamento. Ma poiché nessuna legge imponeva una simile separazione, come si fa ad imputar loro come colpa una unione alla quale nessuna legge si opponeva? La legge non è solita condannare i delitti del passato, ma quelli del futuro. XXIII – Risposta: fin dall’inizio dei tempi la legge naturale rese gli uomini passibili di giustizia e di pena Sereno – Quando Dio creò l’uomo, gli scolpì nel cuore tutta la scienza della legge naturale, se l’uomo l’avesse custodita, com’era volontà del Signore e come aveva incominciato a fare, non ci sarebbe stato bisogno di promulgare quei comandamenti con una legge scritta. Sarebbe stato superfluo suggerire un rimedio esterno, se quello interno avesse conservato il suo valore. Ma quando la legge naturale risultò corrotta dall’abitudine di peccare, le fu aggiunta — a modo di custode e punitore — la legge di Mosè, con le sue prescrizioni severe. Secondo la parola stessa della Scrittura, la legge mosaica doveva essere un aiuto di quella naturale, affinché gli uomini — almeno per paura dei castighi temporali — si guardassero dallo spegnere nel loro cuore la scienza morale, che avevano ricevuto come dono di natura. « Dio — dice il profeta — ha dato la legge come un aiuto »[53]. San Paolo a sua volta ci presenta la legge come un pedagogo dato ai fanciulli[54], allo scopo cioè d’istruirli e custodirli, affinché per una malaugurata dimenticanza non si allontanassero da quella scienza morale in cui la natura stessa li aveva formati. Che l’uomo abbia ricevuto fin dal momento della creazione la conoscenza infusa di tutta la legge, appare evidente dal fatto che prima della legge scritta, e prima del diluvio, gli uomini giusti già osservavano i comandi della legge. Senza una legge naturalmente scolpita nel suo cuore, come avrebbe fatto Abele — essendo la legge scritta ancora lontana — a sapere che doveva offrire in sacrificio a Dio i primogeniti del suo gregge e le più grasse delle sue pecore? E Noè come avrebbe fatto a distinguere quali animali sono mondi e quali immondi, senza una legge scolpita nella sua natura? Al suo tempo la legge scritta non esisteva ancora. Da chi imparò Enoc a « camminare con Dio », se da nessuno fu illuminato intorno alla legge? Da chi impararono Sem e Iafet la regola che dice: « Non scoprirai la nudità del padre tuo » [55], quando camminarono all’indietro per ricoprire l’ebbrezza scomposta di Noè loro padre? Da chi fu ammonito Abramo perché rifiutasse, a compenso della sua fatica, le spoglie nemiche che gli venivano offerte? Da chi imparò a dare a Melchisedech quelle decime che più tardi saranno prescritte dalla legge di Mosè? Da chi appresero Abramo e Lot a ricevere cortesemente i pellegrini e gli ospiti, a lavare loro i piedi, quando il comando evangelico non brillava ancora nel mondo? E Giobbe, dove imparò quell’ardore di fede, quel candore di castità, quella scienza dell’umiltà, della mansuetudine, della misericordia, quell’ospitalità che non abbiamo più visto, ad un grado così alto, neppure in coloro che sanno il Vangelo a memoria? Qual è quel santo che — pur vivendo prima della legge — non ha osservato tutta la legge? Quale santo non osservò il precetto: « Onora il padre e la madre »? Oppure quelli che seguono nel Decalogo: «Non ammazzare, non commettere adulterio, non rubare, non dire falsa testimonianza, non desiderare la moglie del tuo prossimo »? I santi che vissero prima della legge mosaica, osservarono precetti molto più grandi: essi non anticiparono soltanto la legge di Mosè, ma anche quella del Vangelo! XXIV – Coloro che peccarono prima del diluvio furono puniti giustamente Da quanto detto nasce la convinzione che tutte le cose create furono create da Dio perfette, fin dall’inizio. Se le creature fossero rimaste in quella disposizione in cui furono create, non sarebbe stato necessario aggiungere qualche cosa alla disposizione iniziale, che non era affatto imprevidente o imperfetta. Ecco perché noi sosteniamo che Dio punì giustamente coloro che peccarono prima della legge scritta e prima ancora del diluvio: la ragione è che la colpa di chi trasgredisce la legge naturale è senza attenuanti e merita il castigo. Noi non cadremo mai nella bestemmia calunniosa di coloro i quali, per ignoranza di questa verità, se la prendono col Dio dell’Antico Testamento, criticano la nostra fede e dicono in tono ironico: « Come è venuto in mente al vostro Dio di promulgare la legge dopo tante migliaia di anni? Perché per tanti secoli ne ha lasciati privi gli uomini? Se Dio, con l’andar del tempo, ha cambiato pensiero, appare evidente che al principio del mondo ebbe pensieri meno alti e meno belli; dunque è stato necessario che l’esperienza lo ammaestrasse, perché egli potesse formarsi idee giuste e potesse correggere le sue prime disposizioni »[56]. Questi spropositi ripugnano all’infinita prescienza di Dio e non si possono dire senza rendersi colpevoli di una grave bestemmia. L’Ecclesiaste (o Qoelet) afferma: « Ho compreso che tutto quanto Dio ha fatto fin dall’inizio, dura in perpetuo: nulla ci si può aggiungere e nulla togliere »[57]. Perciò « La legge non è fatta per il giusto, ma per i non giusti e riottosi, per gli empi e i peccatori, per gli scellerati e i profani » [58]. I giusti, perché possedevano la norma pura e certa della legge naturale, scritta da Dio nel loro cuore, non avevano alcun bisogno di una legge aggiunta dall’esterno e scritta in caratteri umani: questa fu data dopo, e venne in aiuto alla legge naturale. Da ciò consegue che la legge scritta non doveva esser data fin dall’inizio della creazione, perché allora sarebbe stata superflua, in quanto la legge naturale aveva tutto il suo valore, e da nessuno era stata gravemente violata. Così pure non poteva essere presentata la perfezione evangelica prima che l’umanità avesse imparato ad osservare la legge. Come avrebbero potuto capire queste parole evangeliche: « Se uno ti colpisce sulla guancia destra, presentagli la sinistra », coloro che, non contenti di vendicarsi secondo la legge del taglione, rispondevano con ferite mortali ad un leggero schiaffo, e toglievano la vita a chi li aveva privati di un dente? A uomini di tal fatta non era possibile dire: « Amate i vostri nemici ». Era già da ritenersi in loro una grande cosa che amassero i loro amici, stessero alla larga dai nemici e, pur odiandoli, si guardassero dal molestarli e dall’ucciderli. XXV – Come si deve intendere il Vangelo quando dice che il demonio è « bugiardo e padre della menzogna » L’altra parola della sacra Scrittura da cui dite di essere stati colpiti, è questa: « Egli è bugiardo e il padre suo ». Il tutto riferito al demonio. Sarebbe assurdo pensare che il Signore abbia dichiarato mentitori il demonio e suo padre. Abbiamo detto poco sopra che uno spirito non può generare un altro spirito, né un’anima può generare un’altra anima. Solo la carne può derivare da un principio carnale. San Paolo distingue le due sostanze che compongono l’uomo, la carne e l’anima; nello stesso tempo dice quale è l’origine dell’una e dell’altra: « I nostri padri secondo la carne ci hanno castigati, e noi li abbiamo rispettati; non dovremo molto più sottoporci al Padre degli spiriti, per avere la vita? » [59]. Poteva l’Apostolo usare una distinzione più chiara di questa? Egli ha detto che il padre della nostra carne è un uomo, ma il padre dell’anima nostra è Dio solo. Per la precisione bisogna poi notare che nella stessa formazione del corpo l’uomo esercita soltanto la parte di strumento; il principale agente è anche in questo caso Dio. Dice David: « Le tue mani, Signore, mi hanno fatto e plasmato » [60]. Il beato Giobbe domandava a Dio: « Non mi hai tu forse fatto colare come latte? Non mi hai rappreso e fatto coagulare come latte? Di pelle e di carne tu mi hai rivestito » [61]. Infine, Dio parla così a Geremia: « Prima che io ti formassi nel ventre, io ti conobbi » [62]. L’Ecclesiaste tratta l’origine e il principio dell’una e dell’altra sostanza di cui si compone l’uomo, poi considera il fine a cui quelle due sostanze tendono: nel parlare della loro separazione, ha queste parole di sovrana evidenza: « Prima che la polvere faccia ritorno alla terra, per ridiventare quel che già era; prima che lo spirito ritorni a Dio che l’ha donato » [63]. Non era possibile parlare più chiaramente di così. La carne è chiamata polvere perché trae inizio dal corpo del padre che è fatto di terra e alla terra ritorna; lo spirito invece, non nasce dall’unione dell’uomo e della donna, ma è opera di Dio solo: perciò ritorna al suo Autore. Questa verità ci è ricordata da quel soffio col quale Dio animò il corpo di Adamo. Da tutto ciò balza chiarissimo che nessuno, all’infuori di Dio, può esser chiamato padre degli spiriti: egli li ha creati dal nulla quando ha voluto. Gli uomini si possono chiamare soltanto padri della nostra carne. Il diavolo dunque, per il fatto che è uno spirito angelico e fu creato buono al suo inizio, non può avere altro padre all’infuori di Dio, suo creatore. Quello spirito si gonfiò di superbia e disse in cuor suo: « Salirò più alto delle nubi, sarò simile all’altissimo »[64]. Allora diventò bugiardo e « decadde dalla vita »[65]. Ma quando dal tesoro della sua iniquità trasse fuori la prima menzogna, non divenne soltanto mentitore, divenne anche padre della menzogna [66]. Quando disse all’uomo « voi sarete come Dio », non rimase nella verità. Inoltre divenne anche omicida fin dall’inizio, sia quando precipitò Adamo nella morte, sia quando istigò al delitto e fece morire Abele per mano di Caino suo fratello. ★ Ma sono già due notti che si prolunga la nostra conversazione, e l’aurora che sorge viene ora a porle termine. La mia inesperienza guida ormai la nostra nave, dal mare profondo al porto del silenzio. Nelle questioni che abbiamo trattato è necessario l’aiuto del Signore, perché quanto più il soffio del divino Spirito ci spingerà a fondo nel mare della conoscenza, tanto più le immensità della vita spirituale si manifesteranno ai nostri sguardi, secondo la parola di Salomone: « Il termine della sapienza si fa più lontano di quel che era: alta è la sua profondità, e chi può misurarla? »[67]. Preghiamo perciò il Signore affinché il suo timore e il suo amore (quella carità che mai viene meno) perdurino indefettibilmente in noi. Timore e amore ci faranno sapienti in tutto, e ci conserveranno illesi dai colpi del maligno. Con la loro custodia è impossibile cadere nella rete della morte. Questa è la differenza che corre tra perfetti e imperfetti: i primi posseggono una carità più radicata e matura (se così posso dire), la quale li fa rimanere più saldamente e facilmente nella santità. I secondi, invece, posseggono una carità che, per essere meno saldamente stabilita, si raffredda più facilmente e li lascia cadere più presto e più frequentemente nelle reti del peccato. ★ Egli tacque, ma la sua conferenza aveva acceso in noi un tale ardore che sentivamo una sete più viva della sua dottrina, ora, mentre lasciavamo la sua cella, che prima, quando venimmo ad ascoltarlo. [1] Gv 8,44. [2] Ef 6, 12. [3] Rm 8, 38-39. [4] Dt 6, 4. [5] Dt 6, 5. [6] Lc 12, 35. [7] Lc 22, 36. [8] Mt 10, 38. [9] Rm 10, 2. [10] Mt 5, 39. [11] Mt 10, 23. [12] Mt 19, 21. [13] Sal 103, 14. [14] Sal 35, 7. [15] Cfr. Mt 11, 14. [16] Mt 24, 15 ss. [17] Dn 9, 27. [18] L’opinione espressa da Cassiano si ritrova in molti Padri della Chiesa, come Gregorio Nazianzeno, sant’Ambrogio, sant’Agostino. San Tommaso d’Aquino, però, ritiene più probabile che gli angeli siano stati creati insieme con le nature corporali (1°, q. 63, a3). [19] Gb 38,7 (LXX). [20] Gv 1,3. [21] Col 1,16. [22] Ez 28, 11-18. [23] Is 14, 12-14. [24] Ap 12, 4. [25] Gdc 6. [26] Sal 81, 7. [27] Gen 3,1 (LXX). [28] 1 Tm 2,14. [29] Dn 10,12-14. [30] Dn 10, 20-21. [31] Dn 12, 1. [32] Lc 11, 15. [33] Ef 6, 12. [34] Gv 14, 30. [35] 1 Cor 15,24. [36] Lc 11, 19. [37] Gv 8, 44. [38] Mt 18, 10. [39] Sal 33, 8. [40] At 12, 15. [41] Lib. 2 mand. 6-11 Pastore è un libro che i primi cristiani credevano ispirato. [42] Sal 108, 6. [43] Lc 11,15. [44] Gen 6, 2. [45] Gv 8,44. [46] Qo 1,9-10. [47] Gen 4, 30. [48] Gen 4, 17-21. [49] Sal 81, 6-7. [50] Sap 7, 17-21. [51] Non sappiamo dove Cassiano abbia trovato questa graziosa favola. [52] Dt 7,3. [53] Is 8, 20 (LXX). [54] Gal 3, 24. [55] Lv 18,7. [56] Questa obiezione ironica sonava sulle labbra degli gnostici. La gnosi era un tentativo di ridurre il cristianesimo ad una qualsiasi filosofia. Contro quella eresia la Chiesa ebbe molto da difendersi nei primi secoli. [57] Qo 3, 14. [58] 1 Tm 1, 9. [59] Eb 12, 9. [60] Sal 118,73. [61] Gb 10, 10-11. [62] Ger 1, 5. [63] Qo 12,7 (LXX). [64] Is 14, 14. [65] Gv 8, 44. [66] Tutto questo capitolo si basa sopra una falsa traduzione del testo evangelico in cui il demonio è detto « mendax et pater eius ». L’obiezione di Cassiano traduce: « Egli è bugiardo e suo padre lo è pure ». Tutta la risposta di Sereno dimostra che quel passo evangelico vuol dire: « Egli è bugiardo e padre della menzogna ». [67] Qo 7, 24, (LXX). IX CONFERENZA L’ORAZIONE (Prima parte) Estratto da “CONFERENZE AI MONACI“ Traduzione e note a cura di Lorenzo Dattrino, 2000, Città Nuova Editrice Indice dei Capitoli 1. Premessa alla Conferenza 2. Le parole dell’abate Isacco sulla natura della preghiera 3. In che modo si raggiunge una preghiera pura e semplice 4. Mobilità dell’anima paragonata ad una piuma ed anche ad una piccola ala 5. Le cause per le quali si appesantisce la nostra anima 6. La visione apparsa ad un anziano in rapporto alla sua affannosa dedizione al lavoro 7. Questione se sia più difficile conservare pensieri buoni o provocarne la nascita 8. Le diverse forme della preghiera 9. Le quattro specie di preghiera 10. Quale è l’ordine da osservare nella pratica delle quattro specie di preghiera 11. L’obsecrazione 12. L’orazione 13. La supplica 14. Il ringraziamento 15. Si discute se queste specie di preghiera siano necessarie tutte insieme e per tutti, oppure ognuna singolarmente e successivamente per ciascuno, a parte. 16. Quale forma di preghiera dobbiamo preferire? 17. Delle quattro specie di preghiera offerte dall’esempio di Nostro Signore 18. La preghiera del Signore 19. Sulla formula: «Venga il regno tuo» 20. Sulla formula: «Sia fatta la tua volontà» 21. Del pane supersustanziale o quotidiano 22. «Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori» (Mt 6, 12) 23. «Non c’indurre in tentazione» 24. Non dobbiamo domandare nulla in più di quanto è compreso in questa orazione del Signore 25. Natura di una preghiera più sublime 26. Diverse cause di compunzione 27. Le varie forme della compunzione 28. Perché non è in nostro potere l’effusione delle lacrime 29. Varietà delle compunzioni mostrate nelle lacrime 30. Non si debbono provocare le lacrime, se esse non sgorgano spontaneamente 31. Giudizio dell’abate Antonio sulla natura della preghiera 32. Gli indizi dell’esaudimento della preghiera 33. Obiezione: l’assicurazione d’essere esauditi conviene unicamente ai santi 34. I motivi diversi che rendono esaudite le nostre preghiere 35. La preghiera elevata nella propria cella, a porta chiusa 36. Utilità della preghiera breve e silenziosa 1. Premessa alla Conferenza Le due conferenze seguenti, pronunciate dal venerando abate Isacco intorno alla ininterrotta continuità dell’orazione, adempiranno, con l’aiuto del Signore, la promessa da me avanzata fin dal secondo libro delle Istituzioni (cap.9). Una volta compiuto il lavoro, io credo d’aver soddisfatto l’incarico ricevuto dal vescovo Castore, di felicissima memoria, ed espresso da voi, benignissimo vescovo Leonzio, ed Elladio, fratello santo. Mi scuso, prima di tutto, dell’ampiezza di questa trattazione, perché essa è stata estesa più largamente di quanto avevamo deciso nel periodo dei nostri progetti, pur avendo io cercato di trattarne in misura succinta e di aver lasciato moltissimi elementi nel silenzio. Di fatto, il beato Isacco, dopo aver trattato a lungo di diversi argomenti che io, per amore di brevità, ho lasciato da parte, così finalmente prese a parlare. 2. Le parole dell’abate Isacco sulla natura della preghiera «Tutta la finalità del monaco e la perfezione del suo cuore tendono alla continua e ininterrotta perseveranza della preghiera e, in più, per quanto è concesso alla fragilità dell’uomo, all’immobile tranquillità della mente e ad una perseverante purezza, per effetto della quale noi andiamo in cerca instancabilmente ed esercitiamo continuamente non soltanto la fatica del corpo, ma anche la contrizione dello spirito. Esiste fra l’una e l’altra certo quale reciproco e inseparabile legame. E di fatto, come l’ordinamento di tutte le virtù tende alla perfezione della preghiera, così pure, se tutte queste esigenze non saranno fra loro congiunte e aggregate dal complemento della preghiera, non potranno certo perdurare ferme e stabili. Infatti, come senza tali requisiti non sarà possibile acquistare e assicurare una perenne e costante tranquillità di quella preghiera, di cui stiamo parlando, così pure quelle virtù che predispongono alla preghiera non potranno essere assicurate senza l’assiduità dell’orazione. E allora noi non potremo, con un discorso improvvisato, né trattare convenientemente dell’effetto della preghiera né introdurci nel suo fine principale, che si raggiunge con la costruzione di tutte le virtù, se prima, in vista del suo raggiungimento, non richiameremo ed esamineremo ordinatamente quegli elementi che occorre eliminare oppure disporre, e, in più, secondo il contesto del brano evangelico (Lc 14, 28), non saranno discussi e diligentemente aggregati i coefficienti che contribuiscono alla costruzione di quella spirituale e altissima torre. E tuttavia tali elementi né gioveranno, anche se preparati, né potranno essere sovrapposti l’uno all’altro per raggiungere opportunamente la sommità della perfezione, se prima, una volta effettuata la ripulitura dei vizi e rimossi i grossi e morti ruderi delle passioni, non verranno gettati sopra la terra viva e solida del nostro cuore, come si usa dire, anzi, sulla pietra evangelica (Lc 6, 48), i fondamenti della semplicità e dell’umiltà; è con tali criteri di costruzione che si dovrà edificare la torre delle virtù spirituali al punto da venire immobilmente assicurati fino ad essere elevati con la fiducia d’una propria fermezza ai sommi fastigi dei cieli. Colui che si appoggerà su tali fondamenti, anche se cadranno scrosci di pioggia rovinosa, anche se irromperanno violenti rovesci di persecuzione alla maniera di colpi d’ariete, anche se si scatenerà la terribile tempesta degli spiriti nemici, non solo non lo colpirà alcuna rovina, ma quell’urto non riuscirà in alcun modo a smuoverlo dalla sua fermezza. 3. In che modo si raggiunge una preghiera pura e semplice Ne segue allora che, affinché la preghiera possa riuscire coltivata con quel fervore e quella purezza, con la quale deve essere condotta, debbono essere osservate in tutti i modi le norme seguenti. Anzitutto dev’essere bandita nel modo più completo la sollecitudine provocata dalle tendenze carnali, in secondo luogo non si deve ammettere alcuna preoccupazione di qualche affare o di qualche altro stimolo, ma neppure, e del tutto, il loro ricordo. Nel modo stesso vanno eliminate le detrazioni, i vani colloqui o quelli prolungati, come pure le scurrilità. In modo completo dev’essere rimosso l’insorgere dell’ira e della tristezza, così come dev’essere estirpato il dannoso fomite della concupiscenza carnale e della brama del danaro. E allora, una volta distrutti ed eliminati tutti questi e simili vizi, i quali possono apparire perfino agli occhi degli uomini, e assicurata, come già abbiamo detto, una tale epurazione purificatrice, la quale si ottiene attraverso una purezza fatta di semplicità e di innocenza, occorrerà gettare anzitutto i fondamenti inconcussi d’una profonda umiltà, i quali, ovviamente, siano in grado di sostenere quella torre che si eleva fino al cielo; in secondo luogo occorre aggiungere la costruzione spirituale delle virtù e impedire all’animo ogni distrazione e divagazione lubrica, in modo che a poco a poco l’animo stesso cominci ad elevarsi alla contemplazione di Dio e alla visione delle realtà spirituali. Tutto quello infatti che l’animo nostro ha concepito prima dell’ora dell’orazione, necessariamente ritornerà a farsi presente attraverso la suggestione della memoria, allorché noi ci metteremo a pregare. Perché, quali noi ci ripromettiamo di essere trovati durante la nostra orazione, tali dobbiamo disporci ad essere prima del tempo destinato alla preghiera. Nell’applicarci all’orazione la mente si ritrova nello stato in cui s’era precedentemente atteggiata: quindi, nel disporsi a pregare, ecco affacciarsi ai nostri occhi l’immagine del nostro abituale comportamento e perfino il ricordo delle parole e le impressioni dei nostri sentimenti, ed eccoci allora inclini, secondo le nostre disposizioni, alla irascibilità o alla tristezza, a risentire in noi i motivi della passata concupiscenza o della grottesca risibilità nel parlare, di cui c’è perfino vergogna a parlare, come pure il facile ricorso a precedenti discorsi. E allora, prima di metterci a pregare, procuriamo di escludere con sollecitudine, dall’intimità del nostro cuore, quanto non vorremmo vi entrasse, appunto per poter adempiere quello che ci è stato suggerito dall’Apostolo: “Pregate senza interruzione” (1 Ts 5, 17), e ancora: “(Voglio che gli uomini preghino) ovunque si trovino, alzando al cielo mani pure, senza ira e senza contese” (1 Tm 2, 8). Noi non saremo in grado di aderire a questi suggerimenti, se la nostra anima, purificata da ogni contagio dei vizi e dedita unicamente alle virtù come a dei beni ad essa connaturali, non si nutrirà della continua contemplazione di Dio onnipotente. 4. Mobilità dell’anima paragonata ad una piuma ed anche ad una piccola ala Di fatto, la natura dell’anima viene giustamente paragonata ad una piuma ed anche ad una leggerissima ala. Questa infatti, se dall’esterno non verrà impregnata o cosparsa di qualche liquido, per la stessa mobilità della sua natura, per l’aiuto anche solo d’un leggerissimo vento spontaneamente sale fino alle altezze del cielo. Al contrario, qualora quella stessa piuma venga appesantita dall’aspersione o dall’impregnazione di qualche liquido, non solo non sarà più sollevata per alcun volo verso l’alto in grazia della sua stessa mobilità, ma sarà tenuta a livello della terra a causa del peso impressole dal liquido. Allo stesso modo la nostra anima, se non verrà appesantita dall’insorgere dei vizi e delle affezioni mondane, oppure non si assoggetterà all’influenza di una dannosa libidine, come sollevata dal naturale beneficio della sua purezza, anche solo per il lievissimo spirare della meditazione spirituale sarà sollevata verso le regioni superiori, e così essa, abbandonando le cose umili e terrene, si trasferirà verso i beni celesti e invisibili. È per questo che, con tutta convenienza, siamo ammoniti dal richiamo del Signore: “State bene attenti perché i vostri cuori non si appesantiscano in crapule, ubriachezze e affanni della vita”(Lc 21, 34). E allora, se noi vorremo che le nostre preghiere penetrino non soltanto nei cieli, ma perfino nelle regioni al di sopra dei cieli, procuriamo che la nostra anima, liberata da tutti i vizi terreni e astersa da tutte le scorie delle passioni, raggiunga la sua naturale sublimità, in modo che la sua preghiera salga fino a Dio, una volta che l’anima stessa non sarà più appesantita da alcun peso procuratole dai vizi. 5. Le cause per le quali si appesantisce la nostra anima Occorre dunque premettere per quali cause il Signore ha dichiarato che l’anima si appesantisce. Egli infatti non ha indicato gli adulteri, non le fornicazioni, non gli omicidi, non le bestemmie, non le rapine, di cui nessuno ignora la colpevolezza mortale e la conseguente dannazione; Egli indicò invece la crapula, l’ubriachezza e le preoccupazioni, ossia le sollecitudini del mondo. Tali eccessi nessun uomo di questo mondo li evita e li giudica dannabili al punto che alcuni, mi vergogno a dirlo, che pur si reputano monaci, si lasciano implicare dagli stessi abusi, come se si trattasse di elementi innocui e perfino utili. E benché questi tre abusi, ora richiamati secondo il loro senso letterale, appesantiscano l’anima, la separino da Dio e l’abbassino fino a terra, tuttavia riesce facile evitarli specialmente da parte nostra, di noi, intendo, che ci siamo distaccati con una lunga distanza da ogni contatto con questo mondo e ci guardiamo bene, in ogni possibile occasione, dall’immischiarci con le preoccupazioni delle cose visibili, con le ebrietà e con le crapule. Esiste tuttavia una crapula d’altro genere e non meno nociva, e un’ebrietà spirituale assai difficilmente evitabile, come pure una preoccupazione e una sollecitudine mondana che assale frequentemente anche noi, nonostante la nostra rinuncia a tutti i nostri beni e l’astinenza dal vino e da tutti i banchetti, e la vita da noi condotta nella solitudine: è di noi che così dice il profeta: “Svegliatevi, voi che siete ubriachi, ma non per effetto del vino” (Gl 1,5: LXX). Ed ecco come parla un altro profeta: “Stupite e meravigliatevi; barcollate e vacillate; ubriacatevi, ma non di vino; barcollate, ma non per effetto di vivande inebrianti” (Is 29, 9). Ora il vino che produce quell’ubriachezza è necessariamente, secondo il profeta, “il furore dei dragoni» (Dt 32, 33: LXX), e allora osserva da quale radice esso proceda: “La loro vite è dal ceppo di Sodoma e i loro grappoli da Gomorra” (Dt 32, 32). Vuoi tu, per di più, conoscere il frutto di quella vite e il germe di quel tralcio? “La loro uva è uva di fiele, e i loro grappoli sono pieni di amarezza” (Dt 32, 32). E questo perché, se noi non saremo purificati e liberati dalle crapule di tutte le passioni, anche senza l’ebbrezza e l’abbondanza di tutte le mense, il nostro cuore continuerà ad essere aggravato da un’ebrezza e da una crapula ancora più dannosa. Infatti, che le preoccupazioni mondane possano talvolta sorprendere anche noi, che pur non ci immischiamo con la condotta del mondo, viene comprovato con ogni evidenza dalla regola degli anziani: essi hanno affermato che quanto eccede la necessità del vitto quotidiano appartiene alle preoccupazioni e alle sollecitudini secolari. Così, per esempio, nel caso che il lavoro compensato con un soldo, possa servire a coprire le necessità del nostro corpo, sarebbe male pretendere di occuparci in un lavoro e in una fatica più lunga allo scopo di assicurarci il guadagno di due o tre soldi. Così pure, se ci è sufficiente essere coperti con due tuniche, rispettivamente per il giorno e per la notte, noi faremo male a disporne di tre o di quattro; e ancora, se è sufficiente avere una o due celle, sarà male procurarne, indotti da ambizione e larghezza secolare, procurarne quattro o cinque e, in più, renderle tutte adorne e più larghe di quanto comporti l’uso comune. In tutti questi casi noi dimostriamo di nutrire, nei limiti del possibile, delle preferenze per la passione tutta propria delle voglie mondane. 6. La visione apparsa ad un anziano in rapporto alla sua affannosa dedizione al lavoro Che poi, quanto ora abbiamo esposto, non avvenga senza l’intervento dei demoni, ce l’ha dimostrato l’esperienza della realtà con tutta evidenza. Infatti uno dei monaci, tra i più provetti, passava un giorno per i pressi della cella di un confratello, il quale soffriva appunto di quel malanno, di cui prima abbiamo fatto cenno, in quanto si affannava tutto il giorno a costruire e a riparare cose non necessarie; stando ancora lontano, egli lo scorse mentre con un grosso martello cercava di fare a pezzi un durissimo masso, ma vide pure, accanto a lui, un Etiope, il quale, intrecciate e congiunte le sue mani a quelle dell’altro, tirava lui pure colpi di martello e, in più, lo istigava a compiere quell’operazione con fiaccole ardenti e con tutta la foga; il monaco si fermò colà per lungo tempo, indotto a stupore per gli attacchi di quel ferocissimo demonio, ma anche per l’inganno di una così grossa illusione, subita da quel poveretto. E in realtà, quando quel fratello, spinto ormai dall’eccessiva stanchezza, già avrebbe voluto smettere e porre fine al suo lavoro, incoraggiato da quello spirito maligno, veniva indotto a riprendere nuovamente il lavoro e a non desistere dal proposito dell’opera ormai iniziata, al punto che, sostenuto ormai senza tregua da quegli stessi incitamenti, egli non avvertiva il peso della fatica. Finalmente l’anziano monaco, preoccupato da quel raggiro così crudele operato dal demonio, si diresse alla cella di quel fratello e, dopo averlo salutato, così gli parlò: “Che razza di lavoro è quello che stai facendo?”. E quello rispose: “Abbiamo posto la nostra opera contro questo durissimo macigno e a stento abbiamo appena potuto ridurlo a pezzi”. A queste parole rispose il vecchio: “Hai parlato giustamente, dicendo: Abbiamo potuto. Infatti tu non eri solo quando ti sforzavi a colpire, ma ci fu un altro assieme a te, senza che tu avvertissi la sua presenza, ed egli non ti stava vicino per aiutarti in questa tua fatica, ma solo per incitarti con la sua violenza”. Pertanto, a dimostrare che quella malattia, tutta propria dell’ambizione secolare, non fa parte della nostra anima, non basterà il fatto che noi siamo lontani dall’immischiarci in quegli affari al punto che, anche volendo, non ci è possibile né cercarli né aderirvi, così come non basterà il disprezzo di quelle cose, alle quali, attaccandoci, non potremmo nasconderci tanto di fronte agli uomini spirituali, quanto agli uomini più in vista nel mondo, senza rivelarci al primo nostro apparire; tutto avverrà invece, quando con tutto il vigore della nostra anima, respingeremo quelle cose che pur potrebbero essere in nostro potere ed essere coperte da una certa onestà. E in realtà, queste colpe che sembrano di pochissimo peso e che noi vediamo essere ammesse con indifferenza proprio da coloro che vivono nella stessa professione, finiscono, per la loro stessa natura, per aggravare l’anima non meno di quelle colpe maggiori le quali, dato il loro stato, solitamente inebriano i sensi dei secolari. Tali colpe impediscono al monaco, pur deposta ogni scoria terrena, di elevare il suo spirito fino a Dio, verso il quale dovrebbe essere sempre fissata la sua mente al punto che la pur lieve separazione da quel sommo Bene dev’essere ritenuta da lui come una morte reale e una fine la più funesta. Al contrario, allorché l’anima si manterrà in questa tranquillità, sciolta dai legami di tutte le passioni carnali, mentre l’intenzione del cuore si rivolgerà tenacissima a quell’unico sommo Bene, proprio allora essa compirà l’ammonimento dell’Apostolo: “Pregate incessantemente” (1 Ts 5, 17), e ancora: “(Voglio dunque che gli uomini preghino) dovunque si trovino, alzando al cielo mani pure, senza ira e senza contese” (1 Tm 2, 8). Infatti, una volta che la disposizione dell’anima si sarà raccolta, se così si può dire, in questa purezza, e dopo che essa, al di fuori della condizione terrena, si sarà conformata al modello spirituale proprio degli angeli, è allora che, quanto avrà raccolto in se stessa, quanto avrà provato e quanto avrà compiuto, risulterà una preghiera purissima e sincerissima». 7. Questione se sia più difficile conservare pensieri buoni o provocarne la nascita GERMANO: «Volesse il cielo che noi potessimo conservare la continuità dei pensieri spirituali nel modo stesso e con la massima facilità, con la quale ne concepiamo l’origine. Infatti, non appena essi vengono ideati nel nostro cuore per il ricordo di passi della Scrittura oppure per la memoria di qualche buona azione, ovvero, senza dubbio, per la considerazione dei misteri celesti, insensibilmente essi vengono meno per una fuga, e allora si disperdono. E anche quando l’animo nostro fosse riuscito a trovare altri motivi di elevazioni spirituali, nuovamente, a causa di irruzioni estranee, anche quelle elevazioni che erano subentrate svaniscono a causa della nostra facile mobilità, tanto che il nostro animo, non possedendo nessuna propria costanza e non avendo in proprio potere nessuna fermezza di santi pensieri, anche allora, quando sembrerebbe in grado di poterli trattenere in qualunque modo, si finisce per persuadersi che esso li ha concepiti per puro caso e non per merito personale. E in realtà, in che modo si potrebbe ascrivere l’origine di quei pensieri al nostro potere, se la loro perseveranza non risiede per niente in noi stessi? Ma ora, affinché nella nostra indagine su tale questione, divagando troppo a lungo fuori dell’ordine già iniziato, non ritardiamo troppo a lungo l’esposizione da te proposta sulla natura della preghiera, rimandiamo a suo tempo quella discussione, poiché ora siamo qui a supplicarti con ogni premura per essere appunto istruiti sulla natura dell’orazione, soprattutto perché il beato Paolo ci ammonisce di non desistere dal pregare in nessun tempo. Così infatti egli ci esorta: “Pregate incessantemente” m. Pertanto noi desideriamo di essere informati sulla natura della preghiera, di sapere cioè anzitutto quale orazione debba essere sempre elevata; in secondo luogo desideriamo sapere come sia possibile possederla, qualunque ne sia la natura, per poi esercitarla senza interruzione. L’esperienza quotidiana e l’esposizione presentata da parte della santità tua dimostra che essa non si può raggiungere con un ridotto proposito del cuore: le tue parole hanno posto il fine del monaco e il culmine di ogni perfezione nella perfezione della preghiera». 8. Le diverse forme della preghiera ISACCO: «Io sono del parere che senza una grande purezza del cuore e dell’anima e senza l’illuminazione dello Spirito Santo non sia possibile comprendere tutte le specie della preghiera. Tali specie sono tante, quante in un’anima, o meglio, in tutte le anime, possono esservi prodotti i generi e le forme differenti. Pertanto, sebbene risulti che per l’inettitudine del nostro cuore noi non riusciremo a individuare tutte le specie proprie della preghiera, tuttavia, per quanto la mediocrità della mia esperienza lo consentirà, tenteremo in ogni modo di discorrerne. Infatti, secondo il grado della purezza, alla quale ogni anima tende, e secondo la disposizione effettiva, in cui, o per motivi esteriori o per la sua operosità, ogni anima si perfeziona, quelle varie specie di preghiera in ogni momento si modificano; ne segue allora con certezza che da nessuno possono essere pronunciate preghiere sempre uguali. E in realtà ognuno prega in un modo, allorché si sente lieto, e invece prega in altro modo, quando si sente oppresso dal peso della tristezza o della disperazione; prega in un modo, quando si sente forte per i successi del suo spirito, e in un altro modo, allorché è preso di mira dall’assalto delle tentazioni; in un modo, allorché chiede il perdono per i propri peccati, in un altro, quando domanda l’acquisto d’una grazia o prega per ottenere la sicura estinzione di qualche vizio; in un modo, allorché si sente Contrito nella considerazione dell’inferno e per il timore del giudizio futuro, in un altro, quando s’infiamma per la speranza e il desiderio dei beni futuri; in un modo, allorché si trova nelle necessità e nei pericoli, in un altro, quando vive nella sicurezza e nella tranquillità; in un modo, allorché viene illuminato dalla rivelazione dei misteri celesti, in un altro, quando si sente represso dalla sterilità in fatto di virtù e dall’aridità in fatto di aspirazioni. 9. Le quattro specie di preghiera Quindi, una volta richiamati questi accenni intorno alla varietà delle preghiere, benché non sia stato esposto da me quanto l’importanza della materia esigeva, ma solo quanto l’ha permesso l’angustia del tempo e, senza dubbio, la ristrettezza del mio ingegno e il torpore del nostro cuore, subentra ora per noi una difficoltà ben più grande in vista dell’esposizione delle varie specie della preghiera, trattate ognuna singolarmente, così come l’Apostolo le ha distinte, distinguendole in quattro forme: “Raccomando prima di tutto che si facciano obsecrazioni, orazioni, suppliche e ringraziamenti per tutti gli uomini” (1 Tm 2,1). Non v’è alcun dubbio che tale distinzione sia stata fatta dall’Apostolo non senza motivi fondati. Anzitutto dovremo indagare che cosa egli intenda per obsecrazioni, orazione, supplica e ringraziamento. In secondo luogo occorrerà ricercare se queste quattro specie di preghiera siano da praticare tutte contemporaneamente, vale a dire, se occorra associarle insieme ogni qualvolta che uno si mette a pregare, oppure siano da offrire a Dio alternativamente e singolarmente, come, per esempio, se si debba prima praticare le obsecrazioni, poi le orazioni, poi le suppliche e i ringraziamenti, ovvero se uno debba offrire le obsecrazioni, uno le orazioni, un altro le suppliche, un altro ancora i ringraziamenti, in rapporto cioè alla propria età, relativamente alla quale ogni anima riesce a progredire in proporzione al proprio impegno. 10. Quale è l’ordine da osservare nella pratica delle quattro specie di preghiera In primo luogo occorre trattare delle proprietà stesse dei vocaboli e dei termini, e così esaminare bene quale differenza intercorra fra orazione, obsecrazione e supplica; in secondo luogo occorrerà decidere, in modo analogo, se sarà bene presentare quella successione singolarmente ovvero unitamente; in terzo luogo dovremo indagare se quell’ordine, disposto dall’autorità stessa dell’Apostolo, esiga d’essere in qualche modo ampliato a beneficio di chi ascolta, oppure debba essere accolta nella sua semplicità quella distinzione stessa, tanto da ritenere che la disposizione sia stata offerta dall’Apostolo con tutta indifferenza, ma una tale conclusione a me parrebbe assurda: non bisogna affatto ritenere che lo Spirito Santo abbia enumerato proprio per mezzo dell’Apostolo qualche provvedimento solo di passaggio e senza motivo fondato Perciò noi tratteremo ogni parte a sé stante con lo stesso ordine con cui tutto abbiamo ricevuto, e ne tratteremo così come il Signore ci concederà di parlarne. 11. L’obsecrazione Dice l’Apostolo: “Raccomando prima di tutto che si facciano obsecrazioni” (1 Tm 2,1). L’obsecrazione è un’implorazione ossia una domanda dettata a causa dei peccati; per essa ognuno, ravveduto per le colpe commesse al presente o nel passato, chiede perdono. 12. L’orazione Le orazioni comportano certi impegni, con i quali noi offriamo, ossia, votiamo a Dio qualche cosa, ed è quello che in lingua greca si dice euché, cioè voto. Infatti, là dove in greco è detto: tàs euchàs mou tò Kuriô apodòso, in latino si legge: “Io offrirò al Signore i miei voti” (Sal 115, 24) , e questo, secondo la proprietà del termine, così può essere tradotto: “Io offrirò al Signore le mie orazioni”. Anche quello che leggiamo nell’Ecclesiaste: “Quando hai fatto un voto a Dio, non indugiare a soddisfarlo” (Qo 5,3; LXX), scrive similmente in greco: eàn eùxe euchèn tò Kuriô, vale a dire: “Se voi offrirete un’orazione al Signore, non rimandate il compierla”. E così essa sarà posta in atto da ciascuno di noi in questo modo. Noi infatti preghiamo allorché, rinunciando a questo mondo, promettiamo, una volta negati a tutte le attitudini e ai rapporti con il mondo, di servire il Signore con tutta la dedizione del cuore. Noi preghiamo, allorché, dopo aver disprezzato gli onori del secolo e rinunziato alle ricchezze terrene, aderiamo al Signore con tutta la contrizione del cuore e con la povertà di spirito. Noi preghiamo, allorché promettiamo di coltivare per sempre una purissima castità del corpo e un’incrollabile pazienza, o anche quando facciamo voto di sradicare dal nostro cuore le radici dell’irascibilità e della tristezza, che è una causa di morte. Se noi poi, abbandonandoci all’ignavia e ritornando agli antichi vizi, non adempiremo le nostre promesse, diverremo colpevoli per non aver tenuto fede a quelle stesse nostre promesse e ai nostri voti, al punto che si dirà di noi: “Era meglio non fare voti piuttosto che fare voti e poi non mantenerli”. Tale sentenza si può esprimere così secondo la lingua greca: “È meglio non pregare piuttosto che pregare e poi non mantenere” (Qo 5,4; LXX). 13. La supplica Al terzo posto sono poste le suppliche, quelle che noi, nel fervore dello spirito, siamo soliti presentare anche per gli altri, sia che le nostre richieste tengano presenti i nostri familiari oppure si estendano alla pace di tutto il mondo, come pure, tanto per servirmi delle parole dello stesso Apostolo, noi eleviamo suppliche “per tutti gli uomini, per i re e per tutti coloro che stanno al potere” (1 Tm 2, 1-2). 14. Il ringraziamento Al quarto luogo sono poste le azioni di grazia, quelle che l’anima esprime al Signore con ineffabile impeto, allorché ricorda i benefici ricevuti da Dio nel tempo passato, oppure quando pone mente a quali e quanto grandi favori Iddio intende concedere nell’avvenire a coloro che lo amano. Ed è pure con questa stessa disposizione che talora vengono espresse preghiere più abbondanti, allorché il nostro spirito, considerando con occhi purissimi i premi riservati ai santi nella vita futura, si sente animato a dirigere a Dio, con immensa gioia, grazie ineffabili. 15. Si discute se queste specie di preghiera siano necessarie tutte insieme e per tutti, oppure ognuna singolarmente e successivamente per ciascuno, a parte Da coteste quattro specie nascono solitamente occasioni di larghe suppliche. Infatti dalla specie dell’obsecrazione, la quale è originata dalla compunzione dei peccati e dalla disposizione dell’orazione, che a sua volta nasce dalla fiducia nell’emissione dei voti e del loro compimento in base alla purità della coscienza, come pure dalle suppliche, originate dall’ardore della carità, e dalla gratitudine, generata a sua volta dalla considerazione dei benefici di Dio, della sua grandezza e dalla sua pietà, è da allora, ripeto, che noi rimaniamo convinti che prendono vita molto spesso ferventissime e infuocate preghiere al punto che appare evidente come tutte le specie di preghiera da noi fin qui richiamate riescano utili a tutti gli uomini, tanto che in un solo e medesimo individuo la variazione intesa ora delle obsecrazioni, ora delle orazioni, ora delle domande, produrrà sincere e frequentissime suppliche. E tuttavia la prima specie (le obsecrazioni) sembra convenire maggiormente ai principianti, poiché essi sono ancora presi dal rimorso e dal ricordo dei loro vizi; la seconda (le orazioni) sembra adatta a coloro che si sono già assicurati, per l’effetto del loro progresso spirituale e per il conseguimento delle virtù, una certa elevatezza del loro spirito; la terza (la domanda) è adatta a coloro, i quali, adempiendo alla perfezione le esigenze dei loro voti, sono indotti a intervenire in favore degli altri, in considerazione della loro fragilità, stimolati, come si sentono, dall’impulso della carità; la quarta è adatta per coloro i quali, dopo avere ormai repressa nel loro cuore la spina punitrice della loro coscienza, divenuti sicuri, si dedicano ormai con mente purissima alla considerazione della generosità del Signore e alle misericordie da Lui concesse nel passato e che Egli elargisce nel presente e prepara per il futuro, e così si sentono attratti con cuore ferventissimo a quella preghiera infuocata che dalle parole non può essere né compresa né espressa. Talora però l’anima, una volta stabilitasi in quell’autentico grado di purezza, e in esso inizialmente radicatasi, raccogliendo nel loro insieme tutte quelle forme di preghiera e trascorrendo dall’una all’altra alla maniera d’una fiamma inafferrabile e vorace, suole rivolgere a Dio preghiere d’un vigore purissimo; lo Spirito Santo, intervenendo a sua volta, le rivolge a Dio a nostra insaputa; l’anima concepisce allora, in quell’unico momento, ed effonde con ineffabile profusione suppliche così ardenti, quante in altro tempo la mente non saprebbe ripetere, non dico a parole, ma nemmeno nel ricordo. Può perciò accadere talora che qualcuno, in qualunque grado venga a trovarsi, si ritrovi nella condizione di emettere preghiere pure e intense, poiché, pur essendo egli nel primo e umile grado della vita spirituale, il grado che si estende nel timore del giudizio finale, proprio allora egli venga sorpreso dalla compunzione del cuore al punto da sentirsi nel pieno dell’impeto della obsecrazione con non minore alacrità di chi invece, per la purezza del suo cuore, contemplando ed esaminando la magnificenza di Dio, si senta invaso da una gioia ineffabile. E in realtà, secondo la sentenza stessa del Signore, egli comincia ad amare di più, perché riconosce che gli è stato perdonato di più (Lc 7, 47). 16. Quale forma di preghiera dobbiamo preferire? E tuttavia noi dobbiamo adeguarci di preferenza, in vista del progresso della nostra vita e del raggiungimento delle virtù, a quella specie di preghiera, la quale viene effusa con la contemplazione dei beni futuri e anche con l’ardore della carità, oppure, o con certezza, tanto per parlare più umilmente e secondo la misura dei principianti, attenerci alla preghiera destinata al progresso delle virtù ordinarie e all’estinzione d’ogni vizio. In casi diversi infatti noi non potremmo in alcun modo giungere a specie di preghiera più elevate, di cui abbiamo in precedenza fatta parola, a meno che la mente non progredisca lentamente e gradatamente attraverso l’ordine di queste nostre domande. 17. Delle quattro specie di preghiera offerte dall’esempio di Nostro Signore Queste quattro specie di orazione così formulate il Signore stesso si è degnato, col suo esempio, di insegnarcele, così designandole, sicché anche in questo Egli compì quanto di Lui è detto: “Gesù cominciò a fare e ad insegnare tutto questo” (At 1, 1). Infatti così Egli prese ad osservare la specie dell’obsecrazione: “Padre, se è possibile, passi da me questo calice” (Mt 26, 39). Valga anche quello che, in rapporto alla sua persona, si legge nel Salmo: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Sal 21, 2). Vi sono altri passi, simili a questi, ed è preghiera anche questa, allorché Egli così si esprime: “Io ti ho glorificato sopra la terra, compiendo l’opera che mi hai dato da fare” (Gv 17, 4). Ed ecco un altro testo: “Per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità” (Gv 17, 19). Si ha una domanda, allorché Egli così prega: “Padre, voglio che anche quelli che mi hai dati, siano con me, dove sono io, perché contemplino la mia gloria, quella che tu mi hai data” (Gv 17, 24), come pure: “Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno” (Lc 23, 34). Il ringraziamento è così da Lui espresso: “Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenute nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti, e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te” (Mt 11, 25-26). E ancora: «Padre, ti ringrazio, perché mi hai ascoltato. Io sapevo che sempre tu mi dai ascolto” (Gv 11, 41-42). E tuttavia, sebbene il Signore stesso abbia dichiarato il dovere di offrire le quattro specie di preghiera distintamente e in momenti diversi secondo il modo da noi in precedenza indicato, nondimeno il Signore ha pure dimostrato che quelle forme si possono esprimere anche con una supplica perfetta, e lo ha enunciato col suo esempio per mezzo di quella continuata preghiera da Lui stesso pronunciata, quella che noi leggiamo verso la conclusione del vangelo di Giovanni (Gv 17). E poiché sarebbe troppo lungo ripercorrere tutto questo testo, ogni diligente lettore potrà persuadersi di questa certezza anche solo consultando direttamente il testo ora da noi richiamato. Ad ogni modo anche l’Apostolo, nella sua lettera diretta ai Filippesi, pur mutando l’ordine succedentesi delle vane specie d’orazione, dichiarò molto espressamente che talvolta quelle preghiere dovrebbero essere elevate tutte insieme sotto l’impulso di una identica supplica. E così egli scrive: “In ogni promessa e obsecrazione le vostre domande siano presentate a Dio con azioni di grazie” (Fil 4, 6). Con questo ammonimento egli volle farci intendere in modo del tutto particolare che nell’orazione e nell’obsecrazione, l’azione di grazie dev’essere aggiunta alla domanda. 18. La preghiera del Signore Tali specie di suppliche saranno seguite da una disposizione dell’animo ancora più alta e soprannaturale, confermatasi a sua volta in vista della contemplazione del solo Dio e dell’ardore della carità, per la quale la mente, appena libera e proiettata in avanti, parla con pietà particolare con Dio come col proprio padre. E che poi per noi sia un dovere quello d’aspirare ad acquistare un tale stato del nostro animo, ce lo indica la formula della preghiera dettata dal Signore, che così appunto si esprime: “Padre nostro” (Mt 6, 9). E allora, poiché noi confessiamo con la nostra stessa voce che nostro Padre è Dio, signore dell’universo, noi ammettiamo pure con certezza di essere stati liberati dalla condizione della schiavitù e di essere stati ammessi nell’adozione di figli, tanto è vero che subito vi si aggiunge: “che sei nei cieli”. Il fine di questa preghiera è appunto quello di farci disprezzare con ogni orrore la dimora della vita presente, per la quale noi abbiamo in questa terra come in un luogo straniero che ci separa tanto lontano dal nostro Padre, e così dovremmo preferire il raggiungimento di quella regione, in cui confessiamo che risiede il Padre nostro, in modo da prepararci a questo fine con sommo desiderio, senza permetterci nulla di quello che, rendendoci indegni della nostra professione e della nobiltà di un’adozione così grande, e privandoci, perché indegni, dell’eredità paterna, ci obblighi ad incorrere nell’ira della sua giustizia e della sua severità. Una volta immessi in quest’ordine e grado di figlio, noi ci infiammeremo ben presto della pietà tutta propria dei buoni figli, tanto da coltivare tutto il nostro affetto, non già per soddisfare le nostre voglie, ma per la gloria del nostro Padre, dicendo a Lui: “Sia santificato il tuo nome”, e così testimoniare che il nostro desiderio e la nostra gioia sono la gloria del nostro Padre. Saremo insomma imitatori di colui che disse: “Chi parla da se stesso, cerca la propria gloria; ma chi cerca la gloria di colui che l’ha mandato, è veritiero, e in lui non c’è ingiustizia” (Gv 7, 18). Anche Paolo, vaso di elezione, ripieno com’egli è di quell’affetto, desidera divenire anatema, separato da Cristo, pur di vedere acquistata a lui una grande famiglia e accresciuta per la gloria del Padre suo la salvezza di tutto il popolo di Israele (Rm 9, 3). Egli desidera morire per Cristo, sicuro com’egli è, perché è certo che nessuno può morire in vista della vera vita. Perciò egli afferma: “Ci rallegriamo quando noi siamo deboli e voi siete forti” (2 Cor 13, 9). Quale meraviglia può esservi allora, se il vaso di elezione desidera divenire anatema e separato da Cristo proprio per la gloria di Cristo, per la conversione dei suoi fratelli e la salvezza dei gentili così privilegiati, dato che perfino il profeta Michea preferì divenire bugiardo e privato dell’ispirazione dello Spirito Santo, purché al popolo giudaico fossero risparmiate le piaghe e le rovine da lui predette? Così infatti egli afferma: “Volesse Dio che io fossi un uomo, in cui non risiedesse lo Spirito, e così pronunciassi menzogne” (Mic 2, 11). E lasciamo pur da parte l’aspirazione dell’autore della Legge (mosaica), il quale non ricusò di soccombere unitamente ai suoi fratelli, qualora fossero condannati a perire, e così si espresse: “Ti prego, Signore; questo popolo ha commesso un grande peccato; ed ora perdona loro questa colpa, oppure, se non perdoni, cancellami dal tuo libro, che hai scritto” (Es 32, 31-32). Ed ecco le parole seguenti: “Sia santificato il tuo nome”: esse potrebbero benissimo essere intese anche nel senso che Dio è santificato dalla nostra perfezione. Rivolgendoci infatti a Lui e dicendo: “Sia santificato il tuo nome” con tali parole noi intendiamo dire questo: rendici in grado, o Padre, di comprendere quanto sia grande la tua santità o almeno di meritare di comprenderla, o anche fa’ in modo che la tua santità sia manifesta per effetto della nostra vita spirituale. È allora che tutto questo si adempie efficacemente in noi, allorché “gli uomini vedono le nostre opere buone e rendono gloria al Padre nostro che è nei cieli” (Mt 5, 16). 19. Sulla formula: «Venga il regno tuo» La seconda domanda, presentata dalla mente purissima di un uomo, esprime il desiderio che venga al più presto il regno del Padre suo, e questo va inteso nel senso del regno, nel quale Cristo regna nei santi, il che avviene quando, una volta espulso dal nostro cuore il dominio del demonio con l’estinzione dei suoi fetidi vizi, al suo posto ha cominciato a dominare in noi la buona fragranza delle virtù e nella nostra mente ha preso a regnare la castità, una volta vinta la fornicazione, e così pure la tranquillità, una volta dominata l’irascibilità, come pure l’umiltà, una volta schiacciata la superbia. Ma si può intendere bene anche come il regno promesso, in genere, per il tempo stabilito in futuro per tutti i discepoli perfetti e per i figli di Dio; è in quel regno che ad essi sarà detto da Cristo: “Venite, benedetti del Padre mio; ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo” (Mt 25, 34). È questa la promessa diretta a quanti tengono lo sguardo rivolto e fisso in Lui con desiderio intenso, e gli dicono: “Venga il regno tuo” (Mt 6, 10). Quell’anima sa bene, per la testimonianza della propria coscienza, che, all’apparire del Cristo, immediatamente farà parte del suo regno. Nessun peccatore invece oserà esprimere o avanzare una tale pretesa, poiché non vorrà neppure volgere gli occhi al tribunale del giudice chiunque, in vista del suo arrivo, è cosciente che, per i suoi meriti, non dovrà essergli riservata una palma o un premio, quanto piuttosto la punizione. 20. Sulla formula: «Sia fatta la tua volontà» La terza domanda dei figli suona così: “Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra” ( Mt 6, 10). Non può esservi una preghiera più elevata di questa: desiderare che le cose della terra meritino di essere uguagliate alle cose del cielo. E di fatto, che altro significa dire: “Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra”, se non che gli uomini siano simili agli angeli, e così pure che, come la volontà di Dio viene da essi compiuta in cielo, al modo stesso coloro che sono in terra compiano tutti, non la propria, ma la volontà di Lui? Una tale domanda pertanto riuscirà ad avanzarla effettivamente soltanto colui, il quale crede che Dio dispone in questo mondo tutte le cose, avverse o propizie che esse siano, per il suo bene, e che Egli è provvidente e sollecito per la salute di coloro che sono suoi più di quanto potremmo esserlo noi di noi stessi. Senza dubbio la stessa domanda dev’essere accolta anche in questo senso: “È volontà di Dio la salvezza di tutti”, ed è questa la sentenza del beato Paolo: “Iddio vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità” (1 Tm 2, 4). Della stessa volontà parla anche il profeta Isaia, in persona di Dio Padre: “La mia volontà sarà compiuta interamente” (Is 46, 10). E allora, nel dire a Dio: “Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra”, noi, pregando, lo diciamo con altre parole, e cioè “che, al modo stesso, con cui si comportano quanti sono in cielo, così pure tutti coloro che sono in terra, o Padre, si salvino per la tua conoscenza”. 21. Del pane supersustanziale o quotidiano Segue quindi la domanda: “Dacci oggi il nostro pane epioúsion”, vale a dire supersustanziale (Mt 6, 11), quello che un altro evangelista chiamò “quotidiano” (Lc 11, 3). Il primo aggettivo (supersustanziale) sta a significare la prerogativa di quel cibo, ossia la sua nobiltà e la sua sostanza, per cui esso sta al di sopra d’ogni altra sostanza, poiché la sublimità della sua suprema santificazione supera ogni altra sostanza e tutte le creature; l’altro aggettivo invece indica propriamente il suo uso e la sua utilità. E in realtà, allorché dice “quotidiano”, indica che senza di esso noi non potremmo godere della vita dello spirito neppure per un giorno; allorché dice “oggi”, dimostra che esso dev’essere preso ogni giorno e che la sua assunzione, accolta il giorno precedente, non basta, visto che anche oggi esso ci è offerto allo stesso modo. Il bisogno quotidiano di questo cibo deve insegnarci la necessità di ripetere in ogni tempo questa orazione, poiché non v’è giorno, nel quale non vi sia la necessità per noi di riassicurare il cuore del nostro uomo interiore con l’assunzione di un tale cibo, pur essendo vero che con la voce “oggi” è possibile fare riferimento anche alla vita presente, vale a dire, finché noi dimoriamo ancora in questo secolo. In realtà noi sappiamo che questo pane dovrà essere concesso anche a coloro, nella vita futura, che l’avranno meritato, tuttavia noi ti preghiamo di concedercelo anche oggi appunto perché, se uno non l’avrà meritato nella vita presente, non potrà esserne partecipe nemmeno in quella futura. 22. «Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori» (Mt 6, 12) O ineffabile clemenza di Dio, il quale non solo ci dichiarò la forma della preghiera, ci indicò la norma a Lui accetta intorno alla nostra condotta e, come conseguenza di questa forma da Lui suggerita, con la quale ci comandò di essere sempre pregato, distrusse nel tempo stesso le radici dell’ira e della tristezza, ma anche offre e apre a chi lo prega la via, per la quale sia provocato nei suoi confronti un giudizio di Dio clemente e pio e, in certo qual modo, offre l’occasione di poter temperare la sentenza di Lui, nostro giudice, con l’indurlo al condono dei nostri peccati sull’esempio del nostro perdono, appunto perché noi diciamo a Lui: “Perdona a noi, come anche noi perdoniamo agli altri”. E allora ognuno di noi, una volta rassicurato dalla fiducia ispiratagli da questa orazione, domanderà perdono per i peccati propri appunto perché è divenuto remissivo nei confronti dei propri debitori: intendo dei debitori (propri), non certo di quelli del suo Signore. Infatti noi siamo soliti, almeno alcuni di noi, mostrarci remissivi e molto clementi riguardo alle offese che vengono commesse con ingiuria di Dio, pur trattandosi di colpe gravi, e questo indubbiamente è assai grave, mentre ci comportiamo da implacabili vendicativi nei confronti di coloro che ci hanno offeso anche solo debolmente. E allora, chiunque non avrà perdonato di cuore il fratello che l’ha offeso, proprio con questa preghiera non domanderà per sé il perdono, quanto piuttosto la condanna, e con le sue stesse parole chiederà di essere trattato assai duramente, in quanto così egli si esprimerà: “Perdona a me così come io ho perdonato! ”. E di fatto, venendo egli trattato in base alla sua richiesta, che altro ne seguirà, se non che egli venga punito, sul suo esempio, con implacabile ira e con una sentenza senza remissione? In realtà tanto a noi sarà perdonato, quanto noi stessi avremo rimesso a coloro che ci hanno offeso con qualsiasi malignità. Alcuni cristiani, temendo questa conseguenza, allorché in chiesa viene recitata tale preghiera da tutto il popolo, non pronunciano quelle parole per non sentirsi obbligati dalla loro enunciazione stessa, anziché essere indotti a giustificarsi, e così essi si rifiutano di comprendere che inutilmente cercano di presentare i loro futili pretesti al giudice di tutti, poiché Egli volle appunto preannunciare in che modo avrebbe giudicato coloro che lo pregano. Infatti, mentre Cristo non vuole essere ritenuto non mite e inesorabile, così ha preannunciato la forma del suo giudizio in modo che, come noi desideriamo di essere giudicati, così pure noi giudichiamo i nostri fratelli, se in qualche cosa ci hanno offesi: infatti “il giudizio sarà senza misericordia per colui che non ha usato misericordia” (Gc 2, 13). 23. «Non c’indurre in tentazione» Segue quindi la formula: “Non c’indurre in tentazione” (Mt 6, 13), intorno alla quale sorge una questione non di poco conto. Infatti, se noi preghiamo perché non si permetta che siamo tentati, con quale prova riusciremo a dimostrare la virtù della nostra costanza, secondo quella sentenza: “Ogni uomo che non è stato tentato, non è stato provato?” (Sir 34, 11). E così pure, secondo quest’altra: “Beato l’uomo che sopporta la tentazione” (Gc 1, 12)? Ne segue dunque che l’espressione: “Non c’indurre in tentazione” non significa “non permettere che noi talvolta siamo tentati”, quanto invece: “Non permettere che noi nella tentazione siamo vinti”. Di fatto fu tentato Giobbe, ma non fu indotto in tentazione. Infatti egli non ne fece un’accusa diretta a Dio e neppure si lasciò trarre con un’empia espressione, quasi come un bestemmiatore, al volere del suo tentatore. Fu tentato Abramo, fu tentato Giuseppe, ma nessuno di loro fu indotto in tentazione, poiché nessuno di loro offrì il proprio consenso al tentatore. Ed ecco quanto segue: “Ma liberaci dal male” (Mt 6, 13), vale a dire, non permettere che noi siamo tentati dal diavolo al di sopra delle nostre forze, ma “fa in modo che con la tentazione vi sia pure la via d’uscita, affinché possiamo sopportarla” (1 Cor 10, 13). 24. Non dobbiamo domandare nulla in più di quanto è compreso in questa orazione del Signore Voi dunque potete ora vedere quale sia la forma dell’orazione, per mezzo della quale lo stesso giudice dispose d’essere pregato: in essa non è contenuta nessuna domanda di ricchezze, nessun’aspirazione alle dignità, nessuna pretesa di potere e di potenza, nessun accenno alla sanità del corpo e alla vita temporale. Egli infatti esige che a Lui, creatore dell’eternità, nulla sia domandato che sappia di fugace, di interessato, di temporale. Ne segue allora che gli infligge una gravissima ingiuria chiunque, messe da parte le domande che importano valori eterni, preferisce chiedergli qualche dono di valore transitorio e peribile, e così rischia di incorrere, con la sua preghiera interessata, più in un’offesa che non nella propiziazione del giudice. 25. Natura di una preghiera più sublime Questa orazione del Pater, sebbene sembri contenere ogni pienezza di perfezione, appunto perché suggerita e fissata dall’autorità del Signore, tuttavia essa induce coloro che abitualmente la recitano, ad adottare la forma di preghiera più elevata, già da noi in precedenza richiamata: essa li induce progressivamente ad un’orazione ardente, nota a pochissimi e da pochissimi sperimentata, anzi, per meglio esprimermi, ineffabile; tale orazione, trascendendo ogni senso umano, non si esprime con il suono della voce, con il movimento della lingua, o con la pronuncia delle parole, essa è tale che la mente, illuminata dall’infusione della luce celeste, non la esprime con voci umane e ristrette, ma, al contrario, essa la effonde come da una fonte copiosissima e la invia fino a Dio copiosamente e ineffabilmente, e produce tanta effusione in quel solo movimento, quanta la mente, una volta ritornata in se stessa, non potrebbe esprimere facilmente a parole, né ripercorrere. Un tale stato di orazione ce lo indicò anche Nostro Signore con la formula di quella supplica che Egli, come s’è detto, ritiratosi tutto solo sul monte (Lc 5, 16), oppure, tacitamente, espresse, allorché, nella preghiera della sua agonia, profuse perfino con gocce di sangue (Lc 22, 44), con un esempio inimitabile di intensità. 26. Diverse cause di compunzione ISACCO: «Chi potrebbe sufficientemente, anche se fornito d’una superiore esperienza, esporre la varietà, le cause stesse e l’origine della compunzione, da cui la mente, infiammata e ardente, viene sospinta fino all’adozione di preghiere pure e ferventissime? Di tali elementi, almeno in parte, per quanto mi sarà possibile con l’aiuto dell’illuminazione del Signore, io ora tratterò, proponendo alcuni esempi. Alcune volte un versetto di qualche Salmo, durante la recitazione, mi offrì l’occasione d’una preghiera molto ardente. Talora la melodia armoniosa d’un confratello eccitò il mio animo stupito ad elevarsi ad un’orazione molto attenta. Io so pure che l’impegno e il fervore della recitazione dei Salmi ha suscitato nei presenti un grandissimo fervore. Anche l’esortazione d’un uomo perfetto e la sua conversazione hanno spesso contribuito ad elevare a preghiere fervidissime l’animo di chi versava nella passività. Io so pure che, in occasione della morte d’un confratello o d’una persona cara non sono stato meno indotto alla pienezza della compunzione. Ed anche il ricordo della mia tiepidezza ha suscitato talvolta in me un salutare ardore dello spirito. In questo modo non v’ha dubbio che non mancano innumerevoli occasioni, per le quali, con la grazia di Dio, ci possiamo sollevare dalla tiepidezza e dalla sonnolenza dello spirito. 27. Le varie forme della compunzione Non è di minore difficoltà indagare in quale misura e in quali modi tali forme di compunzione scaturiscano dall’intimità dell’anima. Spesso infatti, per effetto d’una gioia ineffabile e dell’alacrità dello spirito, emerge il frutto d’una compunzione saluberrima al punto da prorompere perfino in certe grida a causa della eccezionalità di quella gioia, e così la giocondità del cuore e la grandezza dell’esultanza penetrino perfino nella cella del monaco vicino. Talora invece la mente si raccoglie in silenzio entro il segreto d’una profonda taciturnità al punto che lo stupore di quella improvvisa illuminazione spegne del tutto ogni vibrazione di voce, sicché lo spirito, così sorpreso, trattiene nell’intimo le sue sensazioni o le esclude, e allora effonde davanti a Dio i propri desideri con gemiti inesprimibili. Talora invece l’anima è sorpresa da tale profusione di compunzione e da tanto dolore da non poter superarlo in altro modo, se non con l’effusione delle lacrime. 28. Perché non è in nostro potere l’effusione delle lacrime GERMANO: «Quest’aspetto della compunzione, anche da parte mia, la mia ristrettezza non lo ignora. Frequentemente infatti, apparse le lacrime al ricordo delle mie colpe, fui ricolmato, come tu hai rammentato, da tale ineffabile gioia per la visita del Signore, che la grandezza di quella letizia mi suggerì di non dover disperare del perdono. Io ritengo che non vi sarebbe nulla di più sublime di quello stato, se il suo ricupero dipendesse dall’arbitrio nostro. Talvolta infatti, pur desiderando io con tutte le forze stimolarmi per giungere ad una simile compunzione delle lacrime con il raffigurarmi davanti agli occhi tutti i miei errori e i miei peccati, non riesco ad eccitare quell’abbondanza di lacrime, e così i miei occhi persistono nella condizione stessa di una durissima pietra al punto che da essi non fuoriesce neppure una stilla di pianto. E così io, quanto godo nella profusione delle lacrime concessa da Dio, altrettanto provo dolore, allorché io, pur desiderandolo, non riesco a trovarla» 29. Varietà delle compunzioni mostrate nelle lacrime ISACCO: «Non ogni profusione di lacrime deriva da un unico sentimento, così come non è prodotta da una sola virtù. In un modo infatti sgorga il pianto, allorché esso prorompe a causa della spina dei peccati che punge il nostro cuore, ed è allora che così è scritto: “Sono stremato per i lunghi lamenti; ogni notte inondo di pianto il mio giaciglio, irroro di lacrime il mio letto” (Sal 6,7); e di nuovo: “Fa’ scorrere come torrente le tue lacrime giorno e notte! Non darti pace, non abbia tregua la pupilla del tuo occhio” Lam 2, 18); in altro modo sgorga il pianto, allorché esso irrompe dalla contemplazione dei beni eterni e dal desiderio dello splendore futuro, da cui pure derivano sorgenti più copiose di lacrime per l’eccesso della gioia e l’ampiezza dell’aspirazione, allorché la nostra anima tende alla fortezza del Dio vivente ed esclama: “Quando verrò ed apparirò davanti a Dio? Le lacrime sono il mio pane giorno e notte!” (Sal 41, 3-4); ogni giorno ella proclama con alta voce e lamenti: “Ahimè! Il mio esilio si è prolungato” (Sal 119, 5), e ancora: “L’anima mia vi ha abitato a lungo come straniera” (Sal 119, 6). In altro modo ancora scaturiscono le lacrime non provocate dalla coscienza di colpe gravi, ma dal timore dell’inferno o dal pensiero di quel terribile giudizio; anche il profeta, colpito da questo terrore, così prega, rivolto al Signore: “Non chiamare a giudizio il tuo servo, perché davanti a te nessun vivente è giusto” (Sal 142, 2). Vi è pure un genere ulteriore di lacrime, prodotto non da motivi di coscienza, ma per la durezza dei peccati degli altri: è per questo movente che pianse Samuele a causa di Saul (1 Sam 15, 35), come pure il Signore nel vangelo per la città di Gerusalemme (Lc 19,41 ss.), ed anche Geremia, il quale, in età remota, così si esprime: “Chi spargerà acqua sul mio capo e una fonte di lacrime sui miei occhi? Giorno e notte io piangerò i morti della figlia del mio popolo” (Ger 9, 1). Tali risultano pure le lacrime, delle quali è parola nel Salmo 101: “Di cenere io mi nutro come di pane, e alla mia bevanda io mescolo il pianto” (Sal 101, 10). È certo che tali lacrime non sono provocate dal sentimento, in merito al quale nel Salmo 6 esse sgorgano nella persona di un penitente; esse prorompono anche a causa delle ansietà, delle angustie e delle tribolazioni di questa vita, da cui anche i giusti vengono colpiti in questo mondo. Questa realtà la dichiara con tutta evidenza non solo il testo di un Salmo, ma anche il suo titolo, perché, proprio nella persona di quel povero, di cui nel vangelo è scritto: “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli” (Mt 5, 3), così è dichiarato: “Preghiera dì un povero, quando è afflitto e sfoga dinanzi a Dio la sua angoscia” (Sal 101, Titolo). 30. Non si debbono provocare le lacrime, se esse non sgorgano spontaneamente Ne segue dunque che corre una forte differenza fra queste lacrime e quelle che sgorgano da un cuore duro e da occhi secchi. Anche se noi crediamo che tali lacrime non siano infruttuose, infatti la loro emissione è dovuta a un buon proposito, soprattutto da parte di coloro che non hanno ancora raggiunto una scienza perfetta o non sono riusciti a purificarsi del tutto dalle macchie di vizi antichi e recenti, quanti tuttavia sono già arrivati alla brama delle virtù, non devono in nessun modo provocare l’emissione delle lacrime, così come non devono sforzarsi per produrre ad ogni costo il pianto, tutto proprio dell’uomo esteriore. Un tale pianto infatti, prodotto in qualunque modo, non potrà mai raggiungere la ricchezza delle lacrime spontanee; al contrario, esso, con quegli sforzi, abbatte l’anima di chi prega, lo mortifica, lo abbassa a livello d’uomo, e lo distacca da quella sublimità celeste, nella quale la mente elevata di chi prega dev’essere incessantemente fissa, e così lo costringerà, una volta soggiogato dall’intensità della preghiera personale, a languire, divenuto vittima di lacrime sterili e forzatamente provocate. 31. Giudizio dell’abate Antonio sulla natura della preghiera E affinché voi comprendiate la natura della vera orazione, io non vi esporrò una mia idea, ma la sentenza del beato Antonio. Sappiamo che talvolta egli durò così a lungo immerso nella preghiera che, mentre era ancora elevato nell’estasi della sua orazione, allorché cominciava a levarsi la luce del sole, l’abbiamo udito esclamare nel fervore del suo spinto: “Perché mi importuni, o sole, che già sorgi, tanto che mi distogli dallo splendore di questa luce?”. E allora, affinché noi pure, secondo la misura della nostra esiguità, osiamo allegare qualche aggiunta a questa ammirevole sentenza, assocerò, in base alla mia esperienza, qualche idea su quali indizi si può ritenere che la preghiera sia udita dal Signore. 32. Gli indizi dell’esaudimento della preghiera Quando, nel pregare, nessuna esitazione è intervenuta a ostacolarci e neppure s’è interposta a distoglierci, con qualche diffidenza, dalla fiducia posta nella nostra orazione, ma, al contrario, per la stessa effusione della nostra preghiera, avremo avuto la sensazione d’aver ottenuto quanto chiedevamo, allora non mettiamo dubbi che le nostre orazioni non siano arrivate fino a Dio. E in effetti, tanto ognuno meriterà di essere esaudito e di ottenere quanto avrà creduto d’essere tenuto presente da Dio e avrà creduto che Dio possa concedere. Di fatto, è irreversibile questa sentenza di Nostro Signore: “Tutto quello che voi domandate nella preghiera, abbiate fiducia di ottenerlo, e vi sarà accordato” (Mc 11, 24). 33. Obiezione: l’assicurazione d’essere esauditi conviene unicamente ai santi GERMANO: «Noi siamo convinti che una tale fiducia d’essere esauditi deriva ovviamente dalla purezza della propria coscienza. Noi perciò, il cui cuore è ancora punto dalla spina dei peccati, come potremo nutrire quella fiducia, non essendo protetti da quei meriti, per i quali dovremmo presumere fiduciosamente che le nostre preghiere verrebbero esaudite?». 34. I motivi diversi che rendono esaudite le nostre preghiere Isacco: «Che diversi siano i motivi per essere esauditi secondo la diversa e varia disposizione delle anime lo dichiarano le stesse enunciazioni sia dei vangeli, sia dei profeti. Potrai trovare confermato dalla voce stessa del Signore il frutto dell’esaudimento della preghiera nell’affiatamento di due tra i fedeli, secondo queste parole: “Se due di voi sopra la terra si accorderanno, qualunque cosa essi domanderanno, sarà loro accordata dal Padre mio che è nei cieli” (Mt 18, 19). Potrai trovarne un’altra prova nella pienezza della fede, paragonata al grano di senapa: “Se avete fede pari a un granellino di senapa, potrete dire a questo monte: Spostati di qui, ed esso si sposterà e lascerà libero tanto spazio quanto occorrerà” (Mt 17, 19). Potrai trovarne ima prova ulteriore nell’assiduità delle orazioni, che il Signore qualificò come un’importunità proprio per l’insistenza delle domande: “Ebbene io vi dico che, se anche non si alzerà a darglieli per amicizia, si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono almeno per la sua importunità” (Lc 11, 8). Ed ecco un’altra prova del frutto dell’elemosina: “Riponi la tua elemosina nel cuore del povero, ed essa pregherà per te nel giorno della tribolazione” (Sir 29, 15). Un’altra prova è ancora nell’emendazione della vita e nelle opere della misericordia secondo la seguente sentenza: “Sciogli i legami dell’empietà, togli via i pesi che opprimono” (Is 58, 6). Nello stesso luogo, dopo alcune parole, con le quali viene punita la sterilità del digiuno infruttuoso, così il profeta si esprime: “Allora tu lo invocherai, e il Signore ti risponderà; implorerai aiuto, ed Egli dirà: Eccomi” (Is 58, 9) .Talvolta l’eccesso stesso delle nostre tribolazioni fa sì che noi siamo esauditi secondo la seguente sentenza: “Nella mia angoscia ho gridato al Signore, ed Egli mi ha risposto” (Sal 119, 1). E di nuovo: “Non maltrattare lo straniero, perché, se egli griderà verso di me, lo esaudirò, perché io sono misericordioso” (Es 22, 21 e 27: Volgata). Voi stessi dunque vedete in quanti modi si ottiene la grazia dell’esaudimento, al punto che nessuno, nell’impetrare quanto è utile alla sua salvezza eterna, viene deluso nella sua pur aggravata coscienza. E in effetti, pur concedendo che nella visione delle nostre miserie, da me in precedenza richiamate, ci sorprendiamo del tutto destituiti di virtù, e di non avere quella lodevole fraternità concordata fra due, né la fede paragonata al grano di senapa, né le opere di pietà indicate dal profeta, non possiamo forse avere almeno quell’importunità, la quale soccorre chiunque la pone in atto e per la quale, anche se non c’è altro appoggio, il Signore, una volta pregato, promette di concedere qualunque cosa gli venga richiesta? E allora, messa da parte l’infedeltà dell’esitazione, è necessario insistere nella preghiera, senza minimamente dubitare che noi, con la preghiera costante, otterremo tutto quello che domanderemo secondo il beneplacito di Dio. E di fatto il Signore stesso ci esorta, poiché Egli desidera concedere i suoi beni celesti ed eterni, e allora Egli vuole che noi, in un certo modo, lo costringiamo con la nostra importunità: Egli non solo non disprezza e non respinge gli importuni, ma li sprona e li loda e promette di concedere con somma benignità tutto quello che essi si ripromettono. Ecco le sue parole: “Chiedete e riceverete; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto, perché chi chiede, ottiene; chi cerca, trova; e a chi bussa, sarà aperto” (Lc 11, 9-10). E ancora: “Tutto quello che con fede chiederete nella preghiera, lo otterrete; niente vi sarà impossibile” (Mt 21, 22; 17, 19). Pertanto, anche nel caso che ci venissero meno i motivi già da noi richiamati per essere esauditi, almeno ci stimoli l’istanza dell’importunità, la quale, al di fuori d’ogni merito e d’o- gni impegno, è sempre presente nelle possibilità di chi s’adopra. Sicuramente ritenga di non dovere essere esaudito chiunque, quando prega, comincia a dubitare d’essere esaudito. Che poi si debba supplicare senza tregua il Signore, lo si può arguire dall’esempio del beato Daniele: egli, pur essendo stato esaudito fin dal primo giorno, in cui aveva cominciato a pregare, ottenne l’effetto delle sue suppliche dopo ventuno giorni (Dn 10, 2 ss.). Ne segue allora che noi pure non dovremo distoglierci dal continuare le nostre orazioni già iniziate, se ci accorgeremo di non essere ancora esauditi, appunto perché potrebbe essere ritardata utilmente la grazia dell’esaudimento per disposizione del Signore o anche perché l’angelo, uscito dalla visione dell’Onnipotente per recarci il dono di Dio, ritarda a causa della resistenza del diavolo. E certo infatti che l’angelo non potrà comunicarci il dono da noi richiesto, se troverà che noi abbiamo cessato di chiedere la grazia che ci eravamo proposta. E un tale esito sarebbe stato certamente riservato anche al profeta, già da noi chiamato in causa, se lui non avesse prolungato, per effetto duna virtù incomparabile, fino a ventuno giorni la durata delle sue orazioni. E allora procuriamo anche noi di non lasciarci abbattere, nella fiducia di questa nostra fede, da nessun ostacolo, allorché ci accorgeremo che le nostre richieste non sono state ancora esaudite, e perciò non mettiamo dubbi sulle promesse del Signore, il quale ha detto: “Tutto quello che voi domandate nella preghiera, abbiate fede di ottenerlo e lo riceverete” (Mt 21, 22). E in realtà a noi conviene insistere, richiamandoci alla sentenza del beato evangelista Giovanni, in merito alla quale viene risolta ovviamente ogni incertezza su questa nostra questione: “Questa è la fiducia che noi abbiamo in Lui: qualunque cosa gli chiediamo secondo la sua volontà, Egli ci ascolta” (1 Gv 5, 14). Ne segue dunque che è su questo motivo unico che noi dobbiamo nutrire una piena e indubitata fiducia di venire esauditi, in questo cioè appoggeremo la nostra confidenza non sui nostri interessi e sui nostri piaceri, ma sulla volontà del Signore. E questo motivo siamo comandati di annodarlo anche nella preghiera del Signore, così dicendo: “Sia fatta la tua volontà”, e cioè la tua, non la nostra. Se infatti noi ci ricordiamo di quelle dell’Apostolo che così si esprimono: “Noi non sappiamo che cosa sia conveniente domandare” (Rm 8, 26), comprenderemo che noi talvolta chiediamo cose contrarie alla nostra salvezza e che quindi assai opportunamente Egli, che conosce ben più retta- mente e più veracemente di noi quello che ci è utile, non ci concede quanto noi gli domandiamo. Del resto questo accadde senza dubbio al dottore delle genti, allorché pregò perché fosse allontanato da lui l’angelo di Satana, che utilmente gli era stato posto accanto per volontà del Signore con l’incarico di schiaffeggiarlo, e così concluse: “A causa di questo per ben tre volte ho pregato il Signore perché si allontanasse da me. Ed Egli mi ha detto: Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta nella debolezza” (2 Cor 12, 8-9). Tale intenzione la espresse pure Nostro Signore, quando pregò nella persona dell’uomo assunto, e questo per offrirci col suo esempio, come, del resto, in altri casi, anche la forma dell’orazione, e perciò, pregando, così si espresse: “Padre, se è possibile, passi da me questo calice! Tuttavia, non come voglio io, ma come vuoi tu! ” (Mt 26, 39), e pregò così, perché la sua volontà non si differenziasse da quella del Padre. “Egli infatti era venuto a salvare quello che era perduto e a dare la propria vita in riscatto per molti” (Mt 18, 11; 20, 28). E di questa stessa intenzione così Egli parla: “Nessuno toglie a me la mia vita, ma io la offro da me stesso, poiché ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo” (Gv 10, 18). Nella persona di Lui, riguardo all’unione della sua volontà con quella del Padre, così si esprime Davide nel Salmo 39: “… affinché io faccia il tuo volere, mio Dio, questo io ho voluto” (Sal 39, 9). E se del Padre noi leggiamo: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito” (Gv 3, 16), tuttavia noi troviamo affermato del Figlio queste parole: “Egli ha dato se stesso per i nostri peccati” (Gal 1, 4). Del Padre è detto ancora: “Egli, per di più, non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi” (Rm 8, 32), come pure di Lui: “E stato offerto, perché Egli stesso lo ha voluto” (Is 53, 7). E così viene indicata tutta l’unicità del volere del Padre e del Figlio al punto che perfino nello stesso mistero della risurrezione del Signore siamo informati che non vi fu un’azione dissonante. E di fatto, come il beato Apostolo dichiara che il Padre operò la risurrezione del corpo del Signore, affermando: “Dio Padre, che lo hai risuscitato dai morti” (Gal 1,1), così pure il Figlio affermò che Egli avrebbe risuscitato il tempio del proprio corpo, attestando: “Distruggete questo tempio, ed io in tre giorni lo farò risorgere” (Gv 2, 19). Pertanto, istruiti da questi esempi del Signore fin qui da noi riportati, dovremo noi pure concludere tutte le nostre richieste con la preghiera seguente e aggiungere questa voce a tutte le nostre orazioni: “Signore, non come voglio io, ma come vuoi tu” (Mt 26, 39). Risulta però che il numero dei tre inchini, compiuti solitamente nelle riunioni dei fratelli a conclusione della sinassi, non potrà essere osservato dal fratello che, con animo intento, è tutto assorto nella sua preghiera. 35. La preghiera elevata nella propria cella, a porta chiusa Prima di tutto occorre senza dubbio tener presente con molta diligenza quel precetto del vangelo, il quale ordina che, entrando nella nostra camera per pregare il Padre nostro, ne chiudiamo la porta (Mt 6, 6). Tale precetto sarà da noi osservato in questo modo. Noi pregheremo veramente nell’intimità della nostra camera, allorché, rimessa completamente dal nostro cuore la risonanza di tutti i pensieri e di tutte le sollecitudini, eleveremo in qualche modo in tutta segretezza e familiarità le nostre preghiere al Signore. Noi dunque preghiamo a porte chiuse allorché, serrate le labbra e in completo silenzio, eleviamo le nostre suppliche a Colui che non tiene conto delle parole, ma scruta il cuore. Preghiamo in segreto, allorché noi presentiamo unicamente a Dio le nostre richieste solo con il cuore e con l’attenzione della mente, sicché neppure le potenze del male potranno conoscere il contenuto della nostra orazione. E necessario dunque pregare in pieno silenzio, non solo per non distrarre col nostro mormorio e con la nostra voce i fratelli vicini, e così non importunare il raccoglimento di quanti stanno pregando, ma anche perché il silenzio della nostra orazione resti pure occulto per i nostri nemici, i quali, a causa delle nostre preghiere, sarebbero indotti ad attaccarci maggiormente. E così che noi metteremo in pratica quel precetto: “Custodisci le porte della tua bocca davanti a colei che riposa vicino a te” (Mic 7,5). 36. Utilità della preghiera breve e silenziosa E’ questo il motivo, per cui noi dobbiamo pregare frequentemente, ma anche brevemente, appunto perché così, non dilungandoci, il nemico non avrà modo, con le sue insidie, d’insinuare nel nostro cuore qualcosa di estraneo.E questo infatti il sacrificio vero, perché “uno spirito Contrito è sacrificio a Dio” (Sal 50, 19); e questa l’offerta salutare, queste le pure oblazioni, questo “il sacrificio della giustizia” (Sal 50, 21); “questo il sacrificio di lode” (Sal 49, 23); queste le “vittime pingui e adipose, i ricchi olocausti” (Sal 65, 15), offerti dai cuori contriti e umiliati, sicché, nell’offrirli nel modo e con l’attenzione dello spirito già da noi indicata, potremo presentarli con tutta l’efficacia, dicendo: “Come incenso salga a Te la mia preghiera; le mie mani alzate, come sacrificio della sera” (Sal 140, 2). Ma ecco che il giungere dell’ora della notte consiglia anche a noi di compiere quel sacrificio della sera, e allora, sebbene di questo nostro argomento sembri siano stati trattati, nonostante i limiti della mia pochezza, molti aspetti e con larghezza, tuttavia, data l’elevatezza e le difficoltà della materia, credo che tutto sia stato discusso con molta ristrettezza». E noi allora, pieni di meraviglia ancora più che saziati, celebrata la sinassi della sera, ristorammo con un poco di sonno le nostre membra, e al primo apparire della luce ritornammo nelle nostre dimore, gioiosi per la promessa d’una trattazione ulteriore e più larga, e soddisfatti sia per l’acquisto delle notizie ricevute sia per la sicurezza della promessa a noi annunziata. Eravamo persuasi che era stata a noi dimostrata soltanto l’eccellenza della preghiera, ma il metodo e l’efficacia, con cui viene acquistata e fissata la sua continuità, noi eravamo convinti di non averli ancora del tutto assicurati in quel primo discorso. L’ORAZIONE (Seconda parte) Estratto da “CONFERENZE AI MONACI“ Indice dei Capitoli Nel bel mezzo di questi sublimi insegnamenti degli anacoreti ora esposti con l’aiuto di Dio, sia pure con stile molto dimesso, l’ordine stesso della trattazione m’induce a inserirvi e a trattare qualche aggiunta che potrà apparire come l’inserzione di un neo sopra un bel volto. Io non dubito tuttavia che anche da questa modesta esposizione derivi una non minima istruzione per i lettori più semplici in rapporto all’immagine di Dio onnipotente quale si legge nella Genesi, soprattutto perché vi si tratta di un articolo della nostra fede tanto importante che la sua ignoranza non potrebbe sussistere senza una grossa bestemmia e senza il danno della stessa fede cattolica. Nella provincia dell’Egitto viene conservato per antica tradizione il costume che, trascorso il giorno dell’Epifania, considerato da tutti i sacerdoti di quella regione non solo come il giorno del battesimo, ma anche della nascita del Signore secondo la carne, e perciò celebrato come solennità dell’uno e dell’altro mistero non in due giorni distinti, come avviene nelle province dell’Occidente, ma in un unico giorno, ebbene, in quella ricorrenza vengono inviate delle lettere da parte del vescovo di Alessandria a tutte le chiese dell’Egitto, con le quali viene determinato l’inizio della Quaresima e la data del giorno della Pasqua, e non solo per tutte le città, ma anche per tutti i monasteri. Secondo dunque questa consuetudine, trascorsi appena pochi giorni da quando s’era convenuto di trovarci insieme per la suddetta conferenza con l’abate Isacco, ecco giungere le predette solenni lettere di Teofilo, vescovo di quella città: in esse, oltre l’annuncio della Pasqua, egli respingeva l’inconcepibile eresia degli antropomorfiti con larga trattazione, e la distruggeva con abbondanti argomenti. Quell’intervento del vescovo fu accolto da quasi tutta la moltitudine dei monaci che allora abitavano la provincia dell’Egitto con tanta opposizione, poiché quell’errore, data la loro semplicità, era stato da essi condiviso, che, proprio per contrasto, la massima parte di quei monaci giudicò degno di condanna il vescovo, quasi fosse fuorviato da un gravissimo errore: essi ritenevano infatti che egli impugnasse il contenuto della Sacra Scrittura, in quanto negava che l’onnipotente Iddio avesse figura umana, mentre essa (la Scrittura) dichiarava invece con tutta evidenza che Adamo era stato creato a sua immagine. Del resto, anche da quei monaci che dimoravano nel deserto di Scete e superavano in perfezione e per scienza quanti vivevano nei monasteri dell’Egitto, fu respinta quella lettera a tal punto che, all’infuori dell’abate Pafnuzio, il quale era il prete della nostra congregazione, nessuno degli altri preti, preposti nel medesimo deserto alle altre chiese, permise che fosse letta o anche solo fatta conoscere. Fra coloro che erano implicati in quell’eresia vi fu un tale, di nome Serapione, uomo consumatosi da anni nell’austerità e nella continua disciplina la più completa, la cui ignoranza però, nei riguardi della dottrina già richiamata, era pregiudizievole per coloro che si mantenevano nella vera fede tanto quanto egli superava quasi tutti i monaci per i meriti della sua vita e la durata della sua santità. E poiché quel brav’uomo non si lasciava condurre sul sentiero della retta fede nonostante le molte esortazioni del santo prete Pafnuzio, sembrandogli queste esortazioni del tutto nuove, non sorrette da alcuna dottrina anteriore e tanto meno trasmesse per tradizione, accadde che un certo diacono, di nome Fotino, uomo di somma cultura, giungesse dalla parte della Cappadocia, indotto dal desiderio di vedere i fratelli che dimoravano in quel medesimo deserto. Il beato Pafnuzio lo accolse con incredibile piacere e, in più, lo condusse in mezzo a tutti quei fratelli, desideroso di vedere confermata quell’enunciazione di fede così com’era stata esposta dal predetto vescovo di Alessandria. Perciò gli chiese in che senso le chiese di tutto l’Oriente interpretavano quelle parole della Genesi, in cui è detto: “Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza” (Gn 1, 26). Fu allora che Fotino spiegò che i termini “immagine e somiglianza” di Dio non erano interpretati da tutti i capi delle chiese secondo l’umile senso letterale, ma in senso spirituale, e dimostrò tale dottrina con larghe dichiarazioni e con larghissime testimonianze della Scrittura, affermando che non si poteva attribuire a quell’immensa, incomprensibile e invisibile maestà, nulla che si riferisse a qualche composizione e similitudine umana, in quanto la natura divina non risulta composta, ma del tutto semplice: in più, poiché essa non può essere visibile agli occhi, neppure potrà essere penetrata dalla mente dell’uomo. Fu così che finalmente il vecchio, persuaso dai molti motivi addotti da quell’uomo dottissimo, s’indusse ad adottare la fede della tradizione cattolica. Al termine di quel colloquio, e proprio per l’adesione alla vera fede del vecchio, un’illimitata letizia riempì di gioia l’abate Pafnuzio e tutti noi, appunto perché il Signore non aveva permesso che quell’uomo così avanzato negli anni e così ripieno di tante virtù, fuorviato a causa della sua ignoranza e della sua rustica semplicità, deviasse fino all’ultimo della sua vita dalla via della fede retta; e così, alzatici tutti in piedi a scopo di ringraziamento, elevammo preghiere al Signore tutti insieme. Il vecchio Serapione però, durante quella preghiera, si ritrovò talmente confuso di mente, dato che avvertiva distolta ormai dal suo cuore l’immagine umana della divinità quale sempre egli era solito raffigurarsela durante le sue orazioni, che scoppiò in un pianto amarissimo e in frequenti singhiozzi al punto che, gettatosi a terra, proruppe in singulti assai forti fino ad esclamare: “Misero me! Hanno tolto via da me il mio Dio, e così io non so più a chi rivolgermi e non so più chi adorare e chi chiamare in mio aiuto!”. Noi, assai commossi per quanto stava accadendo, ed anche perché persisteva ancora nel nostro cuore l’effetto efficace della precedente conferenza, ritornammo dall’abate Isacco, e non appena gli fummo vicini, lo intrattenemmo nel seguente colloquio. «Sebbene, al di fuori della novità degli ultimi eventi, ci stimolasse il desiderio, promosso dalla precedente conferenza sulla natura della preghiera, di avvicinarci alla tua beatitudine, ponendo da parte ogni altro interesse, tuttavia s’aggiunse in noi, a questo desiderio, anche il grave errore dell’abate Serapione, certamente insinuato in lui, come noi supponiamo, dalla scaltrezza del perfido demonio. Non è poca l’amarezza, da cui ci sentiamo presi, considerando che quel monaco, a causa di una colpa dovuta alla sua ignoranza, non solo aveva perduto il frutto di fatiche così laboriose, affrontate tanto lodevolmente per ben cinquant’anni in quel deserto, ma che era incorso perfino nel rischio di meritare una morte eterna. Ne segue allora che noi desideriamo sapere anzitutto da quale origine e per quale causa un errore così grave abbia potuto insinuarsi. In secondo i luogo ti chiediamo di farci conoscere in che modo noi possiamo giungere al grado di preghiera, di cui in precedenza, non solo copiosamente, ma anche magnificamente tu hai parlato, Quell’ammirevole tua conferenza ha prodotto finora in noi soltanto dell’ammirazione da parte del nostro animo, ma non ci ha indicato in quale modo noi potremo realizzare quel processo in misura completa». ISACCO: «Non v’è alcuna meraviglia che un uomo assai semplice e, per di più, mai molto istruito in rapporto all’essenza e alla natura della divinità, abbia potuto divenire vittima, fino al momento presente, della sua semplicità e della continuità di quell’antico errore, e, in più, per parlare con maggiore sincerità, abbia potuto persistere in quel suo primo errore: egli non fu un bersaglio recente dei demoni, come voi credete, quanto piuttosto una vittima, sorpresa nelle reti dell’antica paganità, dato che secondo la consuetudine di quell’errore, per l’influenza del quale i pagani onoravano i demoni, rappresentandoli con figure umane, pure al presente si crede che quella incomparabile e ineffabile maestà del vero Dio debba essere adorata nella figura di qualche immagine; essi vivono nella convinzione di nulla considerare come viva realtà, se non hanno davanti ai loro occhi qualche immagine, alla quale affidarsi continuamente allorché si mettono a pregare, e così se la rechino alla mente e riescano a contemplarla, sempre tenendola avanti al loro sguardo. Ed è proprio a quest’errore che viene diretta la seguente sentenza: “Hanno cambiato la gloria dell’incorruttibile Iddio con l’immagine e la figura dell’uomo corruttibile” (Rm 1, 23). Anche Geremia così si esprime: “Il mio popolo ha cambiato la sua gloria in un idolo” (Ger 2, 11). E benché un tale errore risulti favorito dalle credenze di certi pagani, di cui ho già riferito, nondimeno venne condiviso anche dalla mente di coloro che mai erano stati toccati dalle superstizioni dei gentili, e questo sotto il pretesto di quella testimonianza che così si esprime: “Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza” (Gn 1, 26), e ne fu causa l’ignoranza e la rusticità. Ne seguì allora che, sotto l’impulso di quella detestabile interpretazione, nacque l’eresia cosiddetta degli antropomorfiti, la quale persiste con pertinace perversità nel rappresentare l’immensa e semplice essenza della divinità come una risultanza dei nostri lineamenti e della figura umana. Pertanto, se uno è stato istruito nella dottrina cattolica, detesterà quella eresia come una bestemmia propria dei pagani, e così perverrà a quella purissima espressione di orazione, la quale, nella sua formulazione, non solo esclude ogni figurazione della divinità in lineamenti corporei, il che, anche solo a dirlo, è nefando, ma neppure conserverà il ricordo di qualche parola o la rappresentazione di qualche fatto o la forma di qualsiasi figura umana. Infatti, secondo la misura della sua purezza, ogni anima, come ho già dimostrato nella mia precedente conferenza (al cap. 8), si eleva nella sua preghiera e si forma, vale a dire, tanto si distacca dalla visione delle cose terrene e materiali quanto il grado della sua purezza la induce a progredire, e così essa riuscirà a contemplare Gesù con il suo sguardo interiore, com’era umile nella sua carne oppure com’è già nella sua gloria o anche nell’atto di venire nella sua maestà. Infatti non potranno contemplare Gesù, allorché Egli verrà nella maestà del suo regno, coloro i quali, ancora trattenuti in un certo modo in quella infermità giudaica, non possono dichiarare con l’Apostolo: “E anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più così” (2 Cor 5, 16). Al contrario, potranno contemplare la sua divinità con occhi purissimi quelli soli i quali, distogliendosi dalle opere umili e terrene e da simili pensieri, si collocano accanto a Lui nell’alto monte della solitudine; quell’altezza, libera com’è dal tumulto di tutti i pensieri e perturbazioni terrene, e al sicuro dall’influsso di tutti i vizi, posta com’essa è in alto per effetto di una fede purissima e dell’eminenza delle virtù, rivela la gloria del suo volto e l’immagine del suo splendore a coloro che meritano di contemplarlo con lo sguardo dell’anima. Del resto Gesù è visto pure da coloro che abitano nelle città, nei castelli, nei villaggi, vale a dire da coloro che si trovano coinvolti nell’abituale attività operosa, non però in quello splendore, con il quale Egli apparve a coloro in grado di ascendere con Lui al suddetto monte delle virtù, e cioè a Pietro, a Giacomo e a Giovanni (Mt 17, 1). In questa forma infatti, nella solitudine, apparve a Mosè (Es 3, 2) e parlò ad Elia (1 Re 19, 9 ss.). Pertanto, volendo Nostro Signore confermare tutto questo e intendendo lasciare a noi gli esempi di una perfetta purezza e, in più, pur essendo Egli la fonte d’una inviolabile santità, senza il bisogno, per ottenerla, dell’aiuto d’una segregazione e del beneficio d’una solitudine esteriore (di fatto, la sua pienezza non avrebbe potuto essere macchiata da alcuna influenza, né essere contaminata da alcun contatto umano, Egli che tutto purifica e santifica), tuttavia salì “sul monte tutto solo a pregare” (Mt 14, 23), e così, con l’esempio del suo ritiro, Egli ci insegnò, qualora volessimo anche noi pregare Dio con l’affetto puro e integro del nostro cuore, a ritirarci in solitudine, lontani, in modo simile, dalla confusa inquietudine delle folle in modo che, pur dimorando noi ancora nel corpo, possiamo conformarci in qualche parte alla somiglianza di quella beatitudine promessa in vista della vita futura, e così, per noi, “Dio sia tutto in tutti” (1 Cor 15, 28). Allora infatti si realizzerà perfettamente in noi questa preghiera del nostro Salvatore, con la quale Egli si rivolse al Padre, dicendo: “… affinché l’amore, con il quale mi hai amato, sia in essi, ed essi in noi” (Gv 17, 26), come pure: “.. .perché tutti siano una cosa sola, come tu, Padre, sei in me ed io in te, così anch’essi siano una cosa sola in noi” (Gv 17, 21). È allora dunque che si realizzerà quell’amore perfetto di Dio, con il quale Egli “ci ha amati per primo” (1 Gv 4, 10.19) quando esso si trasferirà nell’intimo del nostro cuore, per il compimento di quella preghiera del Signore, la quale noi crediamo che in nessun modo possa essere mortificata. E tutto questo avverrà appunto in questo modo, allorché Dio diverrà ogni nostro amore, ogni nostro desiderio, ogni nostro motivo, ogni nostro sforzo, ogni nostro pensiero, tutta la nostra vita, ogni nostro discorso, ogni nostra aspirazione; e quella unità, che ora è del Padre con il Figlio e del Figlio con il Padre, sarà trasferita nei nostri sentimenti e nella nostra mente, ed è quanto dire che, come Egli ci ama con sincera e pura e indissolubile carità, così pure noi dobbiamo congiungerci a Lui con perpetuo e inseparabile amore al punto che, una volta uniti a Lui, si trasmuti in Dio quello a cui aspiriamo, quello che comprendiamo, quello di cui parliamo, in modo da arrivare, ripeto, al fine già da noi indicato e che il Signore stesso, pregando, desidera che sia raggiunto in noi: “…che tutti siano una cosa sola, io in essi e tu in me, affinché siano anch’essi perfetti nell’unità” (Gv 17, 22-23); e ancora: “Padre, voglio che quelli che tu mi hai dati, siano anch’essi dove sono io, con me” (Gv 17, 24). Questo dunque dev’essere l’impegno dell’uomo solitario, questa dev’essere ogni sua intenzione, quella di meritare di possedere già in questo suo corpo l’immagine della futura beatitudine e, in un certo modo, di cominciare a pregustare, in questo suo piccolo vaso, l’anticipo della vita e della gloria celeste. Questo, ripeto, è il fine di tutta la perfezione, che l’anima, rimosso ogni peso dalla carne, tenda ogni giorno verso la meta dello spirito, finché ogni sua attività e ogni movimento del suo cuore divenga una sola e continua preghiera». GERMANO:«All’ammirazione suscitata in noi dalla precedente conferenza, che fu il motivo della nostra decisione di venire qui, s’aggiunge ora la grandezza della meraviglia. In realtà, quanto noi ci sentiamo infiammati dall’incitamento di questa dottrina per il desiderio della perfetta beatitudine, tanto più ci sentiamo depressi a causa della grave difficoltà di raggiungerla, poiché noi ignoriamo in che modo potremo affrontare e attuare le esigenze per tanta sublimità. Pertanto, le cose che noi, durante il nostro soggiorno in cella, abbiamo iniziato a considerare con lunga meditazione, cerchiamo ora di chiarirle appuntoperché sappiamo che tu sei solito non inquietarti per le piccole questioni dei più deboli, le quali, proprio per questo motivo debbono essere portate in chiaro per essere corrette nel caso che esse risultassero addirittura assurde. Da quanto dunque risulta dalle nostre convinzioni, la perfezione d’ogni arte e disciplina necessariamente si forma tenendo presenti dall’inizio certi rudimenti semplici e assai facili in modo che l’anima, nutrita a poco a poco, in un certo qual modo, di latte spirituale, e così formatasi, sia poi in grado di crescere e di salire sensibilmente e gradatamente dai gradini inferiori a quelli più elevati; una volta impadronitasi dei principi più positivi, e quindi superate le porte della professione bramata, essa perverrà pure nei penetrali della perfezione e, per conseguenza, e senza fatica, agli alti fastigi della perfezione stessa. E in realtà, come potrebbe un qualsiasi fanciullo pronunciare la successiva unione delle sillabe, se prima egli non avrà imparato il carattere delle singole lettere? E come potrà egli raggiungere la premessa perizia nel leggere, se non sarà ancora in grado di associare le brevi e strettissime parti di una parola? Con quale risultato potrà egli esercitare l’eloquenza tutta propria della retorica, e anche la scienza della filosofia, se prima non diverrà esperto nella disciplina grammaticale? Pertanto io non dubito che anche per questa sublimissima disciplina, per la quale veniamo resi edotti nei confronti di Dio, preesistono certi fondamenti istituzionali, per i quali, una volta che essi risultino assai bene assicurati, in un secondo tempo, restino elevati gli eccelsi fastigi della perfezione, ad essi sovrapposti. Poste dunque tali premesse, noi desideriamo conoscere con quali criteri, anzitutto, sia raggiunto il pensiero di Dio, e poi, in secondo luogo, con quali mezzi sia costantemente mantenuto in noi quel pensiero in qualunque modo sia stato formato in noi, poiché non v’ha dubbio che esso costituisce il culmine della perfezione. Appunto per questo noi desideriamo che ci venga indicata una qualche soluzione in vista del principio suddetto, per effetto del quale viene concepito e mantenuto nella mente il pensiero di Dio, in modo che, avendolo presente ininterrottamente davanti ai nostri occhi, non appena ci accorgeremo d’aver deviato al di fuori, subito provvediamo per ritornare ad esso e così possiamo essere in grado di riprendere quel pensiero senza dilazione per nuove ricerche e senza difficoltà di indagini ulteriori. Avviene infatti che noi, una volta distratti dalla visione spirituale, ci rivolgiamo in noi stessi come riprendendoci da un sopore mortale; sicché, come risvegliandoci, cerchiamo di riprendere quello stato, nel quale ci sia permesso di rivivere il ricordo della visione spirituale in noi assopita, ritardati però, come ci ritroviamo, a causa dello stesso indugio della ricerca; così però, prima di ritrovarla, saremo distolti nuovamente dal nostro tentativo, e, prima che sia rinnovata in noi la visione spirituale di prima, finirà per svanire la stessa tensione del nostro animo. È abbastanza sicuro che una tale confusione avviene in noi proprio perché non usufruiamo in maniera stabile, per i nostri occhi, di un apparato speciale al modo di un procedimento al quale il nostro animo, in preda alle divagazioni, possa essere revocato anche dopo molte tortuosità e vari aggiramenti, e così riesca a entrare dopo molti naufragi come nel porto della tranquillità. Accade così che la nostra mente, continuamente ostacolata dall’ignoranza e per effetto della difficoltà stessa, sempre errabonda e come ebbra, venga sbalzata di qua e di là, e così non trattenga per sé, a lungo e fermamente, qualche elemento di natura spirituale che, sia pur per caso e non per suo impegno, le avvenga d’incontrare, al punto che, mentre essa, accogliendo in continuità un pensiero dopo l’altro, non avverte il loro primo arrivo, così non avverte neppure il loro disparire». ISACCO: «La vostra ricerca, così minuziosa e così sottile, tradisce l’indizio della vostra prossimità a raggiungere la purezza. Inrealtà nessuno sarebbe in grado, non dico di porre almeno certi quesiti, ma tanto meno di esaminare e di scrutare a fondo tali questioni, a meno che un diligente ed efficace impegno della mente e una vigilantissima sollecitudine non lo inducesse ad indagare la profondità di questi argomenti, e la pratica continua di una vita castigata non lo spingesse, attraverso un’attiva esperienza, a raggiungere le soglie di quella purezza e a bussare alle sue porte. Pertanto, poiché io vedo che voi già vi trovate, non già alle porte della vera preghiera, già da noi ormai delineata, ma che ne penetrate i misteri più intimi con la pratica della vostra esperienza, e già ne attingete certi segreti, ecco allora che io non credo di dovermi troppo adoperare, con l’aiuto del Signore, per introdurvi fin dentro l’aula della preghiera, dato che voi già movete i vostri passi un po’ dubbiosi nella sua prossimità, e nemmeno dovrò adoperarmi per ritardarvi, a causa di qualche difficoltà, dall’apprendere a fondo quello che dovrà esservi manifestato. Di fatto è ormai vicino alla conoscenza colui che, con previdenza, si rende conto di quello che egli intende indagare, e neppure è lontano dalla conoscenza colui che già ha cominciato a comprendere quello che prima egli ignorava. Per questo io non temo d’incorrere in una colpa di eccesso o di leggerezza, se vi manifesterò quanto nella precedente conferenza sulla perfezione della preghiera ho lasciato in disparte: per voi, ormai così saldi in questo impegno tanto preciso, io pensavo che esso dovesse esservi rischiarato con la grazia di Dio anche senza il mio intervento. Per questo voi avete richiamato con tutta convenienza la formazione alla preghiera in rapporto all’istruzione dedicata ai fanciulli: essi infatti non possono apprendere in altro modo la prima cognizione degli elementi relativi alla lettura, e neppure a ripeterne, scrivendo, i lineamenti, come pure a riscriverne i caratteri con mano sicura, se prima non si abituano a osservare con considerazione continuata e quotidiana imitazione la loro figura nei prototipi e nei segni già impressi diligentemente della cera; al modo stesso è necessario comunicare a voi il modulo della dottrina spirituale, al quale, dirigendo in continuità e assai tenacemente il vostro sguardo, impariate a coltivarla salutarmente con ininterrotta prosecuzione, e così possiate, con quel ricorso e con la sua meditazione, risalire a visioni ancora più elevate. Per voi dunque sarà proposta come formula di questa disciplina e di questa preghiera, da voi richiesta, quella che ogni monaco, allo scopo di tendere al continuo ricordo di Dio, deve abituarsi a coltivare con una continua ripresa da parte del cuore e dopo avere espulsa la varietà di tutti gli altri pensieri, poiché egli non potrà applicarvisi in altro modo, se prima non si sarà liberato da tutte le preoccupazioni e sollecitudini corporali. Tale esperienza, come a noi è stata trasmessa da quei pochi che, tra gli antichissimi padri sono sopravvissuti, così pure da noi essa non viene proposta, se non a pochissimi, realmente sitibondi di accoglierla. Pertanto sarà da noi suggerita a voi, conseguentemente, questa formula di vera pietà, allo scopo di raggiungere un continuo ricordo di Dio: “O Dio, vieni in mio aiuto; Signore, vieni presto ad aiutarmi” (Sal 69, 2). Di fatto, questo breve versetto, non senza motivo, è stato particolarmente ripreso da tutto il complesso della Scrittura. Essa riflette tutti i sentimenti, di cui può essere capace la natura umana, e si adatta con sufficiente proprietà e convenienza ad ogni stato e a tutte le tentazioni. E in realtà questo versetto contiene l’invocazione a Dio di fronte a tutte le difficoltà, contiene l’umiltà d’una pia confessione, contiene la vigilanza in vista d’ogni sollecitudine e timore, la fiducia d’essere esauditi, la confidenza d’un aiuto sempre presente e disponibile. E di fatto, chi sempre invoca il proprio protettore, è sicuro che quello è sempre presente. Questo versetto contiene l’ardore dell’amore e della carità, ha la visione delle insidie e la paura dei nemici, dai quali l’anima, osservando se stessa, ammette giorno e notte di non poter essere liberata senza l’aiuto del proprio protettore. Questo versetto è un muro inespugnabile, una corazza impenetrabile e uno scudo ben sicuro per tutti coloro che sostengono gli attacchi dei demoni. Esso non ammette che disperino dei rimedi per la loro salvezza coloro che vengono a trovarsi in preda all’accidia, all’ansietà dell’animo e alla tristezza, o comunque depressi, poiché dichiara che colui che viene invocato osserva costantemente le nostre lotte e non è lontano da chi lo invoca. Questo versetto ci ammonisce a non doverci insuperbire troppo per i successi del nostro spirito e per la letizia del nostro cuore, e a non gonfiarci nei momenti della prosperità, visto che non è possibile, com’esso attesta, perseverare in quello stato senza la protezione di Dio, dato che esso non è soltanto un’espressione di continua preghiera, ma anche una supplica per essere aiutati al più presto. Questo versetto, ripeto, risulta necessario e utile per chiunque di noi venga a trovarsi in qualsiasi occorrenza. E in realtà chi desidera d’essere aiutato sempre e in ogni caso, dichiara che non solo ha bisogno di un coadiutore nei casi duri e tristi, ma anche, e in ogni modo, in quelli favorevoli e lieti, sicché, come desidera di essere salvato da quelli, così pure brama di perseverare in questi, ben sapendo che in un caso come nell’altro non potrebbe persistere senza l’intervento del suo protettore. Mi sento preso dalla passione della gola al punto di cercare i cibi ignorati nel deserto, e in questa squallida solitudine mi raggiungono i profumi delle mense regali, ed io mi accorgo di venire trascinato dalla loro voglia pur contro la mia volontà risoluta, ebbene, proprio allora occorre che io dica: “O Dio, vieni in mio aiuto; Signore, vieni presto ad aiutarmi”. Sono indotto ad anticipare l’ora della refezione prescritta, oppure debbo sforzarmi a mantenere la misura della giusta e solita parcità, ebbene, anche allora, io devo esclamare, gemendo: “O Dio, vieni in mio aiuto; Signore, vieni presto ad aiutarmi”. La stanchezza dello stomaco, come pure la secchezza costrittiva dell’intestino tenderebbero a distogliermi da digiuni alquanto stretti, pur dovendo io attenermi ad essi, a causa degli assalti della carne; e allora, affinché il buon effetto venga attribuito ai miei desideri ed anche, con certezza, affinché gli ardori della concupiscenza carnale si acquietino senza ricorrere all’intervento di digiuni più rigorosi, io dovrò pregare così: “O Dio, vieni in mio aiuto; Signore, vieni presto ad aiutarmi”. Apprestandomi alla refezione, allorché s’avvicina l’ora stabilita, sento ripugnanza per il pane e provo disgusto per ogni cibo suggerito dal bisogno della natura; è allora che mi conviene pregare, gemendo: “O Dio, vieni in mio aiuto; Signore, vieni presto ad aiutarmi”. Anche quando vorrei insistere nella lettura allo scopo di assicurare la stabilità del cuore, ecco subito intervenire a proibirmelo il mal di capo, così come all’ora terza il sonno mi fa piegare la testa sulle sacre pagine, tanto da essere indotto a superare e a prevenire il tempo destinato al riposo, infine l’assalto impietoso del sonno mi costringe a interrompere la funzione canonica fissata per la sinassi e la recita dei salmi, ecco allora il bisogno di pregare così: “O Dio, vieni in mio aiuto; Signore, vieni presto ad aiutarmi”. Ma può anche accadere che, sparito il sonno dai miei occhi, io veda me stesso, in molte notti, affaticato da diaboliche insonnie, e scorga escluso dalle mie palpebre ogni mistero arrecato dalla quiete notturna; occorre allora pregare, così sospirando: “O Dio, vieni in mio aiuto; Signore, vieni presto ad aiutarmi”. Nell’età, in cui ancora mi trovo con la lotta sostenuta contro i vizi, ecco d’improvviso assalirmi la pressione della carne, la quale, mentre sono assopito nel sonno, mi spinge al consenso col suo blando compiacimento, e allora, per evitare che quell’ardore intacchi i fiori olezzanti della castità, occorre che io preghi fino a gridare: “O Dio, vieni in mio aiuto; Signore, vieni presto ad aiutarmi”. Avverto estinti in me gli incentivi della libidine e già soffocato dalle mie membra l’ardore della carne; allora, affinché questa virtù così affiorata, o meglio, affinché la grazia di Dio duri in me a lungo o addirittura perseveri sempre, dovrò pregare intensamente proprio così: “O Dio, vieni in mio aiuto; Signore, vieni presto ad aiutarmi”. Ed ecco sentirmi sorpreso dagli stimoli dell’ira, dell’avidità, della tristezza, fino ad essere indotto a vincere la mia decisa favorevole discrezione; allora, per non essere condotto fino all’amarezza del fiele dall’incursione dell’eccitazione, dovrò così pregare con alti gemiti: “O Dio, vieni in mio aiuto; Signore, vieni presto ad aiutarmi”. Ed eccomi assalito dall’introdursi, in me, del disgusto, della vanagloria e dell’orgoglio; il mio animo risulta suggestionato in qualche modo da sottili insinuazioni, dettate dalla negligenza e dal torpore degli altri; allora, affinché in me non prevalga una tale dannosa suggestione provocata dal demonio, dovrò pregare così con tutta la contrizione del cuore: “O Dio, vieni in mio aiuto; Signore, vieni presto ad aiutarmi”. Una volta represso il tumore della mia superbia, ho ottenuto la grazia dell’umiltà e della semplicità con il soccorso di una continua compunzione dello spirito, ma allora, “affinché di nuovo non mi raggiunga il piede dell’orgoglio e non mi rimuova la mano del peccatore” (Sal 35, 12), e così io non resti nuovamente e più gravemente provocato dalla mia vittoria a causa dell’orgoglio, con tutta la mia forza così pregherò: “O Dio, vieni in mio aiuto; Signore, vieni presto ad aiutarmi”. Mi sento agitato da strane e innumerevoli divagazioni dell’animo e dall’instabilità del cuore, e nemmeno riesco a dominare la dispersione dei miei pensieri; non ce la faccio a esprimere le mie orazioni senza l’interruzione dovuta all’apparizione di vuote fantasie e senza l’inserirsi del ricordo delle mie parole e delle mie azioni, e così io finisco per sentirmi gravato dall’aridità di una tale sterilità al punto da convincermi di non essere più in grado di produrre qualche effetto sicuro di valore spirituale, allora, per poter meritare di essere liberato da questo squallore del mio animo, visto che non mi sarebbe possibile sollevarmi da tale stato con molti gemiti e sospiri, necessariamente esclamerò: “O Dio, vieni in mio aiuto; Signore, vieni presto ad aiutarmi”. Mi rendo conto d’essermi assicurata nuovamente la direzione della mia anima, la stabilità dei miei pensieri, la snellezza del mio cuore, unitamente a una gioia ineffabile e al trasporto del mio spirito, e tutto questo come frutto della visita dello Spirito Santo; in più, dall’esuberanza dei pensieri spirituali e per una illuminazione pressoché repentina del Signore, ho avvertito in me la sovrabbondanza della rivelazione di concezioni, in precedenza per me del tutto occulte, allora, affinché io meriti di perseverare a lungo in questo stato, sento il dovere di esclamare sollecitamente e frequentemente: “O Dio, vieni in mio aiuto; Signore, vieni presto ad aiutarmi”. Mi sento agitato di notte, perché sono assediato dal terrore proveniente dai demoni, e mi trovo nell’inquietudine per l’apparizione di fantasmi ad opera degli spiriti immondi; mi vedo sottratta la speranza stessa della mia salvezza e della mia vita per l’orrore prodotto in me dalla trepidazione, allora mi rifugio nel porto salutare di quel versetto ed esclamo con tutta la mia forza: “O Dio, vieni in mio aiuto; Signore, vieni presto ad aiutarmi”. Ed ecco di nuovo, allorché mi sento come rianimato dalla consolazione del Signore, e come ravvivato per la sua venuta, mi pare di ritrovarmi come circondato da migliaia di angeli senza numero; avviene allora che di quegli spiriti maligni, dei quali in precedenza io temevo la presenza più gravemente della morte stessa, e il cui contatto, anzi, la sola vicinanza mi riempiva d’orrore l’anima e il corpo, improvvisamente oso adesso richiamarli e provocarli perché mi assalgano, ma perché perseveri a lungo in me il vigore di una tale costanza per la grazia del Signore, mi è doveroso esclamare con tutte le forze: “O Dio, vieni in mio aiuto; Signore, vieni presto ad aiutarmi”. Ne segue quindi che noi dobbiamo continuamente elevare la preghiera di questo versetto nelle circostanze avverse per esserne liberati, e nelle circostanze propizie per essere conservati e per non inorgoglirci. Lo ripeto, la meditazione di questo versetto si svolga senza tregua nella tua anima. Non desistere mai di richiamarla in qualunque momento della tua attività, nell’operare come nel camminare. Procura di meditarla quando dormi, quando riposi, e perfino quando ti occupi per attendere alle più importanti necessità della vita. Questa riflessione del cuore, divenuta per te un procedimento salutare, ti conserverà illeso non soltanto da ogni incursione diabolica, ma, in più, purificandoti da tutti i vizi propri del contagio terreno, ti condurrà alle visioni invisibili e celesti, e ti promuoverà a un ardore di orazione ineffabile e riservata a pochi. Per chi medita questo versetto, irrompe il sonno, ma, una volta ammaestrato da un tale incessante esercizio, egli si abituerà a ripeterselo anche durante il sonno. E quando poi tu ti alzi, esso ti si presenterà per primo; esso, quando tu ricominci la tua giornata, precederà tutti i tuoi pensieri; esso, nell’alzarti dal letto, ti indurrà a inginocchiarti, e così ti disporrà a riprendere tutte le tue occupazioni; esso ti accompagnerà in ogni momento. Voi dunque mediterete quelle parole, conformandovi al precetto del legislatore (Mosè): “Quando stai seduto in casa tua e quando camminerai per via” (Dt 6, 7), come pure quando dormirai e quando ti alzerai. Tu lo scriverai sul limite e sulle pareti della tua bocca, e le inciderai sulle pareti di casa tua e nei penetrali del tuo cuore, in modo che, disponendoti alla preghiera, esse ti siano come un tema ricorrente, e, alla fine della tua orazione, nell’accingerti a tutte le necessarie attività della vita, una sicura e continua preghiera. L’anima, pertanto, mantenga senza tregua la formula di quella preghiera, finché, con la sua incessante utilizzazione e la continua meditazione, ricacci l’abbondanza di tutti i pensieri e il loro contenuto, fino ad annullarli, e così l’anima, rifugiatasi nei limiti di quel versetto, con ben disposta facilità pervenga a quella beatitudine evangelica, la quale, tra le altre beatitudini, tiene il primo posto. Così infatti è detto: ‘Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli” (Mt 5, 3). E così chiunque sarà divenuto un illustre povero per effetto di quella povertà, potrà avverare quella parola del profeta: “Il povero e l’indigente loderanno il nome del Signore” (Sal 73, 21). E in realtà, quale povertà potrebbe essere più grande e più santa di quella di colui il quale, essendo convinto di non possedere né sussidi né forze, chiede aiuto ogni giorno alla generosità degli altri e, in più, persuaso com’egli è che la sua vita e tutto il suo essere viene sostenuto in ogni momento dall’aiuto divino, confessa giustamente di essere un vero mendico del Signore al punto di esclamare ogni giorno, rivolto a Lui: “Io sono un mendicante e un povero: di me ha cura il Signore?” (Sal 39, 18; LXX). Avverrà così che egli, risalendo fino alla multiforme scienza di Dio per l’illuminazione stessa da Lui ispirata, incomincerà a saziarsi dei misteri più alti e più profondi, secondo quanto è annunciato dal profeta: “I monti sono per i cervi e le rocce sono un rifugio per gli iràci” (Sal 103, 18). Questo testo s’adatta con proprietà al senso già da noi indicato, in quanto chiunque, perseverando nella sua semplicità e innocenza, non è dannoso e molesto a nessuno; al contrario, soddisfatto unicamente, com’egli è, della propria semplicità, desidera soltanto difendersi dall’audacia degli spiriti insidiatori; divenuto simile all’iràcide, ne esce protetto dal costante riparo della roccia evangelica, ed è come dire che egli, forte per il ricordo della passione del Signore e per la meditazione assidua del versetto già richiamato, affronta vittoriosamente il nemico che lo assale. Di questi iràci spirituali si trova un accenno anche nei Proverbi: “Gli iràci, popolo imbelle, che ha costruito sulle rupi le proprie case” (Pr 30, 26;LXX). E in realtà, che cosa v’è di più debole d’un cristiano, più infermo d’un monaco, al quale non solo mancano i mezzi per vendicare le ingiurie ricevute, ma nemmeno gli è concesso di concepire, sia pure internamente, una pur leggera e tacita reazione? Ognuno, del resto, movendo da questo stato, non solo possiede la semplicità dell’innocenza, ma, fortificatosi con la virtù della discrezione, è divenuto uno sterminatore di serpenti velenosi fino a tenersi il vinto Satana sotto i propri piedi, e allora, giunto a rappresentare la figura di un cervo razionale in virtù dell’alacrità della propria mente, egli potrà pascersi sui monti dei profeti e degli apostoli, ed è come dire che egli si pascerà dei loro eccelsi e sublimissimi insegnamenti. Egli dunque, alimentato da un tale costante nutrimento, comincerà a raccogliere in se stesso tutti i sentimenti contenuti nei Salmi e li riesprimerà in modo da enunciarli, non come composti dal profeta, ma quasi come prodotti da lui stesso al modo di una preghiera tutta propria, nata dalla profonda compunzione del cuore, e così egli crederà che i salmi siano stati creati in vista della sua persona, fino a convincersi che le loro sentenze non furono formulate in passato unicamente per mezzo del profeta e in vista del profeta, ma che esse vengano di volta in volta, ogni giorno, ricreate e realizzate in lui. E allora che le Scritture divine ci appaiono con maggiore chiarezza e, in un certo qual modo, ci aprono le loro vene e le loro viscere, appunto quando la nostra esperienza personale non solo avverte, ma ne previene la conoscenza, e così noi finiremo per intuire non solo il senso delle parole con l’aiuto di qualche esposizione, ma come il frutto di un esercizio del tutto soggettivo. E di fatto, accogliendo in noi gli stessi sentimenti, con i quali è stato cantato e composto ogni Salmo, quasi ne fossimo noi stessi gli autori, finiremo per prevenire il pensiero anziché seguirlo, ed è quanto dire che noi, accogliendo il frutto delle parole prima ancora di afferrarne il senso, ricorderemo, in certo qual modo, quanto già si è compiuto in noi e si sta compiendo a causa degli assalti d’ogni giorno, e questo accade per il sopravvenire del loro ricordo; rammenteremo quello che ci ha causato la nostra negligenza, quello che ci ha apportato la divina Provvidenza e quello che ci ha sottratto l’istigazione del nemico, quello che una lubrica e sottile dimenticanza ci ha impedito e quello che la fragilità umana ci ha arrecato, come pure quello in cui la leggerezza della nostra ignoranza ci ha ingannato. E in realtà noi sorprendiamo nei Salmi proprio questi stessi sentimenti in modo che, osservandoli come se avessimo di fronte a noi uno specchio purissimo, possiamo così riconoscerli con più efficacia; ne segue allora che noi, ammaestrati da tali sentimenti, finiamo come per toccarli con mano, non come cose udite, quanto piuttosto come vedute direttamente; non come cose affidate alla memoria, quanto piuttosto come insinuate in noi dalla realtà della nostra natura, come generate dall’interno del nostro cuore, sicché noi potremo penetrare il loro senso, non derivandolo dalla lettura del testo, ma dalla nostra esperienza vissuta. E così l’anima nostra riuscirà a raggiungere quella incorruttibilità di preghiera, fino alla quale nella passata conferenza siamo ascesi, per quanto il Signore si è degnato di concederci nella disposizione dei nostri argomenti. Questa preghiera non solo non è offuscata dalla presenza di qualche immagine, ma non è distratta neppure dal succedersi di qualche voce e d’alcuna parola; al contrario, essa, infervorata dall’attenzione della mente, per effetto dell’impeto del cuore si slancia con l’inesplicabile alacrità dello spirito, e così la mente nostra, trasferita al di sopra di tutti i sensi e della materia sensibile, si eleva fino a Dio con gemiti e sospiri inesprimibili». GERMANO: «Noi dichiariamo ora che non solo è stata a noi esposta la scienza della disciplina spirituale, quale era stata da noi richiesta, ma, in più, chiaramente e lucidamente è stata richiamata la sua stessa perfezione. Che cosa infatti può esservi di più perfetto e di più sublime quanto l’abbracciare il ricordo di Dio con una riflessione così compendiosa, e il distogliersi da tutte le tendenze alle cose visibili, e, in un certo qual modo, racchiudere in una breve espressione gli affetti di tutte le preghiere? E allora noi ti preghiamo di esporci questa sola cosa che ancora ci manca, come cioè ci sia possibile conservare stabilmente quello stesso versetto, da te presentatoci come una formula, affinché, come per la grazia di Dio ci siamo liberati dalle inezie dei pensieri secolari, così pure impariamo a conservare immutabilmente i pensieri spirituali. E di fatto, non appena la nostra mente ha richiamato un versetto di qualche Salmo, insensibilmente essa, trascurato quello e come stupita, viene attratta da un altro testo delle Scritture. Poi, non appena ha cominciato a meditare fra se stessa su quel passo, ecco sorgere il ricordo di un altro passo che elimina la riflessione sul testo precedente. Avviene così che la mente si trasferisce da una a un’altra riflessione così subentrata, in modo che l’animo, volteggiandosi in continuità da un salmo a un altro, da un testo del vangelo a un testo dell’Apostolo, e, da questo, trasbordata a un testo dei profeti, e, non bastando, perfino a certi racconti spirituali, si raggira qua e là per tutto il corpo delle Scritture, senza riuscire con la propria volontà a respingere o a trattenere e nemmeno a definire con pieno esame e giudizio qualche testo, riducendosi così unicamente come a uno che palpa e degusta i sensi spirituali senza rigenerarli e possederli. Ne segue allora che la mente, mobile e vaga com’essa è, si distrae, errando di qua e di là perfino nel tempo della sinassi, e così non compie bene, come dovrebbe, nessun ufficio: per esempio, allorché essa prega, volge l’attenzione a un Salmo o a qualche lettura già fatta. Quando la funzione comporta il canto, essa medita qualche altra cosa diversa dal testo di quel salmo. Quando fa la lettura, essa si volge a quello che intende compiere o ricorda quello che ha già compiuto. In questo modo, nulla accogliendo e nulla rifiutando come comporta la disciplina e l’opportunità, essa sembra divenuta vittima di combinazioni fortuite, senza alcuna possibilità di trattenere quello di cui si diletta e, tanto meno, di indugiarvisi. Ne risulta, per noi, come una necessità di conoscere soprattutto in che modo possiamo compiere a dovere questi uffici spirituali e, in particolare, in che modo custodire quel versetto del Salmo, da te a noi assegnato come una formula di preghiera, affinché l’inizio e il termine di tutti i nostri sentimenti non divaghino in preda alla loro mobilità, ma restino assicurati al nostro volere». ISACCO: «Sebbene in precedenza, nell’esaminare lo stato della preghiera, io abbia già risposto sufficientemente, almeno per quanto a me risulta, a questa questione, dietro il vostro ripetuto desiderio, io parlerò ancora, sia pur brevemente, intorno alla stabilità del cuore. Tre sono i mezzi che rendono stabile la mente dissipata: la veglia, la meditazione e la preghiera; l’assiduità di questi mezzi e la loro intensità conferiscono all’anima una stabile fermezza. La quale fermezza in nessun altro modo potrà essere assicurata, se prima non saranno escluse interamente tutte le sollecitudini e premure della vita presente con un’infaticabile e continua dedizione al lavoro, affrontato non a scopo di lucro, ma per sovvenire alle sacre necessità del monastero, in modo da poter adempiere il precetto dell’Apostolo: “Pregate incessantemente” (1 Ts 5, 17). E in realtà prega assai poco chiunque è solito pregare solamente nel tempo in cui i suoi ginocchi sono piegati a terra. E non prega affatto chiunque, anche tenendo le ginocchia a terra, si lascia distrarre con le divagazioni del proprio cuore. Pertanto, quali noi vogliamo essere trovati nel momento della preghiera tali dobbiamo essere prima di disporci a pregare. É infatti necessario che, nel momento della preghiera, la mente si trovi nello stato in cui si trovava in precedenza: ne segue allora che essa, disponendosi a pregare, o si eleverà alle sublimità del cielo, oppure sarà trascinata alle cose della terra, vale a dire rimarrà in preda ai pensieri, in cui essa prima s’era trattenuta». Fin qui l’abate Isacco espose a noi, del tutto attenti, la seconda conferenza intorno alla natura della preghiera. La sua dottrina però intorno al versetto del Salmo sopra citato, quello che l’abate aveva detto che doveva essere ben conservato dagli esordienti, pur essendo da noi ammirato al punto da desiderare tenacemente di metterla in pratica, poiché la ritenevamo compendiosa e facile, in realtà la trovammo ben più difficile nel tradurla in atto di quanto lo fosse la pratica, con la quale in precedenza eravamo soliti scorrere per tutto il corpo delle Scritture con varie riflessioni e senza alcun impegno di particolari riferimenti. Risulta dunque che nessuno viene escluso dal raggiungere la perfezione del cuore a causa della sua imperizia in fatto di cultura, come pure risulta che la rozzezza di una persona non è di impedimento alla purezza del cuore e dell’anima, la quale, anche in modo superlativo, è accessibile a tutti, purché tutti si assicurino il sano e integro proposito della mente, inteso a raggiungere Dio con la meditazione continuata di quel semplice versetto della Scrittura. PREFAZIONE ALLA SECONDA PARTE AL VESCOVO ONORATO E AL MONACO EUCHERIO Estratto da “CONFERENZE AI MONACI“ Traduzione e note a cura di Lorenzo Dattrino, 2000, Città Nuova Editrice Mentre molti tra i santi monaci, pur essendo eruditi dal vostro esempio, riescono a stento ad imitare la misura della vostra perfezione, in virtù della quale voi risplendete in questo mondo con ammirabile fulgore come grandi luminari, tuttavia, cari e santi fratelli Onorato ed Eucherio, voi siete presi dal fascino di quei sublimi personaggi, dai quali noi tutti abbiamo ricevuto i primi elementi della vita anacoretica, e ne siete affascinati a tal punto che, di voi, uno, pur presiedendo un numeroso cenobio di fratelli, desidera che la sua comunità si adegui all’esempio di quei padri antichi, pur essendo la comunità stessa educata sull’esempio quotidiano della vostra condotta; l’altro è preso dal desiderio di recarsi in Egitto per essere testimone personale del regime di vita di quei padri; ne deriva così che egli, abbandonando questa provincia irrigidita dal rigore del freddo tutto proprio della Gallia, trasvolerebbe, come una tortorella castissima, verso quelle terre che il sole della giustizia illumina da vicino, con l’abbondanza di frutti ben maturi. E allora la spinta della carità mi ha indotto a non sottrarmi al rischio temibile di scrivere, sia per rispondere al desiderio dell’uno, come pure per non sottrarmi alle fatiche dell’altro, e questo poiché al primo sia accresciuta la sua autorità presso i suoi figli, al secondo perché sia risparmiata la necessità di una navigazione così rischiosa. Pertanto, perché non poterono soddisfare del tutto la vostra fede e il vostro fervore le Istituzioni cenobitiche da me redatte in dodici Libri nello stile che mi è riuscito e dedicate alla beata memoria del vescovo Castore, così come pure non furono di vostra piena soddisfazione le dieci Conferenze tenute dai Padri dimoranti nel deserto di Scete, da me elaborate, come mi fu possibile, per invito di Elladio e di Leonzio, ecco che ora, anche perché vi sia noto il viaggio da noi compiuto, ho creduto di dovervi dedicare queste ulteriori sette Conferenze, proposte con il medesimo stile in un’altra sede eremitica da parte di tre Padri ivi dimoranti 1, e che noi incontrammo per primi. Sarà così possibile supplire a quello che, intorno alla perfezione, è stato forse, nei precedenti opuscoli, a causa del mio stile un po’ oscuro, mal compreso o dimenticato. Se poi anche queste Conferenze non potranno saziare la santa sete delle vostre aspirazioni, sette ulteriori Conferenze, che io mi propongo di inviare ai santi confratelli che dimorano nelle isole Stecadi 2, appagheranno, come io suppongo, i vostri desideri. 1 Allusione alle sedi anacoretiche sorte nei pressi di Panefisi. 2 Nome antico delle isole Hycres, poste a Sud della città dallo stesso nome (Francia meridionale). PRIMA CONFERENZA DELL’ABATE CHEREMONE LA PERFEZIONE Indice dei capitoli I. La città di Tenneso. I – La città, di Tenneso La nostra vita monastica incominciò in un monastero di Siria. Là imparammo i primi elementi della fede e facemmo qualche progresso; ben presto però sentimmo il desiderio di una perfezione più alta e decidemmo di recarci in Egitto. Volevamo giungere fino al deserto lontano della Tebaide, per visitare il più gran numero possibile di quei santi monaci di cui la fama aveva sparso il nome per tutta la terra. Ci sospingeva a questa impresa il desiderio di conoscere questi santi uomini; se non proprio quello di gareggiare con loro in santità. Alla fine della navigazione giungemmo ad una città egiziana chiamata Tenneso. Essa è circondata dalle acque: da una parte ha il mare, dall’altra laghi salati. I suoi abitanti, non avendo terra da coltivare, si danno alla mercatura: tutta la loro ricchezza nasce dal commercio marittimo. Hanno sì poca terra che quando vogliono costruire delle abitazioni, sono costretti a portarla di lontano con le navi. II – II vescovo Archebio Noi arrivammo quando il Signore, sempre benevolo ai nostri voti, faceva giungere pure il vescovo Archebio. Egli era uomo di grande santità, ammirabile in tutto. Quantunque lo avessero strappato alla vita anacoretica per farlo vescovo di Panefisi, egli conservò sempre la più stretta fedeltà alla vita monastica. Nessuno lo vide mai abbandonare, sia pure per poco, la sua primitiva umiltà, nessuno lo vide compiacersi della dignità vescovile. Egli credeva di essere stato eletto a quell’ufficio, non già perché lo avevano trovato degno, ma perché avevano voluto cacciarlo dal monastero, come indegno di continuare ancora la vita monastica. La sua colpa — egli affermava — consisteva in questo: in trentasette anni che era stato nel deserto non aveva saputo raggiungere quella purezza del cuore che la professione monastica esige. Archebio si trovava in quel giorno a Tenneso perché chiamatovi dalla elezione di un nuovo vescovo. Ci accolse con tutti i segni della più squisita carità; poi, quand’ebbe conosciuto il nostro desiderio di andare a visitare i Padri, fino nelle regioni più remote dell’Egitto, ci disse: «Venite intanto a vedere quei santi vecchi che abitano qui, non lontano dal nostro monastero. La loro anzianità si riconosce chiaramente dalla positura curva del loro corpo, la loro santità brilla in tutto l’aspetto. Il solo vederli è già un grande insegnamento per quei fortunati ai quali è concessa tal grazia. Da loro imparerete — più dall’esempio di una vita santa che dalle parole del labbro — quel segreto divino che io ho perduto e ora non sono più in grado di comunicarvi. Ma con questo consiglio che vi dò, spero di sollevare un poco la mia miseria: infatti, pur non possedendo più io quella preziosa margherita di cui parla il Vangelo (Mt 13,45 Vulg.), posso e voglio procurare a voi il mezzo per acquistarvela più facilmente». III – Il deserto in cui vivevano Cheremone, Nestero e Giuseppe Prese bastone e bisaccia, com’è costume di tutti i monaci di quel luogo quando si mettono in cammino, e ci guidò alla sua città vescovile. I dintorni di Panefisi, come la più gran parte di quella regione, erano un tempo campi fertilissimi, tanto che proprio da quelle terre si prendevano i cibi per la mensa del re. Ora invece tutto era sommerso dal mare. Le acque del mare, sollevate da un violento terremoto, avevano rotto le dighe e sommerso tutti i villaggi all’intorno, e ora coprivano con paludi salmastre un territorio altra volta ridente e fecondo. Lì si era avverato in senso letterale quello che il Salmo canta in senso spirituale e mistico: «Egli mutò i fiumi in deserto e le fonti d’acqua in assetata steppa, e la terra fruttifera in una salina, per la malvagità dei suoi abitanti » (Sal 106,33-34). C’erano in quella zona molti paesi costruiti sulle alture; l’inondazione, dopo averne cacciati gli abitanti, ne fece delle isole deserte che offrivano ai monaci in cerca di luoghi appartati, la solitudine desiderata. Là dimoravano, ormai vecchissimi, tre eremiti: Cheremone, Nestero e Giuseppe. IV. – L’abate Cheremone e la scusa da lui addotta per non tenerci la conferenza richiesta Il beato Archebio preferì condurci prima dall’abate Cheremone, sia perché abitava più vicino al suo monastero, sia perché dei tre egli era il più vecchio. Egli aveva passato i cento anni e di vivo gli rimaneva soltanto lo spirito. Gli anni e le preghiere continue lo avevano curvato a tal punto che — quasi fosse tornato alla prima infanzia — camminava con le mani poggiate a terra. Noi osservammo meravigliati l’ammirabile bellezza del suo volto e il suo modo strano di camminare. Aveva le membra consunte, come se già fossero morte; con tutto ciò non aveva minimamente diminuito il rigore della sua antica austerità. Gli domandammo umilmente di accordarci una istruzione spirituale e di comunicarci la sua dottrina; gli protestammo anche che la nostra visita aveva uno scopo solo: conoscere le regole della vita spirituale. Alla nostra domanda emise un profondo sospiro e disse: «Quale insegnamento posso darvi io? La debolezza dell’età, che mi obbliga ad attenuare il rigore dei tempi andati, mi toglie anche il coraggio di parlare. Come potrei presumere d’insegnare quello che io stesso non faccio? Come potrei ammaestrare altri in quelle pratiche che io stesso compio tanto malamente? Questa è la ragione per cui non ho permesso che alcuno dei giovani solitari abitasse con me: temevo che il mio esempio intiepidisse il fervore degli altri. Infatti la parola del maestro ha forza ed autorità soltanto quando la virtù delle sue azioni la imprimono nel cuore dello scolaro». V – Nostra risposta Non poco confusi da queste parole, noi rispondemmo: « Dovrebbe bastare ad istruirci perfettamente la vista del luogo in cui vivi e la vita solitaria che osservi ancora, a questa età avanzatissima. Il tuo tenore di vita sarebbe appena sopportabile per un giovane robusto. Anche se tu taci, queste cose parlano eloquentemente: ci danno grandi insegnamenti, ci producono sincera compunzione. Tuttavia ti preghiamo di rompere il silenzio e di volerci dire qualcosa per cui noi, oltre ad imitare la virtù che vediamo in te, abbiamo anche motivo per ammirarla come lo merita. Se la tiepidezza che scopri in noi non vale ad ottenere quel che domandiamo, valgano almeno le fatiche di un lungo viaggio che dal monastero di Betlemme, dove s’imparano soltanto i rudimenti della vita monastica, ci hanno condotti fin qui, sospinti dal desiderio di udire i tuoi insegna- menti e di progredire nella via della perfezione». VI – Proposizione dell’abate Cheremone: i vizi si vincono in tre modi Allora il beato Cheremone prese a dire: tre cose trattengono l’uomo dall’abbandonarsi al vizio: il timore dell’inferno o di altri castighi minacciati dalle leggi umane; la speranza e il desiderio del regno dei cieli; l’amore del bene in quanto bene, o amore delle virtù. Leggiamo infatti che il timore respinge il contagio del male: «Il timore di Dio odia il male » (Pr 8,32). Anche la speranza sbarra la via alle incursioni dei vizi: «Coloro che sperano in Lui non peccheranno » (Sal 33,23). L’amore, poi, non teme il danno del peccato, perché «la carità non viene mai meno » (1 Cor 13,8), essa « copre la moltitudine dei peccati » (1 Pt 4,8). L’Apostolo ha compendiato nella perfezione di queste tre virtù l’essenza della salute: « Ora — egli dice — restano queste tre cose: la fede, la speranza e la carità » (1 Cor 13,13). La fede ci fa evitare il contagio del vizio per paura del giudizio divino e dei castighi eterni; la speranza distoglie la nostra mente dalle cose presenti e, nell’attesa del premio celeste, disprezza tutti i piaceri del corpo; la carità, accendendoci ad amare Cristo e a cogliere il frutto delle virtù spirituali, ci fa detestare con tutto il cuore ciò che a questo fine si oppone. Pur essendo vero che queste tre virtù tendono allo stesso fine, che è quello di tenerci lontani dalle cose illecite, tuttavia sono assai diverse per dignità ed eccellenza. Le prime due sono proprie di quegli uomini che cercano il progresso spirituale, ma non hanno concepito ancora un affetto sincero per le virtù. La carità invece è propria di Dio e di chiunque ha ricevuto in sé l’immagine e la somiglianza di Dio. Dio solo fa il bene senza essere a ciò sospinto dalla paura di un castigo o dalla speranza di un premio: egli lo fa soltanto per amore e bontà: « Il Signore ha fatto tutto per sé stesso » (Pr 16,4), dice Salomone. A causa della sua bontà egli dona l’abbondanza di tutti i beni ai degni e agli indegni. Le ingiurie non lo muovono, le iniquità degli uomini non lo irritano o l’addolorano: egli rimane sempre Bontà perfetta, Natura immutabile. VII – Per quali gradi si giunge alla vetta della carità. Stabilità di questa virtù Se uno vuol tendere alla perfezione, dovrà incominciare dal primo grado, che è quello del timore. Si tratta di uno stato che è proprio degli schiavi o dei servi, come abbiamo già detto; di esso sta scritto: «Quando avrete fatto tutto quello che era di dovere, direte: noi siamo dei servi inutili » (Lc 17,10). Dal timore, il nostro ricercatore della perfezione, dovrà passare, attraverso un progresso continuo, al grado più alto, che è quello della speranza. Questo secondo grado non somiglia più alla condizione del servo, ma a quella del mercenario: la speranza infatti resta in attesa d’una ricompensa. Chi ne è dotato è certo del perdono ricevuto, non ha timore del castigo, è anzi cosciente delle sue buone opere e aspetta il premio promesso da Dio. Tuttavia la speranza non è giunta ancora a quel sentimento affettuoso del figlio, il quale, fiducioso nell’amore e nella generosità paterna, è certo già di possedere tutto quanto appartiene al padre suo. A queste altezze non osa più aspirare il prodigo del Vangelo, il quale ha perduto, oltre all’eredità paterna, anche il titolo di figlio: «Io non sono più degno — egli dice — di essere chiamato tuo figlio » (Lc 15,19). Aveva strappato le ghiande ai porci: aveva cioè voluto il cibo sordido del vizio e non gli era stato concesso di saziarsene. Rientrò allora in sé stesso, fu preso da salutare timore, concepì orrore per l’immondezza dei porci, ebbe paura dei tormenti crudeli della fame. Questi sentimenti lo fecero somigliante ad uno schiavo. Poi pensò alla ricompensa che i mercenari ricevevano in casa sua, invidiò la loro condizione e disse: «Quanti mercenari in casa di mio padre hanno pane in abbondanza, mentre io, qui, muoio di fame. Tornerò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il cielo e davanti a te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio: trattami come uno dei tuoi mercenari » (Lc 17-19). Ma il padre gli si è mosso incontro: egli accetta e ricambia la parola di umile pentimento, dettata da sentimenti affettuosi, con un affetto ancora più grande. Non vuole concedergli i beni minori che il figlio umilmente chiedeva, ma subito lo restituisce alla dignità di figlio suo, senza neppur pensare un istante a farne un suo schiavo o un mercenario. Affrettiamoci anche noi a salire, con l’aiuto della divina grazia al terzo grado, che è quello dei figli, i quali credono che appartenga a loro tutto ciò che appartiene al padre. Sforziamoci di ricevere in noi l’immagine e la somiglianza del Padre celeste per poi dire anche noi, a imitazione del Figlio primogenito: «Tutto ciò che ha il Padre è mio » (Gv 16,15). Questo concetto lo esprime anche l’Apostolo, dopo averlo applicato a noi. Egli dice: «Ogni cosa è vostra, sia Paolo, sia Apollo, sia Cefa, sia il mondo, sia la vita, sia la morte, sia le cose che sono ora, sia le future: tutto è vostro » (1 Cor 3,22). Anche il comando del Salvatore ci invita a somigliare al Padre: « Siate perfetti — dice — come il Padre vostro dei cieli è perfetto » (Mt 5,48). Nei gradi inferiori della vita spirituale l’amore del bene qualche volta s’interrompe: ciò avviene quando la tiepidezza, la gioia, il piacere attenuano il vigore dell’anima e fanno perdere per qualche tempo il timore dell’inferno e il desiderio dei beni eterni. Tuttavia anche nei gradi inferiori c’è un’occasione e una scuola di progresso. Dopo aver evitato il vizio per timore del castigo o per la speranza del premio, diventa più facile passare al grado della carità. «Il timore infatti non sta nella carità; ma la carità perfetta manda via il timore, perché il timore ha in sé tormento; e chi teme non è perfetto nella carità. Noi dunque amiamo Dio, poiché egli per il primo ci ha amati » (Gv 4, 18-19). Non c’è altra via per giungere alla vera perfezione: come Dio ci ha amati per primo, senza guardare ad altro che alla nostra salvezza, così noi dobbiamo amarlo unicamente perché è degno d’essere amato. Sforziamoci dunque di salire dal timore alla speranza, dalla speranza all’amore di Dio e delle virtù. Emigriamo nella regione in cui il bene si ama per sé stesso e fissiamo qui la nostra stabile dimora, almeno per quanto è possibile alla natura umana. Vili – Eccellenza di coloro che sfuggono ai vizi per mezzo della carità vissuta Esiste una grande differenza tra uno che spegne in sé le fiamme del vizio per timore dell’inferno o per il desiderio del premio futuro, e un altro che sta, inorridito, lontano dal male e da ogni impurità soltanto perché animato dall’amore verso Dio. Quest’ultimo possiede la virtù della purezza per solo amore e desiderio della castità. Egli non guarda lontano, al premio che gli è promesso, ma la coscienza che ha di un bene già presente gli reca sommo diletto. Fa tutto, non già perché vede i castighi, ma perché si compiace della virtù. Costui, anche se fosse senza alcun testimone, non prenderebbe occasione per peccare, né lascerebbe che la sua anima fosse profanata dalla segreta compiacenza dei pensieri cattivi. L’amore della virtù lo ha penetrato fino nelle fibre più intime; non solo non accoglie nella mente i moti contrari alla virtù, ma li detesta e li respinge con orrore. Altro è odiare le brutture del vizio e della carne perché si gusta un bene presente, altro è frenare le concupiscenze illecite in vista della ricompensa futura. Altro è temere un danno presente, altro è paventare castighi futuri. Finalmente è segno di perfezione più grande non volersi staccare dal bene per amore di quel bene stesso, che negare il proprio assenso al male per paura di un male maggiore. Nel primo caso il bene è volontario, nel secondo caso appare imposto e come estorto violentemente, o dal timore del castigo o dalla brama del premio. Colui che rinuncia alle seduzioni del vizio per motivi di timore, svanito il timore che lo tratteneva, tornerà all’oggetto che desiderava. Non ci sarà per lui stabilità nel bene; anzi non avrà neppure tregua dalle tentazioni, perché non possiede la pace solida e costante che deriva dalla castità. Dove regna il tumulto della guerra, è impossibile non correre il pericolo di essere feriti. E quando uno si trova nel combattimento, quantunque da forte e coraggioso combattente infligga spesso ai suoi nemici ferite mortali, tuttavia è inevitabile che sia qualche volta messo alle strette dalla spada del nemico. Chi invece, dopo aver superata la guerra dei vizi, gode ormai una pace sicura ed è passato ad amare la virtù per se stessa, cercherà di rendere duraturo il possesso del bene che già gode e sarà convinto che nessun danno è per lui maggiore di un semplice attentato alla sua castità. La purezza che possiede è il suo tesoro più caro e prezioso: per lui il castigo più grande sarebbe la perdita della sua virtù, o l’infiltrazione del vizio contrario. La presenza di altre persone o la solitudine più assoluta niente toglie e niente aggiunge alla modestia di un simile uomo. Egli porta con sé, sempre e dappertutto, il giudice supremo di tutti i suoi atti, anzi dei suoi stessi pensieri: quel giudice è la coscienza. Il suo più grande impegno sarà dunque di piacere a lei, a questa coscienza che non si può raggirare, né ingannare, né sfuggire. IX – La carità non solo ci trasforma da servi in figli, ma imprime in noi l’immagine e la somiglianza di Dio Se uno si è stabilito in questa condizione (e ciò per opera dell’aiuto divino, non per il proprio valore o impegno), costui incomincerà le sue ascensioni. Dallo stato di servo, che ha come segno distintivo il timore; dallo stato di mercenario, che si distingue per la speranza, la quale si attacca di più alla ricompensa in sé che alla bontà di colui che la dona, passerà allo stato dei figli adottivi, dove non c’è più né timore né desiderio, ma solo e per sempre quell’amore che mai viene meno. Timore e amore si ritrovano in un rimprovero che Dio rivolge al suo popolo. In quell’occasione Dio insegna a chi convenga l’uno e a chi convenga l’altro. «Un figlio onora il padre, un servo il suo padrone. Dunque, se sono io il padre, dov’è l’onor mio? Se sono io il padrone, dov’è il rispetto a me dovuto? » (Mal 1,6). Il servo deve necessariamente temere, perché se «ha conosciuto la volontà del padrone e non ha preparato né fatto nulla per compiere tale volontà, sarà aspramente battuto » (Lc 12,47). Chi invece, attraverso l’amore, è giunto a possedere l’immagine e la somiglianza di Dio, si compiace del bene per il bene, a motivo della gioia che prova nel praticarlo. In più abbraccia con uno stesso amore la pazienza e la dolcezza. Le colpe dei peccatori non lo muovono più all’ira, chiede invece che Dio li perdoni, tanto son grandi la pietà e la comprensione che sente per la loro debolezza. Ricorda bene d’avere provato gli stimoli delle medesime passioni fino al giorno in cui la misericordia divina non si compiacque di liberarlo. Sa che non furono i suoi sforzi a liberarlo dagli assalti della carne, ma la protezione di Dio. Per questo si è convinto che con chi sbaglia non si deve usare ira, ma solo compassione. Perciò egli canta a Dio questo versetto, con assoluta tranquillità di cuore: «Tu hai spezzato le mie catene! A te immolerò una vittima di lode e di ringraziamento» (Sal 115, 16-17). E ancora: «Se non fosse stato che il Signore mi ha aiutato, abiterebbe già negli inferi l’anima mia » (Sal 93,17). Quando uno sia bene stabilito nell’umiltà dello spirito, potrà adempiere il precetto evangelico della perfetta carità: «Amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, pregate per quelli che vi perseguitano e vi calunniano » (Mt 5,44). Per questa via si giunge a quel premio di cui il Vangelo parla subito dopo: di meritare cioè il titolo di figli di Dio, oltre a possedere la sua immagine e la sua somiglianza. Dice infatti: «Affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli, il quale fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti » (Mt 5,45). San Giovanni era consapevole di essere giunto a questo stato quando diceva: «Abbiamo fiducia per il dì del giudizio: perché quale egli è, tali pure siamo noi in questo mondo» (Gv 4,17). In qual modo la natura umana, così debole e fragile, può sperare di essere come Gesù? Soltanto se estenderà a tutti, buoni e cattivi, giusti e ingiusti, la carità tranquilla di un cuore che imita quello del Signore, e fa il bene per l’amore del bene. Così l’uomo arriva alla vera adozione dei figli di Dio, della quale il medesimo san Giovanni dice: «Chiunque è nato da Dio non fa peccato perché tiene in sé il germe di Lui» (1 Gv 3,9). E ancora: «Sappiamo che chiunque è nato da Dio, non pecca; ma la divina generazione lo conserva e il maligno non lo tocca» (1 Gv 5,18). Queste parole tuttavia non vanno riferite ad ogni peccato, ma solo ai vizi capitali. A proposito di queste colpe capitali, lo stesso apostolo san Giovanni dice che se uno non vuole liberarsene e purificarsene, non merita più neppure che si preghi per lui: «Chi sa che il proprio fratello commette un peccato che non conduce a morte, chieda e sarà data la vita a quello che pecca non a morte. Vi è un peccato a morte: non dico che uno preghi per questo» (1 Gv 5,16). Peraltro, dei peccati che non portano alla morte e dai quali non vanno esenti neppure i fedeli servi di Cristo, per quanto siano attenti ad evitarli, così è scritto: «Se diremo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi» (1 Gv 1,8). E ancora: «Se diremo di non aver peccato, facciamo bugiardo Lui, e la sua parola non è in noi» (1 Gv 1,10). È impossibile anche per un santo non cadere in qualcuna di quelle imperfezioni che si commettono con le parole, coi pensieri, per ignoranza o dimenticanza, per inavvertenza, per volontà, per sorpresa. Tutte queste cose, anche se restano lontane da quelli che sono detti peccati mortali, non possono però essere immuni da colpa o da qualche castigo. X – La perfezione della carità consiste nel pregare per i nemici; da qual segno si può riconoscere che un’anima non è ancora purificata Quando uno sarà giunto a quell’amore del bene e a quella imitazione del Padre celeste, di cui abbiamo parlato, rivestirà quei sentimenti di longanimità che furono propri del Signore e, a somiglianza di lui, pregherà così per i suoi persecutori: « Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno » (Lc 23,34). È invece un segno evidente di un’anima non ancora purificata dalla sozzura dei vizi, il fatto che le colpe del prossimo non trovino in essa compassione e misericordia, ma la rigida condanna d’un giudice. Come potrà ottenere la perfezione del cuore colui che manca di quell’elemento nel quale, a detta dell’Apostolo, sta la perfezione di tutta la legge? «Portate — dice san Paolo — i pesi gli uni degli altri, così adempirete la legge di Cristo» (Gal 6,2). Chi non possiede la virtù della carità che «non si irrita, non s’inorgoglisce, non pensa male, soffre tutto, sopporta tutto» (1 Cor 13,4-7), come potrà essere perfetto? È scritto infatti: «Il giusto ha cura anche della vita delle sue bestie, ma le viscere degli empi sono crudeli» (Pr 12,10). È dunque certo che quando un monaco condanna i vizi degli altri con severità inflessibile e disumana, è soggetto anche lui a quei medesimi vizi. Sta scritto: «Il re severo cadrà nei guai » (Pr 13,17 – LXX) e «Chi chiude gli orecchi al grido del misero, se anch’egli griderà non sarà udito» (Pr 21,13). XI – Perché i sentimenti di timore e di speranza son giudicati imperfetti? Germano. Tu hai parlato in modo forte e dolce del perfetto amore di Dio; noi però abbiamo qualcosa ancora che gravemente ci turba. Mentre innalzavi tanto la virtù della carità, dichiaravi imperfetto il timor di Dio unitamente alla speranza, o desiderio del premio eterno. Pare però che il profeta sia stato di avviso diverso a questo proposito. Egli dice: «Temete il Signore, o voi tutti santi suoi, perché nulla manca a coloro che lo temono » (Sal 33,10). Altrove lo stesso profeta confessa di essersi esercitato nell’osservanza dei comandamenti in vista della ricompensa: «Ho inclinato il mio cuore ad eseguire i tuoi statuti in eterno, a motivo della ricompensa » (Sal 118,112). Inoltre l’Apostolo ci attesta: «Per la fede Mosè, fatto grande, rifiutò di esser detto figlio di una figlia di Faraone, preferendo di esser maltrattato insieme col popolo di Dio, piuttosto che avere il godimento momentaneo della colpa, e stimando l’obbrobrio di Cristo, come una ricchezza maggiore dei tesori egiziani, poiché aveva lo sguardo rivolto alla ricompensa » (Eb 11, 24-26). Come si potrà credere che la fede e la speranza siano imperfette, dal momento che il beato David si gloria di aver osservato la legge del Signore in vista della ricompensa, e Mosè — così si afferma — disprezzò l’adozione nella famiglia reale, e antepose una crudele afflizione ai tesori egiziani, perché guardava lontano alle ricompense future? XII – Risposta sui diversi gradi di perfezione Cheremone. La sacra Scrittura chiama il nostro libero arbitrio a gradi diversi di perfezione, secondo lo stato e la misura di ciascuna persona. Non era possibile proporre a tutti la stessa corona di santità, perché non tutti hanno la stessa virtù, la stessa volontà, lo stesso fervore. Perciò la parola di Dio stabilisce, anche nella perfezione, diversi gradi e diverse misure. Una riprova di questo disegno del Signore si ha nelle beatitudini evangeliche, che mostrano evidente una certa varietà. È detto in esse: beati coloro ai quali appartiene il regno dei cieli; beati coloro che possederanno la terra; beati coloro che saranno consolati; beati coloro che saranno saziati. Noi crediamo però che ci sia una bella differenza tra abitare nei cieli e possedere la terra, qualunque sia qui il significato della parola terra. Crediamo inoltre che ci sia differenza fra ricevere una consolazione e possedere la pienezza e la sazietà della giustizia. Ci sembrano cose tra loro distanti ricevere misericordia e meritare di godere la visione di Dio. Ci pare qui a proposito la parola dell’Apostolo: «Altro è lo splendore del sole, altro quello della luna, altro quello degli astri, poiché un astro è differente dall’altro per splendore. Così è anche la resurrezione dei morti » (1 Cor 15,41-42). È vero che la Scrittura loda coloro che temono il Signore e promette ad essi la beatitudine eterna, da conseguire per questo mezzo: «Beati tutti coloro che temono il Signore » (Sal 127,1). Ma la stessa Scrittura dice anche: «Il timore non sta nella carità; ma la carità perfetta manda via il timore, perché il timore ha in sé tormento, e chi teme non è perfetto nella carità » (1 Gv 4,18). Allo stesso modo: è una gloria servire il Signore, sta scritto infatti: « Servite il Signore nel timore » ( Sal 2,11); « È gran cosa per te esser chiamato mio servo » (Is 49,6 –LXX); « Beato quel servo che, al ritorno del suo padrone, sarà trovato attivo » (Mt 24,46); tuttavia agli apostoli è detto: « Io non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quel che fa il suo padrone: vi ho chiamati amici, perché vi ho fatto conoscere tutto quello che ho udito dal padre mio » (Gv 15,15). E ancora: « Voi sarete miei amici se farete tutto quello che vi comando » (Gv 15,13). Vedete dunque che esistono più gradi di perfezione. Da una vetta il Signore c’invita a salire sopra un’altra vetta ancora più alta. Chi s’è fatto beato e perfetto nel timore di Dio, passerà di virtù in virtù (Sal 83,8), come dice la Scrittura, cioè di perfezione in perfezione. Ciò significa che egli progredirà dal timore alla speranza; poi udrà l’invito di Dio che lo chiama ad uno stato ancora più santo, cioè alla carità. Colui che sarà stato un « servo fedele e prudente » (Mt 24,45), sarà ammesso all’intimità dell’amicizia con Dio e riceverà l’adozione dei figli. Ecco il senso in cui vanno prese le mie parole. Io non intendo dire che la meditazione delle pene eterne o dell’eterna ricompensa promessa ai santi, è cosa di nessun valore. È utile e preziosa, perché introduce coloro che la praticano nella via della perfezione e della beatitudine. Ma la carità è più perfetta, s’illumina di una fiducia più grande e si ammanta già dell’eterna gioia. Essa prende l’uomo e lo eleva, dal timore del servo e dalla speranza del mercenario, lo porta all’amore di Dio e alla condizione di suo figlio adottivo. E se è vero che trova l’uomo già perfetto, si deve affermare che lo fa più perfetto. Il Salvatore ha detto: « Nella casa del Padre mio ci sono molte dimore » (Gv 14,2). Tutti gli astri del cielo brillano, ma tra lo splendore del sole, della luna, della stella del mattino e delle altre stelle, c’è una notevole differenza. Per queste ragioni il beato Apostolo innalza la carità non soltanto al di sopra del timore e della speranza, ma anche al di sopra di tutti i carismi, che sono stimati tanto grandi ed eccellenti. La carità è fra tutte la via più perfetta. Dopo aver concluso il catalogo dei carismi, san Paolo si accinge a cantare partitamente (ovvero “nei singoli particolari”. Ndr) le lodi della carità e introduce così il discorso: « Io vi indico una via di gran lunga migliore. Se io parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, e non avessi amore, non sarei che un bronzo risonante, o un cembalo squillante. E se avessi il dono della profezia, e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza; e se avessi tutta la fede, sì da trasportare le montagne, e poi mancassi di amore, non sarei nulla. E se anche sbocconcellassi a favore dei poveri tutto quello che ho, e dessi il mio corpo per essere arso, e non avessi amore, non ne avrei alcun giovamento » (1 Cor 12,31; 13,1-3). Vedete bene che niente esiste di più prezioso, di più perfetto, di più sublime, di più eterno — se così posso dire — della carità. « Le profezie termineranno; le lingue cesseranno; la scienza finirà in nulla. La carità non verrà mai meno » (1 Cor 13,8). Senza carità, i più alti carismi, e lo stesso martirio, non valgono a nulla. XIII – Il timore che nasce dall’abbondanza della carità Chi avrà posto solido fondamento nella perfezione della carità, salirà ad un grado più eccellente e più sublime ancora, voglio dire il timore amoroso. Questa specie di timore non nasce dalla paura dei castighi o dal desiderio del premio; nasce soltanto dalla grandezza dell’amore. E l’affetto profondo e delicato che un figlio ha per un padre pieno di bontà, il fratello per il fratello, l’amico per l’amico, la sposa per lo sposo. Non teme percosse o rimproveri, teme solo di ferire l’amore, anche con la ferita più leggera. In ogni atto, in ogni parola sta all’erta e si controlla per non perdere neppure in misura impercettibile la delicatezza del suo amore. Uno dei profeti ha ben descritto la bellezza di questo timore amoroso: « Sapienza e scienza saranno ricchezze di salute, ma il timore di Dio ne sarà il tesoro » Is 33,6). Il profeta non poteva sottolinearne con più evidenza la dignità e la preziosità. Le ricchezze della nostra salute, che consistono nella sapienza e nella scienza di Dio, non possono essere conservate se non nel timore di Dio. Per questo gli oracoli dei profeti invitano al timore amoroso, non già i peccatori ma i santi; dice infatti il Salmista: « Temete il Signore, voi tutti suoi santi, perché niente manca a coloro che lo temono » (Sal 33,10). Chi teme il Signore di questo timore, può esser sicuro che niente gli manca per essere perfetto. Non si confonda il timore amoroso con quello servile di cui parla san Giovanni quando dice: « Chi teme non è perfetto nella carità, perché il timore ha in sé tormento » (1 Gv 4,18). C’è dunque una grande differenza tra quel timore a cui niente manca, che è il tesoro in cui son custodite la sapienza e la scienza, e l’altro timore imperfetto che è appena l’inizio della sapienza (Sal 110,10), che porta con sé la minaccia del castigo e viene estromesso dal cuore dei perfetti al sopraggiungere della perfetta carità. Sta scritto infatti: « Il timore non sta nella carità; la perfetta carità caccia via il timore » (1 Gv 4,18). E tutto è logico. Se il principio della sapienza è nel timore, dove sarà la perfezione della sapienza, se non nella carità di Cristo, la quale ingloba in sé il timore amoroso e perfetto e merita perciò di essere chiamata non più inizio della sapienza, ma tesoro della sapienza e della scienza? Esistono dunque due gradi di timore. Uno è proprio dei principianti, cioè di quelli che stanno ancora sotto il giogo dei servi. Di questo timore è scritto: « Il servo temerà il suo padrone » (Gv 15,14). Il Vangelo aggiunge poi: « Non vi chiamerò più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone » (Gv 8,35). Perciò sta scritto ancora: « Lo schiavo non resta per sempre nella casa; il figlio invece vi resta per sempre » (Gv 8,35). La sacra Scrittura ha voluto invitarci così a salire dal timore del castigo, alla perfetta libertà dell’amore e alla confidenza che è propria degli amici e dei figli di Dio. Infine il beato Apostolo che, per la virtù della divina carità, aveva di gran lunga superato lo stato del timore servile, rimirando dall’altezza della carità questo dono inferiore, proclama di essere stato arricchito da Dio di doni assai più preziosi. « Dio non ci ha dato uno spirito di timore, ma di forza e di amore e di saggezza » (2 Tm 1,7). Lo stesso Apostolo esorta così coloro che ardono in cuore d’amore perfetto per il Padre celeste, e che l’adozione divina ha trasformati da schiavi in figli: « Non avete mica ricevuto lo spirito di servitù da ricadere nel timore, ma spirito di adozione a figlioli, in cui gridiamo: Abba, Padre! » (Rm 8,15). Del timore amoroso parla anche il profeta quando descrive lo spirito settiforme che è sceso indubbiamente sull’Uomo-Dio, secondo il piano dell’incarnazione. « E si poserà su lui lo spirito del Signore: spirito di sapienza e di intelletto, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di scienza e di pietà, e lo spirito del timore del Signore lo riempirà » (Is 11,2). Gioverà osservare che non è detto: «Riposerà su lui lo spirito di timore», come è detto per tutti gli altri doni, ma qui è detto: « lo spirito del timore lo riempirà ». Tanta è la ricchezza di questo spirito, che quando s’è impossessato di un’anima, non la possiede parzialmente, ma la penetra completamente. Ed è giusto che sia così. Il timore amoroso, per il fatto che è tutt’uno con la carità che non vien mai meno, non soltanto riempie, ma possiede inseparabilmente e per sempre colui del quale si è impossessato. Mai le compiacenze della gioia o del piacere terreno potranno diminuirlo, cosa che invece avviene spesso al timore servile. Questo è dunque il timore dei perfetti, del quale è scritto che riempì l’Uomo-Dio, il quale non era venuto soltanto per redimerci, ma anche per darci, nella sua persona, il modello della perfezione e l’esemplare di ogni virtù. Quanto al timore servile, Gesù non poté averlo. Egli era infatti vero figlio di Dio, e la Scrittura afferma che « non fece mai peccato e mai sul suo labbro fu trovato inganno » (1 Pt 2,22). XIV – Domanda sulla castità perfetta Germano. Il discorso sulla carità perfetta è ormai terminato. Vorremmo ora interrogarti sul grado più alto della castità. Il nesso tra la nostra richiesta e la tua conferenza è questo. Siamo certi che la vetta della carità, sulla quale — come ci è stato spiegato — si vive ad immagine e somiglianza di Dio, non si può raggiungere senza la perfetta castità. Ora vorremmo sapere se la castità può essere così duratura che l’integrità del nostro cuore non abbia mai da risentire i moti della concupiscenza. È possibile che noi, pur vivendo nella carne, rimaniamo così lontani dalle passioni carnali da non sentirci mai bruciare dal loro ardore? XV – La risposta è rinviata ad altro tempo Cheremone. Se potessimo intrattenerci continuamente in quei sentimenti che ci uniscono al Signore, sia per imparare, sia per insegnare la scienza della perfezione, noi daremmo prova di possedere la felicità perfetta e meriti straordinari. I giorni e le notti, secondo la parola del Salmista trascorrerebbero nella meditazione: le nostre anime, divorate da insaziabile fame e sete di giustizia, si nutrirebbero incessantemente di questo cibo celeste. Ma noi abbiamo anche un corpo che è una povera bestia da soma. Bisognerà provvedere anche a quello (come c’insegna la benignissima provvidenza del Signore), per evitare che venga meno lungo il cammino. Ricordiamo che sta scritto: «Lo spirito è pronto, ma la carne è debole» (Mt 26,41). Diamo ora un po’ di ristoro — anche frugale — al nostro corpo: quando avremo dato il necessario cibo al corpo, anche l’anima sarà più alacre nell’indagare il tema che aveva proposto. SECONDA CONFERENZA DELL’ABATE CHEREMONE LA CASTITA’ Indice dei capitoli III. Dovere di mortificare la fornicazione e l’impurità. VII. I diversi gradi della castità. VIII. Coloro che non ne hanno esperienza, non possono trattare della natura a degli effetti della castità. XII. Le meraviglie che il Signore opera nei suoi santi. XIII. Solo chi l’ha provata può conoscere la dolcezza della castità. XIV. Con quali penitenze e in quanto tempo si può giungere alla virtù della castità? XVI. Fine e rimedio della castità. I – Parole dell’abate Cheremone sulla castità Il desiderio che avevamo del pane spirituale ci fece apparire piuttosto pesante che allegro il nostro pasto. Finito che fu, il vecchio abate capì che noi volevamo immediatamente la sua nuova conferenza, e prese a dire: «Io godo nel vedere l’ardore che avete di apprendere la scienza spirituale; godo ancor più perché mi avete proposto un tema di grande importanza. Devo anche notare che l’ordine in cui si pone la vostra domanda è logico, ragionevole; infatti è necessario che alla pienezza della carità segua come premio, una perfetta castità. Si tratta di due vittorie che molto si somigliano, di due gioie che si uguagliano: l’alleanza che le unisce è così stretta che non è possibile possedere l’una senza l’altra. La vostra domanda esprime un dubbio: se sia possibile spegnere completamente in noi il fuoco della concupiscenza, di cui la nostra carne sente l’ardore come innato. È quello che mi riprometto di spiegarvi con una conferenza simile alla prima. Innanzi tutto cerchiamo attentamente di scoprire che cosa ne pensa il beato Apostolo. «Mortificate — egli dice — le vostre membra terrene» (Col 3,5). Prima di procedere oltre, vediamo di intendere quali sono queste membra che s. Paolo ci comanda di mortificare. Non è da credere che l’Apostolo ci esorti a tagliarci le mani, i piedi, o altre parti del corpo che tacere è bello. Egli vuole che, per amore della santità, distruggiamo al più presto il «corpo del peccato» che è formato da vive membra. Dice in un passo della lettera ai Romani: «Sia distrutto il corpo del peccato» (Rm 6,6) e subito spiega in che cosa consista questa distruzione: «In modo che non siamo più —egli dice — schiavi del peccato» (Rm 6,6). Da questo corpo l’Apostolo chiede tra i gemiti di poter esser liberato: «Disgraziato che io sono! Chi mi libererà da questo corpo di morte?» (Rm 7,24). II – II corpo del peccato e le sue membra Il corpo del peccato è formato da tante membra che sono i vizi: gli appartengono tutti i peccati che si possano commettere con parole, opere, pensieri. Queste membra sono chiamate terrestri, e con ottima ragione; infatti coloro che se ne servono non potrebbero dire sinceramente: «La nostra cittadinanza è nei cieli». (Fil 3,20) Ecco come l’Apostolo descrive le membra di questo corpo: «Mortificate le vostre membra terrene, cioè la fornicazione, l’impurità, la libidine, la prava concupiscenza e l’avarizia che è un’idolatria» (Col 3,5). Ha messo al primo posto la fornicazione, che consiste in una unione carnale. Nomina come secondo membro del corpo di peccato l’impurità, che a volte, nello stato di sonno o di veglia, al di fuori di ogni unione sessuale, sorprende l’anima che non è vigilante. La legge condannava e proibiva l’impurità in quanto, oltre ad allontanare chi se n’era macchiato dalla partecipazione ad ogni banchetto sacro, ordinava pure di segregarlo dall’accampamento in cui stava raccolto il popolo. Ecco la testimonianza della sacra Scrittura: «Chi, essendo immondo, avrà mangiato delle carni dell’ostia pacifica che è stata offerta al Signore, perirà davanti al Signore» (Lv 7,20: LXX); e «Tutto ciò che toccherà un immondo diventerà immondo» (Nm 19,22). Nel Deuteronomio si legge: «Se ci sarà tra voi qualcuno che sia divenuto immondo la notte nel sonno, esca dagli alloggiamenti, e non vi ritorni prima di essersi lavato con acqua, la sera; tramontato il sole rientrerà nel campo» (Dt 23,10-11). Come terzo membro del corpo di peccato l’Apostolo nomina la libidine che si sviluppa nell’intimo segreto dell’anima, anche senza commozione del corpo. È chiaro infatti che il termine «libidine» deriva dal verbo libet, che significa qualcosa che piace. Dopo ciò l’Apostolo scende dai peccati più gravi a quelli più leggeri ed enumera come quarto membro la concupiscenza malvagia, la quale non si riferisce soltanto ai peccati di lussuria, ma a tutti i desideri genericamente dannosi. Essa è la malattia di una volontà corrotta. Di questa concupiscenza dice il Signore nel Vangelo: «Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già in cuor suo commesso adulterio con lei» (Mt 5,28). È molto difficile trattenere i desideri di uno spirito incline al peccato impuro, quando gli si presenta alla vista una visione conturbante. Da ciò si ha la prova che una castità non può essere perfetta finché alla continenza del corpo non si aggiunge anche l’integrità dell’anima. Ecco ora, alla fine dell’elenco, l’ultimo membro del corpo del peccato: l’avarizia. L’Apostolo intende così dimostrare che non basta trattenersi dal desiderare le cose d’altri, ma bisogna anche disprezzare con cuore magnanimo le cose nostre. Così faceva la moltitudine dei primi cristiani, secondo ciò che riferisce il libro degli Atti: «La moltitudine dei credenti era un cuor solo e un’anima sola; né alcuno c’era che considerasse come cosa sua quel che possedeva, ma avevano tutto in comune. Tutti quelli che possedevano poderi e case, li vendevano e portavano il prezzo delle cose vendute, e lo mettevano ai piedi degli Apostoli; poi si distribuiva a ciascuno, secondo il bisogno» (At 4,32 e 34-35). Perché non si credesse che questa perfezione era riservata a pochi, l’Apostolo aggiunge che l’avarizia è una forma d’idolatria. Ed ha perfettamente ragione. Chiunque si rifiuta di soccorrere i bisognosi nelle loro necessità e mette i comandi di Cristo al disotto del denaro, che conserva con l’attaccamento di un pagano, cade nel peccato d’idolatria, perché preferisce all’amore di Dio l’amore d’una cosa materiale di questo mondo. III – Dovere di mortificare la fornicazione e l’impurità Noi vediamo che molti, per amore di Cristo, hanno rinunciato alle loro ricchezze e l’hanno fatto in modo tale che, non solo si sono privati del possesso, ma hanno sradicato dal cuore anche il desiderio. Se così è per la ricchezza, dobbiamo credere che la stessa cosa possa avvenire anche per l’ardore impuro. L’Apostolo non avrebbe mai accostato una cosa impossibile a una possibile. Se ci comanda di mortificare l’uno e l’altro vizio, è segno che l’uno e l’altro può essere mortificato, cioè vinto. Anzi l’apostolo è tanto convinto della nostra capacità di estirpare dalle nostre membra il vizio impuro, che non ci dice solo di mortificare l’impurità, ma ci avverte che questa bruttura non dev’essere neppure nominata tra noi: «Fornicazione poi e qualsiasi impudicizia o avidità di possedere, non siano neppure nominate tra voi, come conviene ai santi; e così: non disoneste parole, o buffonerie, o scurrilità che non convengono» (Ef 5,3-4). Altrove lo stesso Apostolo insegna ancora che queste cose sono gravissime e ci escludono dal regno di Dio. «Non illudetevi: né fornicatori, né idolatri, né adulteri, né effeminati, né pervertiti, né ladri, né avari, né ubriachi, né maldicenti, né rapaci erediteranno il regno di Dio» (1 Cor 6,9-10). E ancora: «Questo si deve tenere a mente: che ogni adultero o impudico, o avaro, che vuol dire idolatra, non ha eredità nel regno di Cristo e di Dio» (Ef 5,5). Nessun dubbio può dunque sussistere sulla possibilità di estirpare dal nostro corpo il contagio della lussuria. L’Apostolo mette l’obbligo di vincere l’impurità insieme con quello di vincere l’avarizia, le parole sciocche, le buffonerie, l’ubriachezza, i furti: tutte cose, queste, di cui si può avere facile vittoria. IV – Per ottenere la vera castità non basta l’impegno puramente umano Mettiamoci però bene in mente che le più rigorose astinenze, fame, sete, veglie, lavoro assiduo, applicazione incessante alla lettura, non ci potranno meritare una continua e perfetta castità. In mezzo alle nostre continue fatiche dobbiamo imparare, da quella grande maestra che è l’esperienza, che la perfetta castità è un dono gratuito della grazia divina. Ciascuno sappia che ha il dovere di esercitarsi instancabilmente negli esercizi di penitenza per ottenere così la misericordia del Signore, per meritare che egli ci liberi dagli assalti della carne e dalla dominazione tirannica dei vizi. Ma non pensiamo neppure lontanamente di poter arrivare in virtù delle nostre penitenze, alla desideratissima castità perfetta. Nei confronti della castità da conquistare, ognuno di noi deve sentirsi infiammato di quello stesso ardore che si trova in un avaro divorato dal desiderio delle ricchezze, nell’ambizioso bruciato dalla sete degli onori, nell’uomo appassionato che è rapito dall’amore irresistibile di una bellezza femminile. Al pari di costoro bisogna desiderare la realizzazione del nostro desiderio con intensità impaziente. L’uomo che sia tutto preso da un desiderio insaziabile della perfetta castità, disprezzerà il cibo, anche se desiderabile; avrà orrore delle bevande, anche di quelle necessarie; allontanerà da sé il sonno, che pure è una necessità di natura; oppure si affiderà al sonno con la mente timorosa di ciò che in quel tempo potrà intentargli il nemico della purezza, l’avversario irriducibile di ogni castità. Se svegliandosi al mattino si accorgerà che la sua purezza è rimasta intatta, godrà di questo dono che gli è stato accordato da Dio. Egli infatti sa perfettamente che non ha conservato la castità col suo zelo e con la sua vigilanza, ma solo per grazia del Signore; sa pure che il suo corpo rimarrà casto per tutto il tempo che la divina generosità vorrà concedergli. Chi avrà procurato di stabilirsi in questa persuasione, non avrà alta stima di sé, non avrà fiducia nella sua virtù. Non si lascerà ingannare dai lunghi periodi di calma, né si lascerà snervare da una sicurezza fallace. Sarà invece certo che potrà avere qualche triste sorpresa se la protezione divina si ritirerà da lui anche per un solo istante. In conseguenza di ciò, allo scopo di conservare in sé la perpetua e perfetta castità, si applicherà indefessamente alla preghiera, con ogni contrizione e umiltà di cuore. V – Utilità degli assalti che ci vengono dalla carne Volete una prova evidente su quanto vi ho detto a proposito dell’utilità delle tentazioni mosseci dalla carne? Volete esser sicuri che quei combattimenti, sebbene ci sembrino dannosi e pericolosi, sono invece utilmente inseriti nelle membra del nostro corpo? Considerate, vi prego, coloro che sono impotenti, e domandatevi che cosa è che li rende così stanchi e tiepidi nella ricerca della virtù. Non è forse vero che sono così apatici spiritualmente perché non temono di perdere la loro castità? Nessuno pensi tuttavia che quando parlo così io voglia affermare che tra quella categoria di persone non se ne trova alcuna capace di vivere la perfetta rinunzia. Intendo soltanto dire che anche tra loro, se ci son quelli che tendono alla meta della perfezione, proposta alle nostre ambizioni, ci dovrà essere chi in qualche modo vince la propria natura. Infatti, quando il desiderio ardente della perfezione ha preso un’anima, la costringe a sopportare la fame, la sete, le veglie, la nudità e tutte le fatiche del corpo, non solo con pazienza, ma anche con piacere. «L’uomo che si affatica, si affatica per sé, e usa violenza per impedire il suo danno» (Pr 16,26: LXX). E ancora: «L’anima che ha fame troverà dolce anche l’amaro» (Pr 27,7: LXX). I desideri delle cose presenti non potranno essere né repressi né estirpati, se al posto di questi desideri funesti, dei quali desideriamo liberarci, non ne metteremo altri che siano portatori di salute. L’anima possiede una vivacità naturale che non le permette di starsene senza qualche sentimento di desiderio o di timore, di gioia o di tristezza. Dovrà dunque accettare questi sentimenti e rivolgerli al lato buono. Pertanto, se desideriamo togliere dal nostro cuore le concupiscenze della carne, dobbiamo inserire al loro posto le gioie dello spirito. Se aderirà ai piaceri spirituali, l’anima nostra avrà trovato il suo punto di stabilità, allora le parrà facile rifiutare i piaceri del tempo presente. Quando gli esercizi quotidiani avranno condotto l’anima nostra in questo stato, essa potrà conoscere per esperienza il significato profondo di quel versetto che tutti cantiamo sul ritmo della consueta salmodia, ma pochi soltanto hanno capito sperimentalmente. Dice quel versetto: «Vedo il Signore sempre davanti ai miei occhi; poiché egli sta alla mia destra, non vacillerò» (Sal 16 (15), 8). Giungerà a comprendere tutta la forza di queste parole soltanto colui che, dopo aver acquistato quella purezza dell’anima e del corpo di cui abbiamo già parlato sopra, si convincerà di essere ad ogni istante sorretto dal Signore. Dio lo conserva perché non decada dalle altezze raggiunte; Dio fortifica continuamente la sua destra, cioè le sue azioni virtuose. Dio non sta alla sinistra dei suoi santi, perché i santi non hanno alcunché di sinistro; sta invece alla loro destra. I peccatori e gli empi non vedono Dio perché essi non hanno quella destra alla quale si tiene il Signore; perciò non possono dire col profeta: «Gli occhi miei son sempre rivolti al Signore, perché egli districherà dal laccio i miei piedi» (Sal 25 (24),5). Queste parole possono essere sinceramente pronunciate soltanto da colui che stima tutte le cose di questo mondo come dannose o superflue, o per lo meno come inferiori alla virtù perfetta, e perciò indirizza gli sguardi, gli affetti, gli sforzi, alla custodia del cuore e alla conquista della perfetta castità. Con questi esercizi lo spirito si lima; a mano a mano che progredisce si fa più puro; alla fine raggiunge la perfetta santità dell’anima e del corpo. VI – La pazienza spegne il fuoco dell’impurità Quanto più uno cresce nella mitezza e nella pazienza, tanto più avanza nella purezza del corpo; quanto più lontano sarà cacciato il vizio dell’ira, tanto più ferma sarà la castità. Infatti non potrà dominare i moti della carne chi non abbia domato prima i moti del cuore. Questa verità ci è proclamata dalla voce del Salvatore: «Beati i miti perché essi possederanno la terra» (Mt 5,4). Non abbiamo altro mezzo per possedere la nostra terra — cioè per sottomettere alla nostra sovranità la terra ribelle del nostro corpo — all’infuori di questo: fondare l’anima nostra nella dolcezza della pazienza. Nei combattimenti che la passione suscita nella nostra carne si trionfa soltanto se si impugnano le armi della mansuetudine. «I mansueti possederanno la terra e l’abiteranno nei secoli dei secoli» (Sal 37 (36),11 e 29). La sacra Scrittura, nello stesso Salmo, ci insegna anche il metodo per conquistare questa terra: «Spera nel Signore e segui la sua via, e t’innalzerà su, a possedere la terra» (Sal 37 (36),34)21. È chiaro dunque che nessuno arriva ad un saldo possesso di questa terra all’infuori di coloro che battono le vie dure e osservano i precetti del Signore nella mitezza di una pazienza inalterabile. La mano divina li ritrarrà dal fango delle passioni carnali e li esalterà. «I miti possederanno la terra» e non solo la possederanno, «ma vi godranno abbondanza di pace» (Sal 37 (36),11). Chi invece sperimenta ancora nella sua carne la guerra della concupiscenza, non potrà godere stabilmente di questa pace. I demoni non smetteranno di muovergli i loro crudeli assalti; egli, ferito dalle frecce infiammate della lussuria, sarà impedito dal prendere possesso della sua terra, fino al momento in cui il Signore non «spazzerà via le guerre sino ai confini della sua terra, spezzerà l’arco, romperà le lance, brucerà gli scudi nel fuoco» (Sal 46 (45),10). Questo è il fuoco che il Signore è venuto a portare sulla terra. Gli archi e le lance che il Signore spezzerà sono le armi di cui gli spiriti maligni si serviranno contro l’uomo in una battaglia incessante, di giorno e di notte, per ferire il suo cuore con le frecce infocate delle passioni. Ma quando il Signore, che spazza via le guerre, l’avrà liberato da tutti gli assalti della carne, quest’uomo giungerà a tale stato di purezza che scomparirà quella vergogna che aveva di se stesso, cioè della carne da cui era combattuto, e incomincerà a compiacersi della sua carne, come di un tabernacolo purissimo. «Il male non si avvicinerà a lui, il flagello non s’accosterà al suo tabernacolo» (Sal 91 (90),10). Grazie alla virtù della pazienza si avvererà la promessa del profeta: «Per merito della mansuetudine egli non si limiterà ad ereditare la sua terra, ma si rallegrerà in una pace abbondante» (Sal 37 (36),11). Dove permane il timore del combattimento, non ci può essere l’abbondanza della pace. Ma nel caso nostro ogni timore è svanito; per questo la divina Scrittura non dice che gusterà la gioia della pace, ma che gusterà la gioia di una «pace abbondante». Da tutto ciò appare evidente che il medicamento più efficace sul cuore dell’uomo è la pazienza, secondo quel detto di Salomone: «L’uomo mansueto è medico del cuore» (Pr 14,30: LXX). La pazienza non elimina soltanto l’ira, la tristezza, l’accidia, la vanagloria, la superbia, ma anche la lussuria e tutti gli altri vizi: «La pazienza — dice ancora Salomone — fa prosperi i re» (Pr 25,15: LXX). Chi rimane sempre mite e tranquillo, non si accende per impeti d’ira, né si consuma nell’angoscia dell’accidia e della tristezza, né si distrae nelle miseriole della vanagloria, né si gonfia di superbia. Per lui valgono le parole: «Molta pace per quelli che amano il nome del Signore, e non v’è inciampo per essi» (Sal 119 (118),165). È giusta la sentenza del Savio: «Meglio l’uomo paziente che l’uomo forte; e chi domina l’animo suo è da più che un espugnatore di città» (Pr 16.32). Ma prima di ottenere questa pace forte e sicura dobbiamo essere provati da molti assalti. Avremo perciò da ripetere molte volte, fra lacrime e gemiti, questa invocazione: «Misero io sono e afflitto fino all’estremo, tutto il dì me ne vo’ contristato. I miei lombi sono pieni di fiamme» (Sal 38 (37), 7-8). E ancora: «Non v’è sanità nella mia carne, a cagione dell’ira tua; non v’è pace per le mie ossa, a cagione dei miei peccati» (Sal 38 (37), 4). Questi lamenti ci converranno perfettamente quando, dopo avere a lungo conservata la purezza del corpo ed esserci convinti di avere eliminato per sempre le impurità della carne, sentiremo gli stimoli della lussuria insorgere di nuovo, o ci accorgeremo che nelle fantasie notturne ci perseguita il ricordo delle impurità passate. Quando uno ha incominciato a godere per lunga consuetudine le gioie che derivano dalla purezza dell’anima e del corpo, è naturale che pensi di non poter essere separato dalla purezza che gode. Avverrà allora che intimamente si compiaccia e si glori così: «Io dico nella mia prosperità: non vacillerò in eterno» (Sal 30 (29), 7). Ma quando il Signore lo abbandonerà e l’uomo sentirà venir meno quello stato di calma in cui tanto fidava, allora ricorrerà all’autore della sua virtù e, convinto della propria debolezza, dirà: «Signore, la mia permanenza nello stato di virtù e di decoro, era effetto della tua volontà, non della mia. Rivolgesti da me la tua faccia e fui sconvolto» (Sal 30 (29), 8). Dirà ancora col beato Giobbe: «Se io mi lavassi con acqua di neve, e le mie mani risplendessero per mondezza, nella lordura tu m’intingeresti, sicché mi avessero a schifo i miei stessi abiti» (Gb 9,30-31). Queste parole tuttavia non può ripeterle al suo Creatore colui che s’è macchiato di sozzura per sua colpa. Finché non sarà giunto allo stato di purezza perfetta, l’anima dovrà essere frequentemente sottoposta a queste alternative, ma alla fine, fortificata dalla grazia del Signore, sarà resa salda in quella purezza che desiderava. Allora potrà dire: «Con fermezza aspettai il Signore ed egli si volse a me, e ascoltò le mie grida supplichevoli. Mi ritrasse da rovinosa fossa e dal fango melmoso. E stabilì sopra una rupe i miei piedi e guidò i miei passi» (Sal 40 (39), 2-3). VII – I diversi gradi della castità Molti sono i gradi di castità attraverso i quali si sale fino alla purezza perfetta. La mia virtù non è sufficiente né a descriverli a fondo, né ad elencarli. Tuttavia, poiché l’ordine stesso di questa trattazione lo richiede, mi sforzerò di illustrarli in qualche modo, secondo la mediocrità della mia esperienza. Lascio ai perfetti l’esposizione di una dottrina perfetta, né desidero prevenire il giudizio di coloro che, con una vita più fervente, sono arrivati a conquistare una castità più perfetta della mia. Costoro mi sopravanzano nel vigore della perspicacia quanto mi superano nell’ardore dello zelo. Distinguerò in sei gradi le vette della castità, benché tra l’una e l’altra di queste vette la differenza d’altezza sia notevole. I gradi intermedi, quantunque siano molto numerosi, li passerò sotto silenzio. La loro diversità è così sottile da non essere facilmente percettibile al senso umano: la mente non riesce a penetrarla, la lingua non riesce ad esprimerla. Essi segnano i progetti quotidiani attraverso i quali la castità avanza a poco a poco verso la sua perfezione. Infatti la forza dello spirito e la perfezione della castità crescono progressivamente, a somiglianza dei corpi materiali che prendono incremento ogni giorno insensibilmente e giungono così, senza neppure accorgersene, al loro stato perfetto. Il primo grado di castità è che il monaco non soccomba, durante la veglia, agli assalti della carne. Il secondo è che la sua mente non s’indugi sui pensieri impuri. Il terzo, che la vista di una donna non gli risvegli neppur debolmente dei sentimenti di concupiscenza. Il quarto, che mentre è sveglio non provi nella sua carne il movimento più leggero e innocente. Il quinto, che quando il tema di una conferenza o l’argomento di una lettura fanno menzione della generazione umana, la mente non si lasci sfiorare dal più leggero assenso all’atto voluttuoso, ma lo consideri invece con uno sguardo tranquillo e puro, come un’opera semplicissima, come un dovere assegnato al genere umano; il suo ricordo lasci indifferenti come il ricordo del modo in cui si fabbricano i mattoni, o come l’esercizio di qualche altro mestiere. Il sesto grado è che il monaco non sia turbato da fantasmi che rappresentano donne, neppure durante il sonno. È vero che noi riteniamo immune da colpa questa illusione notturna, tuttavia è segno di una concupiscenza che si nasconde nelle profondità del nostro essere. È poi certo che l’illusione di cui trattiamo si produce in diversi modi: ognuno infatti è tentato nel sonno secondo il modo d’agire o di pensare che tiene quando è sveglio. In un modo son tentati coloro che hanno avuto esperienze sessuali, in altro modo coloro che di tali esperienze sono privi. Questi ultimi sono inquietati da sogni che chiamerei più semplici e più puri, perciò possono liberarsene con minor diligenza e con minor fatica. I primi invece sono assaliti da immagini più sconce e più distinte, in modo che a poco a poco secondo la misura della castità alla quale tendono, l’anima loro incomincia a detestare anche nel sonno ciò che una volta le era causa di piacere. E questo è segno che le è stata concessa dal Signore la ricompensa promessa per bocca del profeta ai valorosi che meritano il premio delle loro fatiche: «L’arco e la spada e le belliche armi manderò infrante lungi dalla terra e li farò riposare al sicuro» (Os 2.18). Così il monaco potrà giungere persino alla castità dell’abate Sereno e di pochi altri monaci somiglianti a lui. Questa forma di castità l’ho voluta distinguere dai sei gradi sopra descritti perché è talmente alta che pochi soltanto possono, non dico possederla, ma addirittura crederla possibile. Oltre a ciò io non posso proporre a tutti, come un comando universale, quel grado che a Sereno fu concesso come dono straordinario della divina benignità. Non posso cioè chiedere che l’anima nostra giunga a tale grado di castità che scompaiano completamente anche i moti naturali della carne e il corpo non mostri più alcun segno o fenomeno riguardante la sfera sessuale. Non posso tacere la spiegazione che alcuni dànno a riguardo dei moti carnali che si producono nel sonno. Dicono essi che il fenomeno avviene, non già perché lo producono i sogni lascivi, ma piuttosto perché la sovrabbondanza degli umori naturali produce immagini seducenti in un cuore ammalato. Costoro assicurano che quando gli umori si estinguono anche le illusioni cessano. VIII – Coloro che non ne hanno esperienza, non possono trattare della natura e degli effetti della castità Nessuno mai potrà accettare e sperimentare queste cose, decidere se sono o no possibili, se prima non sia giunto là dove sono segnati i confini fra la carne e lo spirito. E per giungere a quella linea di demarcazione c’è bisogno d’una lunga esperienza, d’una grande purezza di cuore e della luce che deriva dalla parola di Dio. Dice infatti l’Apostolo: «Viva è la parola di Dio, ed efficace, e più tagliente d’una spada a due tagli, e penetrante sino a dividere l’anima e lo spirito, e le giunture e le midolle, e scrutatrice dei sentimenti e dei pensieri del cuore» (Eb 4,12). Posta sulla linea di confine tra la carne e lo spirito, la mente potrà giudicare con perfetta imparzialità ciò che è proprio e inevitabile alla condizione umana, distinguendolo da ciò che deriva da abitudini viziose, o dalla negligenza della gioventù. Tutto determinerà come se fosse spettatore spassionato, o un giudice imparziale. Riguardo alla natura ed agli effetti della carne e dello spirito, non si lascerà ingannare dalle false opinioni del volgo, o dai pregiudizi della gente sprovveduta, ma terrà come giusta misura la sua personale esperienza. Dopo un giusto esame deciderà quali sono le esigenze della purezza, senza cadere nell’errore di coloro che ricorrono alla condizione della natura umana per scusare certi atti o affetti che non hanno niente a che fare con la natura, ma sono dovuti solo a negligenza. È infatti certo che sono essi a far violenza alla natura perché produca effetti impuri; non è la natura a produrli spontaneamente. Giungono costoro ad attribuire la loro intemperanza ad una necessità della carne, anzi al Creatore stesso della natura umana, e tentano così di addossare alla natura il disordine della loro colpa. Di questi tipi parla molto a proposito il libro dei Proverbi: «La stoltezza dell’uomo corrompe le sue vie, e poi in cuor suo incolpa Dio» (Pr 19,3: LXX). Se c’è qualcuno che non intende prestar fede a queste mie affermazioni, io lo prego di non discutere con me partendo da un’opinione preconcetta. Faccia prima l’esperimento della vita eremitica, e lo faccia per qualche mese, secondo tutte le forme prescritte; potrà allora accettare per vero tutto quello che ho detto. È sciocco discutere sul fine di una disciplina o di un’arte senza essere prima entrati, con tutto il cuore e con tutte le forze, nei segreti di quell’arte. Per esempio: io dico che dal grano si può estrarre una specie di miele o un olio dolcissimo, somigliante a quello che si estrae dai semi di lino e di ravanello. Uno dei presenti, completamente ignaro del fatto, incomincia a dire che ciò è contro natura, e mi deride come colpevole di ima menzogna patente. Io allora gli porto testimonianze innumerevoli che affermano d’aver sentito e visto ciò, anzi di aver gustato e prodotto quel liquore; gli spiego poi tutta la serie di trasformazioni attraverso le quali il frumento diventa liquido come l’olio, o dolce come il miele. Quello però si ostina a negare che dal grano si possa ricavare qualche cosa di dolce o di grasso. Non è forse vero che sarà più giusto condannare la sua irragionevole ostinazione, che deridere la verità delle mie parole, ben fondate su testimonianze, numerose, fedeli e autorevoli, su dimostrazioni evidenti e, quel che più conta, comprovate dall’esperienza? Perciò colui che sarà arrivato, con una continua applicazione del cuore, a tal grado di purezza che la sua mente sia totalmente libera dalle sollecitazioni della passione impura, e la sua carne si liberi naturalmente nel sonno dall’abbondanza degli umori superflui, costui sarà in grado di comprendere, con assoluta certezza, la condizione della carne e le sue esigenze. E così, quando allo svegliarsi, egli si accorgerà che dopo lungo tempo la sua carne si è liberata nel sonno dagli umori naturali e superflui — e ciò a sua completa insaputa — allora egli potrà parlare di necessità naturale. Costui, senza dubbio, è giunto ad uno stato in cui sarà trovato uguale la notte e il giorno, in letto e alla preghiera, solo e tra la gente. Mai si troverà nell’intimo in una condizione che lo farebbe arrossire se altri lo vedessero; lo sguardo penetrante di Dio non scoprirà in lui alcunché che quello desideri tener nascosto alla vista dell’uomo. La luce soavissima della castità incomincia allora a carezzarlo con le sue continue gioie e gli fa dire col profeta: «La notte stessa è divenuta luminosa nello stato di felicità in cui mi trovo. Le tenebre non saranno buie per te, e la notte splenderà come il giorno: così è l’oscurità per te come la luce» (Sal 139 (138), 11-12). Siccome questo stato pare superiore alla natura umana, il profeta aggiunge una spiegazione sul modo in cui ha potuto ottenerlo: «Perché — egli dice — tu possiedi i miei reni» (Sal 139 (138), 13). È lo stesso che dire: io non ho meritato questa purezza coi miei sforzi o con la mia virtù; sei stato tu, Signore, ad estinguere l’ardore sessuale che si annidava nei miei reni. IX – È possibile evitare i moti della carne anche durante il sonno? Germano — Sappiamo per esperienza che con la grazia del Signore è possibile mantenere il nostro corpo perfettamente puro durante la veglia. Non saremo noi a negare che il rigore di una vita austera e la forza della ragione abbiano il potere di tener lontana ogni rivolta della carne. Vorremmo però sapere se sia possibile rimanere immuni da questa rivolta anche durante il sonno. Ci sono due ragioni per le quali crediamo che ciò non sia possibile. Un senso di pudore ci rende difficile manifestare quelle cause, ma siccome questo è necessario per ottenere il rimedio, parleremo. E tu perdonaci se le nostre parole saranno un poco grossolane. La prima ragione è che nella quiete del sonno il vigore dello spirito si attenua fino a scomparire, cosicché non possiamo neppure accorgerci delle commozioni della carne. La seconda ragione è che la quantità di orina, la quale va crescendo continuamente durante il sonno, può riempire la vescica e provocare una eccitazione nelle membra rilassate. A questo fenomeno sono soggetti anche i bambini e gli eunuchi. Da ciò si conclude che l’anima, pur non essendo ferita dal piacere impuro, è almeno umiliata dalla turpitudine del corpo. X – I moti della carne che si producono nel sonno non offendono la castità Cheremone — Ho l’impressione che non abbiate ancora capito qual è la natura della vera castità. Credete che si possa conservarla soltanto durante la veglia per mezzo di una vita austera; nel sonno (per la sospensione delle attività dello spirito) credete che non sia possibile custodire integra quella virtù. No: la castità non si fonda — come voi credete — sulla difesa di una vita austera, ma sull’amore che la virtù ispira, e sulle gioie che si gustano nella purezza stessa. Finché rimane qualche attrattiva per il piacere, si parlerà di continenza, non di castità. Vedete ora che il sonno non può nuocere a coloro che la grazia divina ha penetrato a fondo con l’amore della castità, sia pure che dormendo essi sospendano la loro austerità di vita. È anzi provato con certezza inoppugnabile che l’austerità può ingannarci anche durante la veglia. Un vizio che è tenuto lontano con fatica, darà al combattente una tregua passeggera, non la sicurezza o il riposo completo che succede alla fatica. Se invece il vizio è completamente vinto da una virtù che penetra fino nelle più riposte fibre dell’essere, si stimerà in seguito come debellato, non darà sospetti di rivolta, lascerà che il vincitore goda di una pace continua e imperturbata. Finché sentiamo ribellioni della carne, ammettiamo che non siamo ancora arrivati alle vette della castità, ma siamo ancora nel dominio fluttuante della continenza, dove si svolgono battaglie continue con esito necessariamente dubbio. Avete inoltre provato che le commozioni della carne sono inevitabili portando come esempio gli eunuchi, i quali, sebbene mutilati, non vanno esenti da questo fenomeno. Ma dovete ricordare che agli eunuchi manca soltanto la capacità di generare, non l’ardore della carne, o lo stimolo della libidine. Da ciò consegue che se essi vogliono arrivare a quella castità che è il fine dei nostri sforzi, non possono fare a meno dell’umiltà, della contrizione del cuore, dell’austerità, dell’astinenza. È vero però che essi possono acquistare la castità con meno fatica e meno applicazione di noi. XI – C’è una notevole differenza tra continenza e castità È chiaro che la perfetta castità si distingue dalla continenza rudimentale e faticosa per il segno di una tranquillità inalterabile. Tale è veramente la perfezione della vera castità: essa non ha più da combattere i movimenti della concupiscenza carnale, ma li detesta con odio completo e rimane in una purezza costantemente inviolabile. E questo non è altro che la santità. Tutto ciò avviene quando la carne cessa di aver desideri contrari allo spirito e comincia a consentire ai suoi desideri e alle sue virtù. I due elementi, prima nemici, incominciano ad unirsi coi legami di una pace fermissima e realizzano in sé la sentenza del salmista, là dove parla dei «fratelli che abitano insieme» (Sal 133 (132), 1). Posseggono già la beatitudine promessa dal Signore, che dice: «Se due si mettono insieme sulla terra a domandare qualsiasi cosa, essa sarà loro concessa dal Padre mio che è nei cieli (Mt 18,19). Chiunque avrà superato il grado di castità raffigurato nel «soppiantatore» Giacobbe, non solo paralizzerà il nervo del fianco, ma dalle lotte per la continenza e dal lavoro per sostituire la virtù ai vizi, si leverà al titolo glorioso d’Israele, e il suo cuore non devierà più dalla giusta direzione. David, ispirato da Dio, ha ben distinto questi due momenti nella vita dello spirito. «Dio — egli dice — si è fatto conoscere in Giudea» (Sal 76 (75), 2), cioè nell’anima che deve ancora confessare i suoi peccati. Giudea infatti significa confessione. Ma in Israele, cioè in colui che vede Dio, oppure — come vuole un’altra etimologia — nell’uomo perfettamente retto davanti a Dio, il Signore non è soltanto conosciuto, ma «grande è il suo nome» (Sal 76 (75), 2). Poi il salmista ci chiama verso altezze ancora più sublimi; vuol mostrarci il luogo stesso in cui Dio si diletta: «La sua dimora — egli dice — è stabilita nella pace» (Sal 76 (75), 3). In altre parole, la dimora di Dio non è là dove si svolge la lotta contro il vizio, ma nella pace della castità e nella perpetua tranquillità del cuore. Chi avrà meritato, con l’estinzione delle passioni carnali, di penetrare in questa dimora di pace, potrà continuare a progredire e diverrà una «Sionne» spirituale. Sion significa torre e osservatorio di Dio. Chi giunge a questo grado diventa dimora di Dio. Dio infatti non si trova in mezzo alle battaglie della continenza; la sua abitazione è l’osservatorio delle virtù. Là non si accontenta di rintuzzare o contenere gli assalti del vizio, ma addirittura spezza la potenza degli archi. Voglio dire di quegli archi dai quali un tempo partivano contro di noi le frecce infiammate dell’impurità. Convincetevi dunque che l’abitazione del Signore non è nei combattimenti della continenza, ma nella pace della castità, cioè nell’osservatorio e nella contemplazione della virtù. Il Salmista aveva ragione di porre le porte di Sion al disopra di tutte le tende di Giacobbe. «Il Signore — dice — ama le porte di Sion più che tutte le tende di Giacobbe» (Sal 87 (86), 2). Voi avete pur detto che certe commozioni della carne sono inevitabili, perché i bisogni naturali le producono durante il sonno. Io vi farò osservare che quelle commozioni, oltre a non recare alcun danno ai veri e sinceri ricercatori della purezza, per il fatto che si producono raramente, per necessità e nel sonno, sono anche soggette al dominio della volontà. Le membra eccitate in tal modo possono essere ridotte alla più assoluta calma per comando della castità, cosicché si quieteranno, non soltanto senza alcuna sensazione impura, ma anche senza il minimo ricordo di un piacere meno nobile. Per mettere in accordo la legge dello spirito con quella della carne, sarà dunque necessario mortificare e regolare anche l’uso dell’acqua. Gli umori naturali si formeranno in minor quantità in un corpo inaridito, e così quei moti carnali che voi stimate inevitabili, non soltanto diventeranno rarissimi, ma si faranno deboli e susciteranno un fuoco senza ardore, una fiamma che chiamerei fredda, la quale, invece di bruciare, rinfranca. Avverrà qualcosa di somigliante alla meravigliosa visione di Mosè: il roveto della nostra carne, avvolto di un fuoco innocente, non sarà consumato. Oppure avverrà a noi quel che avvenne ai tre fanciulli nella fornace di Babilonia, dai quali il soffio dello spirito divino allontanava così bene le fiamme, che l’ardore del fuoco non sfiorò minimamente né i capelli, né le frange delle vesti. In tal modo, già da questa vita, incominceremo a possedere quel che è promesso ai santi per bocca del profeta: «Quando passerai per mezzo al fuoco, non ti brucerai e l’ardore della fiamma non ti assalirà» (Is 43,2). XII – Le meraviglie che il Signore opera nei suoi santi Grandi davvero e meravigliosi e sconosciuti — a meno che non si tratti di coloro che li conoscono sperimentalmente — sono i doni che Dio elargisce con liberalità indicibile ai suoi fedeli, anche mentre vivono nella carne corruttibile. Il profeta, dopo aver considerati quei doni a uno a uno, nella purezza dell’anima sua, parlando a nome proprio e a nome di coloro che giungono a questo stato di pace, a questa condizione di castità, esclama: «Le tue opere sono ammirabili, e l’anima mia gode nel contemplarle» (Sal 139 (138), 14). Ma era questo il senso inteso dal Salmista? Si. Altrimenti, se avesse parlato in altro senso, se avesse inteso fare allusione ad altre opere, non avrebbe detto niente di nuovo o di grande. Certo, nessuno può negare che le meraviglie del Signore si vedono anche nella vastità del creato. Ma i doni che Dio dispensa ai suoi santi, giorno per giorno; i doni di cui li ricolma con larghezza inaudita, nessuno li conosce, tranne l’anima che li riceve. Essa ne è l’unico testimone nel segreto della sua coscienza, e testimone muto, perché quando dalla considerazione tutta infocata di quei doni ridiscende al contatto delle cose materiali e terrestri, non ha parole per dire ciò che ha provato: l’intelligenza e la riflessione sono incapaci di concepire sì alta realtà. Chi potrebbe non ammirare in sé le meraviglie operate da Dio, quando si accorge che l’istinto della golosità e la ricerca dispendiosa e dannosa dei piaceri della tavola sono cose totalmente scomparse, così che ora prende, raramente e di malavoglia, un cibo limitato nella quantità e rozzo nella qualità? Chi potrebbe non rimanere altamente stupito davanti alle opere del Signore, accorgendosi che il fuoco dell’impurità, considerato prima come una conseguenza della natura e in qualche modo inestinguibile, s’è talmente raffreddato, da non lasciargli provare più un movimento carnale, neppure di quelli senza colpa? E come non ammirare tremanti la virtù del Signore, quando si vedono uomini per l’innanzi crudeli e feroci, divenuti così miti che non soltanto non si lasciano eccitare dalle ingiurie, ma arrivano a goderne con invitta magnanimità? Chi non si meraviglierà dinanzi a queste opere di Dio? Chi potrà astenersi dal gridare, dal profondo del cuore: «Ho compreso che il Signore è grande» (Sal 135 (134), 5), allorché si accorgerà che lui stesso o qualche altro è passato dalla più sordida avarizia alla più alta liberalità; dalla prodigalità a una vita d’astinenza; dalla superbia all’umiltà; dalle delicatezze alla rozzezza e alla povertà del vivere, abbracciata volontariamente e perfino gioiosamente? Queste sono le meraviglie divine che l’anima del profeta, e altre anime somiglianti a quella, scoprono con stupore quando si dànno alla contemplazione. Ecco i prodigi che Dio ha operato sopra la terra, che, appena manifestati, fanno dire così al profeta che invita tutti i popoli ad ammirarli: «Venite, vedete le opere del Signore, quali prodigi egli fa sulla terra! Spazza via le guerre fino ai confini della terra, spezza l’arco e rompe le lance, e brucia gli scudi nel fuoco» (Sal 46 (45), 9-10). Quale prodigio può essere più grande che vedere dei pubblicani avarissimi, diventati in un momento apostoli; dei persecutori furibondi, cambiati in predicatori del Vangelo, pronti a sopportare qualsiasi cosa, anche a testimoniare col sangue la fede che perseguitavano? Queste sono quelle opere di Dio che Gesù Cristo afferma di compiere ogni giorno unitamente al Padre suo: «Il Padre mio — egli dice — opera fino al presente, e io lavoro con lui» (Gv 5,17). Di queste opere di Dio il profeta David così canta, sotto l’ispirazione divina: «Benedetto il Signore Iddio d’Israele, che solo opera portenti» (Sal 72 (71), 18). Di questi prodigi parla anche il profeta Amos: «Egli fa tutte le cose e le trasforma; cambia in un bel mattino anche l’ombra di morte» (Am 5,8: LXX). «Questi cambiamenti — dice ancora il salmo — sono opera della mano di Dio» (Sal 77 (76), 11). Intende riferirsi a quest’opera di salute il profeta che prega così: «Consolida, o Dio, ciò che hai fatto in noi» (Sal 68 (67), 29). Niente dirò di quelle correnti divine, segrete e nascoste, da cui l’anima dei santi è percorsa ad ogni istante; niente di quella infusione della gioia spirituale che solleva l’anima depressa e le ispira contentezza; niente di quei moti infocati del cuore, di quelle consolazioni dolcissime che la lingua non sa descrivere e l’orecchio non sa intendere, ma che tuttavia ci svegliano spesso dall’ignavia e dall’inazione, come da uno stato di sonno profondo, per farci passare alla preghiera più fervorosa. Questa è la gioia di cui parla l’Apostolo quando dice: «Occhio umano mai non vide, né orecchio udì, né mai ascese nel cuore dell’uomo» (1 Cor 2,9). L’Apostolo però prende come soggetto del suo dire uno che, inebetito dai vizi della carne, è rimasto attaccato alle passioni umane ed è perciò incapace di gustare anche una minima parte di questi doni. Di se stesso, invece, e di altri che secondo il suo esempio si sono già resi estranei al modo di vivere comune agli uomini, l’Apostolo dice: «Ma a noi lo rivelò Dio, per mezzo dello Spirito suo» ! Cor 2,10). XIII – Solo chi l’ha provata può conoscere la dolcezza della castità In tutti costoro, dunque, quanto più l’anima progredisce verso una maggiore purezza, tanto più s’innalza la contemplazione di Dio. Ma chi fa una simile esperienza non trova parole per spiegarla, non sa fare discorsi per manifestarla ad altri: sente soltanto crescere in sé il senso della meraviglia. Come non potrebbe immaginare una simile gioia chi non l’ha mai provata, così chi l’ha provata, non la potrebbe esprimere. È come se uno non avesse mai gustato niente di dolce e gli si volesse far intendere quanto sia dolce il miele. Si otterrebbe questo risultato: colui che mai assaggiò il miele non se ne immaginerà la dolcezza per le parole che gli giungono all’orecchio, e chi quella dolcezza l’ha gustata, non saprà ridirla a parole. Così finirà con l’ammirare silenziosamente in sé stesso il sapore soave di cui ha fatto esperienza, allietandosi di una conoscenza che lui solo possiede. La stessa cosa accade a colui che ha meritato di raggiungere quel grado eccelso di virtù del quale parliamo. Egli considera silenziosamente le meraviglie che Dio opera, con grazia tutta particolare, in coloro che gli appartengono; nell’ammirazione estatica che questo pensiero gli suscita, si infiamma e grida dal più profondo del cuore: «Le tue opere, Signore, sono ammirabili, e l’anima mia si diletta a contemplarle» (Sal 139 (138), 14). Questo è un vero miracolo di Dio: che un uomo di carne, e vivente nella carne, abbia ripudiato tutti gli affetti carnali; che lo stesso uomo, in circostanze spesso difficili, sotto assalti continui, conservi una costante disposizione di spirito e rimanga sempre uguale, in mezzo al continuo fluire degli avvenimenti. Un vecchio, solidamente fondato in questa virtù, viveva presso Alessandria, circondato da popoli infedeli, che lo ricoprivano di male parole, lo assalivano con gravi ingiurie e gli dicevano in tono ironico: «Quali miracoli ha fatto quel Cristo che tu adori?» Il vecchio rispose: «Questo è il miracolo: che le vostre offese, ed altre più gravi che potreste arrecarmi, non valgono ad inquietarmi e offendermi». XIV – Con quali penitenze e in quanto tempo si può giungere alla virtù della castità Germano. La castità, come tu ce l’hai presentata, non è più una virtù umana o terrena; sembra piuttosto un privilegio del cielo, un dono speciale degli angeli. Sorpresi e confusi, noi proviamo più spavento e disperazione che brama di conquistarla. Ti preghiamo ora di volerci insegnare, nella maniera più completa, quali osservanze e quanto tempo sia richiesto per acquistarla, affinché ci convinciamo di poterla raggiungere e ci invogliamo a conquistarla nello spazio di tempo stabilito. Per ora crediamo che questa virtù sia in certo modo irraggiungibile per uomini che vivono in questa carne, a meno che tu non ci manifesti il metodo e la via per cui la si possa raggiungere. XV – Quanto tempo è necessario per conoscere se la castità è possibile Cheremone. Sarebbe da temerari voler stabilire un periodo determinato di tempo per l’acquisto di questa castità della quale parliamo; soprattutto quando si pensi alla grande differenza di volontà e di forze che esiste tra gli uomini. Una tale precisione sarebbe difficile anche per le arti materiali e per le discipline visibili, nelle quali l’applicazione dell’allievo e i suoi doni naturali rendono più rapida o più lenta la buona riuscita. Posso dirvi però quali sono le osservanze necessarie e quale è il tempo richiesto per conoscere almeno la possibilità di questa virtù. Il monaco che si è liberato da tutti i discorsi oziosi, che mortifica ogni sentimento d’ira, ogni sollecitudine e preoccupazione terrestre; si contenta di due pagnotte per il suo nutrimento quotidiano; fa a meno di bere, anche acqua, fino alla sazietà; si accontenta di tre o quattro ore di sonno, e con tutto questo non crede affatto di poter acquistare quella virtù per il suo merito o per la sua fatica o astinenza, ma l’aspetta unicamente dalla divina misericordia — perché senza questa convinzione vani sarebbero tutti gli sforzi umani — questo monaco, dico, non avrà bisogno di uno spazio di tempo superiore ai sei mesi per accorgersi che non gli è impossibile giungere alla perfezione della castità. Da quanto detto, avete compreso che il segno certo di una purezza ormai vicina è questo: che si cominci a non attenderla più dai nostri sforzi. Chi ha compreso tutta la verità di quel versetto: «Se il Signore non edifica la casa, si affaticano invano quelli che la costruiscono» (Sal 127 (126), 1), non si fa un merito orgoglioso della sua purezza, perché vede anche troppo bene che gli viene dalla misericordia del Signore e non dalla sua diligenza. Costui non si leva più contro gli altri, con rigore severo, perché sa che la virtù dell’uomo è nulla, se non è aiutata dalla virtù divina. XVI – Fine e rimedio detta castità Per ogni monaco che combatte con tutte le forze contro lo spirito di fornicazione, è già una bella vittoria non attendere il risultato dal merito dei suoi sforzi. Questa persuasione sembra facile e naturale, invece è difficile, per i principianti, quanto la stessa castità perfetta. Essi infatti appena si vedono in possesso di qualche briciola di castità si lusingano e si lasciano penetrare sottilmente nel cuore un sentimento di orgoglio, per cui credono che quei risultati sono stati raggiunti grazie al loro impegno e alla loro diligenza. È necessario allora che costoro si vedano ritirare per qualche tempo l’aiuto divino, e subiscano la tirannia delle passioni che la divina virtù aveva estinto, finché non si saranno persuasi che mai potranno, con le loro forze e col lavoro personale, acquistare il bene della purezza. Ma questo discorso sul grado più alto della castità, è andato già per le lunghe; concludiamo ora ricapitolando in una sola proposizione tutti i pensieri che abbiamo svolto qua e là. Ecco: La perfezione della castità esige che il monaco, durante la veglia, non sia mai turbato dal piacere della carne; durante il sonno, poi, non sia ingannato da illusioni lubriche; se (mentre dorme e la volontà è sospesa) sopravverrà qualche moto della carne, sia un moto che si produce senza alcuna compiacenza impura e scompare senza lasciare nel corpo eccitazione di sorta. Ho parlato della perfetta castità come meglio ho potuto, prendendo la mia dottrina dall’esperienza e non dai precetti verbali. Penso che i monaci pigri e negligenti troveranno probabilmente impossibile quanto ho detto, ma son certo che le anime spirituali e amanti della perfezione mi comprenderanno e mi approveranno. La distanza tra un uomo e un altro è pari alla distanza che separa le mete alle quali si rivolge il loro cuore: quelle mete sono: il cielo o l’inferno, Cristo o Belial, secondo quella parola del nostro Salvatore e Signore: «Chi mi vuol servire, mi segua; perché dove sarò io, quivi sarà anche il mio servo» (Gv 12,26). E ancora: «Dove è il tuo tesoro, quivi sarà anche il tuo cuore» (Mt 6,21). * Qui terminò la conferenza dell’abate Cheremone sulla castità perfetta: questa fu la conclusione da lui apposta alla sua mirabile dottrina sulla più sublime purezza. Noi rimanemmo incantati e oppressi, ma Cheremone, vedendo che la più gran parte della notte era già trascorsa, ci consigliò di non negare alla natura quel tanto di sonno che giustamente ci chiede, affinché l’anima, aggravata dalla stanchezza del corpo, non perdesse il suo vigore e il suo ardente proposito. TERZA CONFERENZA DELL’ABATE CHEREMONE LA PROTEZIONE DI DIO PREMESSA ALLA CONFERENZA XIII Ed eccoci ora alla famosa Conferenza XIII, motivo di tante discussioni al punto da fare apparire Cassiano tra i promotori del semipelagianesimo. Di questa Conferenza ho già parlato nell’Introduzione; basterà ricordare ora che Cassiano, nella sua trattazione, ammette che «talvolta» e «in qualche caso» l’uomo è in grado di premettere qualche apporto iniziale nel disporsi ad operare il bene. Fu appunto per questa lieve concessione che ebbe origine quella reazione così forte contro di lui. Gli studi più recenti hanno tentato di riparare e di rimettere nella giusta luce la posizione di Cassiano su questa questione. Oltre i giudizi, già riportati nelle pagine dell’Introduzione, valga ancora questa conclusione del De Plinval (Storia dell Chiesa, Vol IV): «Cassiano non attinge nulla da Pelagio, né professa la dottrina dell’impeccantia; nella sua famosa Conferenza sulla “protezione divina” pone formalmente come principio che Dio è la sorgente necessaria di tutti i nostri buoni pensieri e delle nostre buone azioni, limitandosi a proporre la questione se il bonum naturae sia così indebolito da non poter attribuire all’uomo, dopo Adamo, alcuna buona iniziativa; egli sembra distinguere due modi nell’azione della grazia: un’azione salvatrice, in cui Dio sostiene la parte più importante, e un ‘azione tutelare, in cui Dio, susceptor, asseconda e corona i nostri sforzi personali… Per un riguardo a sant’Agostino, Cassiano usò un grande riserbo e non volle ingaggiare alcuna polemica, merito, questo, che non gli si volle riconoscere». 1. Premessa Dopo aver preso un breve riposo, facemmo ritorno per assistere alla sinassi del mattino e per attendere l’anziano abate. L’amico Germano era turbato da un grave problema: infatti, nella precedente conferenza (Sulla castità. Ndr), la cui efficacia aveva destato in noi un grande desiderio della castità, fino ad allora poco conosciuta, quel beato vegliardo, con l’aggiunta d’una sua sentenza, aveva annullato il merito dell’impegno da parte dell’uomo, ammettendo che l’uomo, per quanto si adoperi con tutte le sue forze per arrivare a quella meta, non può tuttavia giungervi, se non per la sola elargizione della grazia divina, e non certo per l’impegno del suo operare. Mentre noi eravamo del tutto occupati in questa discussione, Cheremone, che allora usciva dalla sua cella, accortosi che noi stavamo dibattendoci su qualche questione, una volta terminata la funzione destinata alle preghiere e ai salmi, ci chiese la ragione della nostra animata discussione. 2. Questione: perché non vengono attribuiti i meriti della virtù a coloro che vi si impegnano? Germano: «Quanto noi ci sentiamo come esclusi, per così dire, dal credere possibile il raggiungimento della sublimità di quella virtù, così come essa ci è apparsa nella conferenza di questa notte, altrettanto ci sembra assurdo, sia detto con tua buona pace, ammettere che la ricompensa di quelle fatiche, vale a dire la perfezione della castità, la quale si acquista con la perseveranza del proprio sudore, non venga particolarmente riconosciuta come impegno di chi si affatica. È infatti del tutto inopportuno comportarsi come se, per esempio, vedessimo un contadino dedicare il suo impegno ininterrotto a coltivare il suo campo, e poi finissimo per non ascriverne anche il frutto all’efficacia del suo lavoro». 3. Risposta: senza l’aiuto di Dio non solo non è possibile la perfezione della castità, ma neppure, in modo assoluto, il raggiungimento di qualunque bene. CHEREMONE: «Con questo esempio, da voi proposto, si dimostra proprio con maggiore evidenza che l’abilità di chi si affatica non può raggiungere alcun risultato senza l’aiuto di Dio Nota. Il contadino infatti, anche quando ha posto in atto tutte le sue iniziative nel coltivare i campi, non potrà attribuire alla propria attività il prodotto delle messi e l’abbondanza dei frutti, di cui invece frequentemente egli ha sperimentato la mancanza, a meno che l’opportunità delle piogge e la buona stagione invernale abbiano accompagnato il raccolto; può darsi il caso però di vedere i frutti già stagionati e giunti a completa maturazione strappati via, in un certo modo, dalle mani di chi già li teneva stretti, senza aver così apportato alcuna ricompensa a chi aveva effuso in quella fatica una continuata abbondanza di sudore, e questo perché il suo lavoro non era stato protetto dal soccorso richiesto al Signore. Come dunque ai contadini ignavi, i quali non sottopongono frequentemente i loro campi all’aratro, la pietà divina non concede l’abbondanza dei raccolti, così pure la continuata laboriosità non gioverà ai contadini, anche se operosi, se non sarà protetta dalla misericordia del Signore. Mai dunque l’orgoglio dell’uomo ardisca adeguarsi o accompagnarsi alla grazia di Dio, e mai perciò ardisca di immettersi nei favori concessi da Dio al punto di ritenere che le sue fatiche abbiano indotto Dio alla elargizione di quei favori oppure che il provento di quei frutti copiosissimi sia dovuto ai meriti della sua operosità. Piuttosto egli consideri e valuti con esame sincero il fatto che non avrebbe potuto esercitare quegli stessi sforzi, intrapresi unicamente perché indotto dal desiderio dell’abbondanza, se, ad attuare ogni esercizio della sua attività rurale, non l’avessero sostenuto la protezione e la misericordia del Signore: di fatto, la sua volontà e la sua operosità sarebbero risultate inefficaci, se la divina clemenza non avesse inoltre concesso una sovrabbondanza di operosità, altrimenti impedita dal sopraggiungere della siccità o dall’eccedenza delle piogge. In realtà, allorché la forza dei buoni, la salute del corpo, l’efficacia di tutte le opere e la prosperità di tutte le iniziative sono state sostenute dal Signore, occorre ancora ricorrere alla preghiera, affinché non avvenga all’agricoltore, come è stato scritto, “un cielo di rame e una terra di ferro” (Dt 28,32), come pure che “l’avanzo della cavalletta non lo divori la locusta, l’avanzo della locusta non lo divori il bruco, e l’avanzo del bruco non lo divori la ruggine” (Gal 1,4). E non soltanto in questi limiti l’attività dell’agricoltore laborioso ha bisogno dell’aiuto divino; ne ha bisogno pure perché siano evitati casi imprevisti, nei quali, anche se i suoi campi fossero riforniti della desiderata abbondanza di frutti, non solo egli potrebbe essere deluso nella vana attesa delle sue speranze, ma potrebbe pure rimanere privato dell’abbondanza delle messi raccolte e depositate nell’aia o nel granaio. Da quanto precede si deduce con evidenza che da Dio deriva non solo l’avvio delle opere, ma anche dei pensieri buoni: è Lui che ci ispira le opere animate da una volontà santa, e le decisioni e l’opportunità di porre in atto quello che rettamente noi desideriamo. Infatti “ogni buona elargizione e ogni dono perfetto viene dall’alto e discende dal Padre della luce” (Gc 1,17), il quale inizia, prosegue e conduce a buon fine in noi ciò che è buono, così come dice l’Apostolo: “Colui che somministra il seme al seminatore e il pane per il nutrimento, somministrerà e moltiplicherà anche la vostra semente e farà crescere i frutti della vostra giustizia” (2 Cor 9,10). È dunque nostro dovere seguire umilmente la grazia divina che ci attrae, oppure, resistendo certamente ad essa, “come gente dalla dura cervice e dalle orecchie incirconcise” (At 7,51), meritare di sentirci dire per mezzo del profeta Geremia: “Forse chi cade, non si rialza? E chi perde la strada, non torna indietro? Perché allora questo popolo di Gerusalemme s’è allontanato da me con un’avversione così ostinata? Hanno indurito la loro cervice e non hanno voluto ritornare” (Ger 8,4-5)». 4. Obiezione: Come hanno fatto i pagani, stando a quello che si dice, a conservare la castità senza la grazia di Dio? Germano: «Ad una tale illazione, la cui pietà non può certo essere sconsigliatamente negata da parte nostra, sembra contrastare però il fatto che essa tende a distruggere il nostro libero arbitrio. Infatti, potendo noi osservare che molti tra i gentili, pur non avendo certamente meritato la grazia divina, rifulgono non solo per la virtù della frugalità e della pazienza, ma anche, ed è ciò che più meraviglia, per la virtù della castità, come dovremo noi credere che ad essi furono elargite quelle virtù dalla concessione di Dio, una volta ristretto il libero arbitrio della loro volontà, e ammesso inoltre che essi, seguaci com’erano della sapienza mondana, ignoravano non solo la grazia divina, ma anche e del tutto il vero Dio? Eppure risulta dalla frequenza delle nostre letture e dalla tradizione di molti che essi hanno posseduto in sommo grado la purezza della castità in base ai loro sforzi personali». 5. Risposta: la castità dei filosofi pagani è immaginaria Cherimonene: «Mi è gradito che voi, infiammati come siete di conoscere la verità, proponiate certe questioni di poco conto, dalla cui soluzione però risulta maggiormente comprovata e, per così dire, più esplorata l’efficacia della fede cattolica. Chi infatti, pur sapiente, farebbe uso di affermazioni così contrarie al punto che, mentre ieri affermavate che la celeste purezza della castità non poteva essere conferita, per sé sola, a un uomo neppure attraverso la grazia di Dio, ora si dovrebbe ammettere che la stessa virtù era posseduta dai gentili perfino per il solo loro impegno? Ma poiché voi opponete queste obiezioni appunto, come s’è detto, allo scopo di esplorare la verità, eccovi quello che io penso a questo proposito. Anzitutto non si deve affatto ritenere che i filosofi pagani abbiano coltivato una tale castità quale è quella che si esige da parte nostra, poiché presso di noi, non solo non si deve parlare di fornicazione, ma neppure di impudicizia (Cf.Ef 5,3). Essi osservarono un certa morikén, vale a dire una piccola parte della castità, e cioè l’astinenza dalla carne intesa a trattenere la libidine al di qua dell’accoppiamento, ma non poterono osservare l’interiore purezza della mente e la continuata purezza del corpo, non dico di fatto, ma neppure di pensiero. Dopo tutto, il più famoso di quei filosofi, Socrate, dai pagani stessi per questo motivo portato alle stelle, non si vergognò egli stesso di confessare quanto io ho asserito. Di fatto, avendolo scorto uno di coloro che sono capaci di giudicare una persona, osservando le fattezze del suo volto, così colui si espresse: “Ecco gli occhi di un corruttore di giovani”, e poiché i suoi discepoli erano decisi a vendicare quell’ingiuria inferta al loro maestro, si dice che egli s’interpose con queste parole: “State calmi, amici, poiché io lo sono, ma mi trattengo”. Con tutta evidenza dunque si dimostra, non solo per la mia affermazione, ma anche per la stessa confessione da essi ammessa, come da loro venga unicamente compressa con necessaria violenza la vergogna dell’accoppiamento, non tuttavia il desiderio insito nel loro cuore, senza dunque escludere la compiacenza di quella passione. Con quale orrore allora dovrà essere riportata la sentenza di Diogene! Quello che i filosofi di questo mondo non hanno avuto ritegno di riportare come qualche cosa di memorabile, non può essere riferito né udito da noi senza vergogna. Egli infatti, ad uno che doveva essere punito per essere stato colto nella colpa di adulterio, così prese a dire: “Non acquistare con la morte quello che viene ceduto gratuitamente!”. Risulta dunque che quei filosofi non conobbero la virtù della castità così come da noi essa viene intesa, e perciò resta abbastanza sicuro che la nostra circoncisione, di natura spirituale, non può essere posseduta se non per sola concessione di Dio e potrà essere presente unicamente in coloro che si danno al servizio di Dio con tutta la contrizione del loro spirito. 6. Senza la grazia di Dio noi non potremo compiere nessuno sforzo Pertanto, sebbene si possa dimostrare che in molte cose, anzi, in tutte, gli uomini hanno sempre bisogno dell’aiuto di Dio e che la debolezza umana, in quello che riguarda la salvezza, nulla può per sé sola, ed è quanto dire che essa non può compiere nulla senza l’aiuto di Dio, in nessun altro campo tuttavia questo si dimostra quanto nell’acquisto e nella conservazione della castità. Volendo quindi per ora rimandare, sia pure per breve tempo, la trattazione intorno alle difficoltà riguardanti l’integrità della castità stessa, discorrerò, sia pur brevemente, dei mezzi per arrivare ad essa. Chi potrebbe essere in grado, mi chiedo, per quanto fervente di spirito, di sopportare con le sole sue forze e senza alcun sostegno umano, lo squallore della solitudine o anche, non dico il bisogno di un pane, sia pure secco, ma non bastante a sfamare? Chi potrebbe tollerare, senza il conforto del Signore, una sete perenne, privare gli occhi del dolce e dilettevole sonno del mattino e contenere nel giro di quattro ore, con un rigore continuato, tutto il ristoro del proprio riposo? Chi sarebbe in grado, senza la grazia di Dio, di sostenere una continuata e insistente lettura, e chi potrebbe tollerare una ininterrotta dedizione al lavoro, senza goderne alcun guadagno? Ne risulta quindi che questi sacrifici, come non possono essere desiderati da noi senza l’ispirazione divina, così pure non potranno in nessun modo essere affrontati da noi senza il suo aiuto. Ed ora, allo scopo di presentare questi medesimi concetti, basandoli non soltanto sulla verificata disciplina di un’esperienza effettiva, ma rendendoli ben manifesti in base a certi indizi e a certi argomenti, non è forse vero che per molti propositi, che noi desideriamo condurre a buon fine, allorché non manca la pienezza dell’ardore del nostro desiderio e la decisione della propria volontà, ecco proprio allora intervenire la nostra fragilità a interrompere i disegni concepiti, fino a impedirne l’attuazione, se non giunge il misericordioso aiuto del Signore a condurre a termine il nostro intento in modo che, pur essendo innumerevole la moltitudine di coloro che desiderano di impegnarsi fedelmente nell’acquisto delle virtù, tu troverai molto ridotto il numero di quelli che riescono a condurre a termine quei progetti e a tollerare quelle fatiche? Tralasci da parte il fatto che, anche quando non interviene per niente la nostra insufficienza, tutte le nostre facoltà, poste in atto, non sono in grado di condurre a buon fine i nostri propositi. Infatti noi non conserviamo, come vorremmo, il silenzio e il ritiro, non le prescrizioni del digiuno, non la continuità delle letture in quel tempo, in cui lo potremmo fare; al contrario, per l’improvviso incorrere di certe cause, siamo impediti, pur contro voglia, di compiere quei salutari doveri al punto che la disponibilità del luogo e del tempo, in cui sarebbe possibile attendere a quegli impegni, deve necessariamente essere domandata al Signore. E nemmeno risulta sicura per noi la possibilità di compiere quanto vorremmo, a meno che non ci sia concesso dal Signore l’opportunità di compiere quanto pure sarebbe possibile. Di queste circostanze anche l’Apostolo ha fatto cenno: “Abbiamo desiderato una volta, anzi due volte, di venire da voi, ma Satana ce lo ha impedito” (1 Ts 2,18). Può accadere che talvolta ci sentiamo perfino utilmente impediti di compiere questi nostri doveri spirituali al punto che, mentre, contro la nostra volontà, viene interrotto il nostro attendere all’esecuzione dei nostri impegni e concediamo perfino un allentamento alla nostra debolezza, proprio allora, pur contro voglia, noi veniamo riservati per una perseveranza salutare. Di una tale disposizione da parte di Dio, il beato Apostolo ha fatto qualche simile accenno: “A causa di questo per ben tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed Egli mi ha detto: Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta nella debolezza” (2 Cor 12,8-9) e ancora: “Non sappiamo che cosa sia conveniente domandare” (Rm 8,26). 7. L’iniziale disegno di Dio e la sua quotidiana provvidenza Il proposito di Dio, secondo il quale Egli non aveva creato l’uomo destinato alla morte, ma perché vivesse per l’eternità, rimane immutato. La sua benignità, non appena vede apparire in noi anche una pur minima scintilla di buona volontà, oppure è Lui stesso a suscitarla come da una dura selce del nostro cuore, la sorregge, la fortifica e la conforta con la sua ispirazione, “volendo che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità” (1 Tm 2,4), poiché, Egli aggiunge: “il Padre vostro celeste non vuole che si perda neanche uno solo di questi piccoli” e ancora: “Dio non vuole che anche una sola anima perisca, ma la richiama, pensando che non debba del tutto perire chi è stato cacciato fuori” (2 Re=2 Sam 14,14). Dio è verace e non mente, allorché Egli asserisce con giuramento: “Io vivo, dice il Signore; non voglio la morte del peccatore, ma che si converta dalla sua via e viva” (Ez 33,11). Come si può ammettere, senza commettere un grosso sacrilegio, che Dio non voglia che tutti, universalmente, siano salvi e che soltanto alcuni si salvino al posto di tutti, dal momento che lui non vuole che perisca uno solo di questi piccoli? Ne segue dunque che, quanti periscono, periscono contro la sua volontà; di fatto, contro ognuno di costoro, Egli esclama ogni giorno: “Convertitevi dalla vostra condotta perversa! Perché volete perire, casa di Israele?” (Ez 33,11). E di nuovo: “Quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli come una gallina raccoglie i pulcini sotto le sue ali, e tu non hai voluto” (Mt 23,37). E ancora: “Perché questo popolo in Gerusalemme si è ribellato con una ribellione cosi ostinata? (Ger 8,5). “Hanno indurito la faccia, non vogliono convertirsi” La grazia di Dio è ogni giorno a nostra disposizione, poiché essa, mentre “vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità” (1 Tm 2,4), convoca tutti gli uomini senza eccezione, cosi dicendo: “Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, ed io vi ristorerò” (Mt 11,28). Ma allora, se Egli non chiama tutti gli uomini in senso universale, ma solo alcuni, ne segue che non tutti sarebbero affaticati e non tutti con peccati attuali e con peccato originale, così come non risulterebbe vera quella sentenza: “Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio” (Rm 3,23), e neppure si crederebbe che “la morte ha raggiunto tutti gli uomini” (Rm 5,12). D’altra parte, tutti gli uomini che periscono, periscono contro la volontà di Dio, al punto che si afferma che Dio non ha creato la morte, come attesta la Scrittura: “Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi” (Sap 1,13) Avviene così che, per lo più, quando noi domandiamo cose contrarie al nostro bene invece di chiedere cose utili, la nostra preghiera viene esaudita tardi o non viene esaudita affatto; così pure, quello che noi non riteniamo esserci utile, il Signore, come un benignissimo medico, nonostante la nostra resistenza, utilmente si degna di inviarcelo; e così pure Egli talvolta impedisce e ritarda certe dannose nostre decisioni e sforzi funesti dal raggiungere il loro effetto detestabile, e così riporla verso la salvezza quanti corrono verso la morte, e revoca tali ignoranti dalle fauci dell’inferno. 8. La grazia di Dio e il libero arbitrio La parola di Dio espresse elegantemente, per mezzo Osea, questa sua premura provvidenziale, e lo fece sotto la figura della infedele Gerusalemme, tendente a professare con dannosa solerzia il culto degli idoli. A queste parole di lei: “Seguirò i miei amanti, i quali mi danno il mio pane e la mia acqua, la mia lana e il mio lino, il mio olio e le mie bevande” (Os 2,5), risponde la degnazione di Dio, tendente a procurare più la salvezza della città che non a soddisfare i suoi desideri: “Io sbarrerò di spine la sua strada e ne cingerò il recinto di barriere, ed essa non ritroverà i suoi sentieri. Inseguirà i suoi amanti, ma non li raggiungerà, li cercherà senza ritrovarli. Allora dirà: Ritornerò al mio marito di prima, perché ero più felice di adesso” (Os 2,6-7). E nuovamente Egli descrive con la seguente raffigurazione la ribellione e il disprezzo con cui noi lo respingiamo con uno spirito di rivolta, allorché Egli ci invita al ritorno che produce la salvezza: “Io dissi: Tu mi chiamerai padre e non tralascerai di seguirmi. Ma come una donna è infedele al suo amante, così la casa di Israele è stata infedele a me, dice il Signore” (Ger 3,19-20). Opportuno è dunque un tale richiamo, poiché quella raffigurazione ragguaglia Gerusalemme ad una sposa adultera, staccatasi dal proprio marito, e, in più, si paragona alla perseveranza dell’amore generoso del marito, perdutamente innamorato della propria sposa. In realtà la pietà e l’amore di Dio, sempre indirizzati al genere umano, poiché tali sentimenti non sono mai soverchiati dalle nostre offese al punto da indurre il Signore ad abbandonare la cura della nostra salvezza sì che, superata quella sua premura dalle nostre iniquità, Egli sia indotto ad abbandonare il suo principale proposito, non potevano essere espressi con altra raffigurazione meglio dell’esempio del marito che ama la propria moglie di un amore ardentissimo: il marito infatti, quanto più si vede trascurato dalla moglie, da tanto maggior trasporto si sente trascinato verso di lei. E dunque sempre inseparabilmente presente a noi la protezione divina, e la pietà del Creatore è così grande nei confronti della sua creatura che non solo la accompagna, ma la precede continuamente, e questo lo sperimentò il Profeta, tanto che apertissimamente ebbe a dire: “La misericordia del mio Dio mi precederà” (Sal 58,11). Egli infatti, non appena scorge in noi il sorgere della buona volontà, subito lo illumina, lo sorregge e lo stimola, donando l’incremento a quel seme che Egli stesso ha piantato e ha visto nascere con il nostro sforzo. E così Egli si esprime: “Prima che essi mi invochino, io li ascolterò; mentre ancora mi stanno parlando, io già li avrò ascoltati” (Is 65,24); e ancora: “Alle voci delle tue grida, il Signore, appena avrà udito, ti risponderà” (Is 30,19). 9. L’efficacia della buona volontà da parte nostra e il valore della grazia di Dio Ne risulta pertanto che non facilmente si comprende con l’umana ragione come il Signore dona a chi domanda, come viene trovato da chi lo cerca e come apre la porta a chi bussa e come sia trovato da chi non lo cerca, si manifesti apertamente fra quanti non lo interrogano, come ogni giorno tenda le sue mani a un popolo non credente e ribelle (Cf. Rm 10,21; Is 65,2), e in che modo chiami quanti gli resistono e restano lontani, attragga alla salvezza quanti non vogliono aderirgli, come sottragga, a quanti vogliono peccare, la facoltà di attuare i loro progetti, e come benignamente ponga ostacoli a quanti vorrebbero correre verso il male. A chi potrebbe apparire facilmente in che modo sia da attribuire al libero arbitrio dell’uomo il risultato ultimo della nostra salvezza, di cui è detto: “Se voi vorrete e mi ascolterete, mangerete i frutti della terra” (Is 1,19), e ancora: “Non dipende dalla volontà né dagli sforzi dell’uomo, ma da Dio, che usa misericordia” (Rm 9,16)? Che senso e che valore hanno queste parole, in cui è detto che Dio “renderà a ciascuno secondo le sue opere” (Rm 2,6), come pure: “È Dio che suscita in voi il volere e l’operare secondo i suoi benevoli disegni” (Fil 2,13), e ancora: “Questo non viene da voi, ma è dono di Dio, né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene” (Ef 2,8-9)? Che senso e che valore hanno pure queste parole: “Avvicinatevi a Dio, ed Egli si avvicinerà a voi” (Gc 4,8), così come dice altrove: “Nessuno viene a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato” (Gv 6,44)? Che significato hanno queste parole: “Rendi diritta la strada ai tuoi piedi e dirigi bene il tuo cammino” (Pr 4,26 LXX)? Che significa questo che noi diciamo, pregando: “Dirigi la mia via davanti al tuo cospetto”, e ancora: “Sulle tue vie tieni saldi i miei passi, affinché non vacillino i miei piedi” (Sal 5,9)? Che significato ha l’essere ancora noi ammoniti: “Formatevi un cuore nuovo e uno spirito nuovo” (Ez 18,31), come pure l’esserci offerta questa promessa: “Io darò loro un solo cuore, e metterò dentro di loro uno spirito nuovo; toglierò dal loro petto il cuore di pietra e darò loro un cuore di carne, perché seguano i miei decreti e osservino le mie leggi” (Ez 11,19-20)? Che significa questo precetto del Signore: “Purifica il tuo cuore dalla malvagità, Gerusalemme, perché tu possa uscirne salva” (Ger 4,14), e che cosa vuol dire la seguente richiesta presentata dal Profeta al Signore: “O Dio, crea in me un cuore mondo” (Sal 50,12), come pure: “Lavami, e sarò più bianco della neve” (Sal 50,9)? Che significano queste parole a noi rivolte: “Accendete in voi la luce della scienza” (Os 10,12 LXX), come pure queste altre, dette di Dio: “Egli insegna agli uomini la scienza” (Sal 93,10), e ancora: “Il Signore dona la vista ai ciechi” (Sal 145,8), come pure quello che noi, pregando, diciamo col Profeta: “Dona luce ai miei occhi, affinché io non mi addormenti nel sonno della morte” (Sal 12,4), e allora che significato hanno, ripeto, tali parole, se non che in questi passi si rivela la grazia di Dio e la libertà del nostro arbitrio, in quanto si dichiara che anche l’uomo può talvolta, di per sé, elevarsi al desiderio della virtù, pur avendo sempre bisogno d’essere aiutato dal Signore? Risulta infatti che uno, pur volendo, non gode della sanità o viene liberato dalle malattie per effetto del proprio arbitrio. A che giova il desiderio della propria salute, se non è Dio, il quale ci concede l’uso stesso della vita, a concederci pure il vigore della incolumità? Ora, affinché appaia con più evidenza che anche per effetto del benefìcio della natura, concesso dalla generosità del Creatore, si generano talora gli inizi della buona volontà, i quali, però, se non sono sorretti dal Signore, non possono giungere al conseguimento della virtù, ecco allora la testimonianza dell’Apostolo: “C’è in me la capacità di volere il bene, ma non trovo la capacità di compierlo” (Rm 7,18). 10. L infermità del libero arbitrio La Scrittura divina conferma la libertà del nostro arbitrio, dicendo: “Con ogni cura vigila il tuo cuore” (Pr 4,23), ma l’Apostolo conferma pure la sua infermità, dichiarando: “Il Signore custodirà i vostri cuori e le vostre intelligenze in Cristo Gesù” (Fil 4,7). Davide conferma la virtù del libero arbitrio, dicendo: “Ho piegato il mio cuore ai tuoi comandamenti” (Sal 118,112), ma egli stesso ne afferma l’infermità, così pregando: “Piega il mio cuore verso i tuoi insegnamenti e non verso la sete del guadagno” (Sal 118,36), e così pure Salomone: “Il Signore volga i nostri cuori verso di Lui, perché seguiamo tutte le sue vie e osserviamo i suoi comandi, le sue cerimonie e i suoi giudizi” (3 Re=1 Re 8,58). II salmista designa il potere del nostro libero arbitrio, dicendo: “Preserva la tua lingua dal male, e le tue labbra non pronuncino inganno” (Sal 33,14), come pure la nostra preghiera esprime la nostra infermità, dicendo noi stessi: “Poni, Signore, una custodia alla mia bocca, sorveglia la porta delle mie labbra” (Sal 140,3). La facoltà del nostro libero arbitrio viene dichiarata così dal Signore: “Sciogliti dal collo i legami, schiava, figlia di Sion”» (Is 52,2), mentre la sua fragilità così è posta in evidenza: “Il Signore libera i prigionieri” (Sal 145,7), come pure: “Hai spezzato le mie catene. A Te offrirò sacrifici di lode” (Sal 115,16-17). Nel vangelo noi ascoltiamo il Signore che ci invita perché accorriamo a Lui, indotti dal nostro libero arbitrio: “Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò” (Mt 11,28), ma il Signore stesso ne sottolinea la debolezza, dicendo: “Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato” (Gv 6,44). L’Apostolo indica la libertà del nostro arbitrio, dicendo: “Correte in modo da conquistare il premio” (1 Cor 9,24), ma Giovanni Battista ne attesta l’infermità, dicendo: “Nessuno può prendere qualcosa da sé, se non gli è stata data dal cielo” (Gv 3,27). Un Profeta ci comanda di custodire con sollecitudine la nostra anima con queste parole: “Custodite le vostre anime” (Ger 17,21), ma un altro Profeta, con lo stesso spirito, proclama: “Se il Signore non custodisce la città, invano vigila chi deve custodirla” (Sal 126,1 LXX). L’Apostolo, scrivendo ai Filippesi, accenna al loro libero arbitrio: “Attendete alla vostra salvezza con timore e tremore” (Fil 2,12), ma subito aggiunge per sottolinearne l’infermità: “È Dio che suscita in voi il volere e l’operare secondo i suoi benevoli disegni” (Fil 2,13). 11. Si chiede se la grazia di Dio precede o segue la nostra buona volontà Questi due elementi, grazia e libero arbitrio, sono fra loro, in un certo qual modo, frammisti e confusi senza una precisa distinzione, a tal punto che presso molti autori si discute con grande fervore che cosa e da che cosa ne derivi una conclusione, vale a dire si discute se, una volta ammesso da parte nostra l’inizio con la buona volontà, Dio abbia pietà di noi, oppure, se, una volta ammessa la misericordia di Dio nei nostri confronti, noi aderiamo ad essa con l’inizio della nostra buona volontà. Molti infatti, sostenendo singolarmente uno di questi argomenti e proponendolo più del necessario, sono caduti in diversi errori, perfino fra loro contrari. Se infatti diremo che tutto nostro è l’inizio della buona volontà, che dire di Paolo persecutore (Cf. At 9), che dire del pubblicano Matteo (Cf. Mt 9,9), dei quali uno, dedito ai supplizi e al sangue di innocenti, e l’altro, tutto occupato in violenti rapine, furono tuttavia entrambi condotti alla salvezza? Se invece diremo che l’inizio della buona volontà è sempre ispirato dalla grazia di Dio, che cosa diremo della fede di Zaccheo, che cosa diremo della pietà dimostrata sulla croce da quel ladrone (Cf. Lc 19,2 ss; 23,40 ss), i quali, facendo col loro desiderio una certa violenza al regno dei cieli, prevennero lo speciale intervento della chiamata divina? Se noi attribuiremo al nostro libero arbitrio il raggiungimento delle virtù e l’esecuzione dei precetti divini, come ricorreremo a questa preghiera: “Conferma, o Dio, quanto hai operato in noi” (Sal 67,29), e ancora: “Rafforza su di noi l’opera delle nostre mani” (Sal 89,17)? Noi sappiamo che Balaam fu pagato perché maledicesse Israele, ma vediamo pure che a lui, che pur lo desiderava, non fu permesso di esprimere quella maledizione (Cf. Nm 22,5 ss). Da Dio viene custodito Abimelech, perché, toccando Rebecca, non cada in peccato, offendendo Dio (Cf. Gn 20,6 Si tratta di Sara!). Giuseppe viene portato lontano dalla gelosia dei fratelli (Cf. Gn 37,28), affinché fosse disposta l’andata dei figli di Israele in Egitto; per essi, proprio mentre attendevano al modo di dare la morte al loro fratello, venivano predisposti i rimedi in vista della loro futura fame. Tutto questo lo stesso Giuseppe, una volta riconosciuto, lo manifesta ai suoi fratelli con queste parole: “Non temete e non vi sembri durezza il fatto d’avermi venduto in questo paese. Dio mi ha mandato qui prima di voi per la vostra salvezza” (Gn 45,5) e subito appresso: “‘Dio mi ha mandato qui prima di voi per assicurare la vostra sopravvivenza sulla terra e perché possiate avere gli alimenti per vivere. Non per vostra decisione, ma per la volontà di Dio io sono stato mandato qui, ed è Lui che mi ha fatto quasi padre del Faraone e signore di tutta la sua casa e governatore di tutta la terra d’Egitto” (Gn 45,7-8). E poiché, dopo la morte del padre, i fratelli vivevano con paura, Giuseppe, allo scopo di togliere loro ogni sospetto, così prese a dire: “Non temete! Possiamo noi resistere alla volontà di Dio? Voi avete pensato del male contro di me, ma Dio ha pensato di farlo servire a un bene per esaltarmi, come voi potete constatare, per far vivere molti popoli” (Gn 50,19-20), Anche Davide, nel salmo 104, dichiara ugualmente che tutto questo avvenne in quell’età secondo le disposizioni volute da Dio: “Chiamò la fame sopra quella terra e distrusse ogni riserva di pane. Davanti a loro mandò un uomo: Giuseppe fu venduto come schiavo” (Sal 104,16-17). Questi due elementi, pertanto, la grazia di Dio e il libero arbitrio, sembrano vicendevolmente contrari, e tuttavia tutti e due concordano, e noi ammettiamo di doverli accogliere a motivo della pietà, per non sembrare, sottraendone all’uomo anche uno solo, d’essere sottratti alla regola di fede propria della Chiesa. E in realtà, non appena Dio scorge che il nostro volere si avvia verso il bene, Egli accorre, ci dirige e ci conforta: “Alla voce di un tuo grido, appena Egli udrà, ti darà risposta” (Is 30,19), e ancora: “Invocami nel giorno della sventura, e tu mi darai gloria” (Sal 49,15). E di nuovo, se Egli s’avvede che noi non vogliamo, o siamo in preda della tiepidezza, allora Egli invia delle ammonizioni salutari nei nostri cuori, per effetto delle quali si risveglia in noi o si riforma il buon volere. 12. La buona volontà non deve essere attribuita sempre alla grazia, né sempre all’uomo Non bisogna credere che Dio abbia creato l’uomo in modo che non voglia né possa mai compiere il bene. In caso diverso non avrebbe concesso a lui il libero arbitrio, se avesse permesso che l’uomo volesse o potesse fare unicamente il male e avesse disposto che, per quanto dipendeva da lui, né volesse né potesse attendere al bene. Inoltre, come potrebbe reggersi la sentenza del Signore, pronunziata dopo la caduta del primo uomo: “Ecco, Adamo è diventato come uno di noi, in grado di conoscere il bene e il male” (Gn 3,22)? Non si deve credere infatti che in precedenza tale fosse l’uomo da ignorare del tutto il bene. In caso diverso bisognerebbe ammettere che l’uomo era stato creato come un essere irrazionale e insensato, ma questo è assurdo e del tutto alieno dalla fede cattolica. Al contrario, secondo la sentenza del sapientissimo Salomone, “Dio creò l’uomo retto” (Qo 7,29 LXX) vale a dire, in modo da godere sempre unicamente della scienza del bene: ma “gli uomini cercarono molti ragionamenti” (Qo 7,29 LXX), e divennero tali, come s’è detto, da conoscere il bene e il male. Ne segue dunque che Adamo concepì la scienza del male, che non possedeva prima della sua caduta, e non perdette la scienza del bene, ricevuta prima della caduta stessa. Infine, che il genere umano non abbia perduto, dopo la caduta di Adamo, la scienza del bene, viene dichiarato con tutta evidenza anche dalla sentenza dell’Apostolo, in cui afferma: “Quando i pagani, che non hanno la legge, agiscono per natura secondo la legge, essi, pur non avendo la legge, sono legge a se stessi; essi dimostrano che, quanto la legge esige, è scritto nei loro cuori, come risulta dalla testimonianza della loro coscienza e dai loro stessi pensieri, che ora li accusano, ora li difendono. Così avverrà nel giorno in cui Dio giudicherà i segreti degli uomini” (Rm 2,14-16). In questo stesso senso anche il Signore, per mezzo del Profeta, accusa la cecità dei Giudei, non naturale, ma volontaria, che essi stessi si procurarono con ostinazione: “Sordi, ascoltate; ciechi, volgete lo sguardo per vedere; chi è sordo, se non il mio servo? chi è cieco, se non colui, al quale io mandai i miei araldi?” (Is 42,18-19). Inoltre, affinché nessuno possa attribuire questa loro cecità alla natura, e non alla loro volontà, così si esprime in altro luogo: “Fa’ uscire il popolo cieco, che pure ha occhi; il popolo sordo, che pure ha orecchi” (Is 43,8); e di nuovo: “Voi, pur avendo gli occhi, non vedete; pur avendo le orecchie, non udite” (Ger 5,21). Anche il Signore nel vangelo così si esprime: “Essi, pur vedendo, non vedono; pur udendo, non odono e non comprendono” (Mt 13,13). Si compie in essi la profezia di Isaia, che così afferma: “Voi ascolterete, e non comprenderete; guarderete, e non vedrete. Il cuore di questo popolo si è indurito, e per la durezza delle loro orecchie essi non sono in grado di ascoltare; hanno chiuso i loro occhi, per non vedere con i loro occhi, per non ascoltare con le loro orecchie, per non comprendere con il loro cuore, e così si convertano ed io li risani” (Is 6,5-10 LXX). Infine, per confermare che in essi era presente la facoltà di compiere il bene, così il Signore rimprovera i farisei: “Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?” (Lc 12,57). Egli non avrebbe pronunciato un giudizio simile, se non avesse saputo che essi potevano, con il loro naturale discernimento, distinguere ciò che era giusto. Occorre dunque evitare da parte nostra di attribuire al Signore tutti i meriti dei santi al punto di non assegnare nulla alla natura umana all’infuori di quanto è cattivo e perverso. In tal caso noi saremo contraddetti dalla testimonianza del sapientissimo Salomone, anzi, dal Signore stesso, perché sue sono le seguenti parole: infatti, postosi a pregare dopo la costruzione del tempio, così ebbe a riferire: “Davide, mio padre, aveva deciso di costruire un tempio al nome del Signore, Dio di Israele, ma il Signore disse a Davide, mio padre: Tu hai pensato di edificare un tempio al mio nome; hai fatto bene a formulare un tale progetto, non tu però costruirai il tempio al mio nome” (3 Re = 1 Re 8,17-19). Bisognerà dunque concludere che quel progetto e quella formulazione del re Davide erano buoni e da parte di Dio, oppure ritenere che erano cattivi e da parte dell’uomo? Infatti, se quel progetto era buono e da parte di Dio, perché proprio da Lui, da cui era stato ispirato, ne fu negato il compimento? Se invece era cattivo e da parte dell’uomo, perché venne approvato dal Signore? Non rimane dunque da concludere che il progetto era buono, pur essendo stato ideato da parte dell’uomo. Con lo stesso criterio anche noi possiamo giudicare i nostri pensieri ogni giorno. Di fatto non fu concesso al solo Davide di pensare il bene, e allora non bisogna ritenere che a noi sia negato, per effetto della natura, il poter godere e pensare qualcosa di buono. Ne segue dunque l’esclusione del dubbio che non possano esistere in ogni anima, naturalmente, i germi della virtù in grazia del beneficio impartito dallo stesso Creatore; è vero però che, se questi germi non vengono incrementati dal soccorso di Dio, essi non potranno pervenire all’aumento della perfezione, poiché, secondo il beato Apostolo, “né chi pianta, né chi irriga è qualche cosa, ma è Dio che fa crescere” (1 Cor 3,7). Che poi dipenda dall’uomo indirizzare il libero arbitrio da una parte o dall’altra, lo insegna apertissimamente anche il libro cosiddetto del Pastore (Erma, il Pastore VIII,17), nel quale è detto che stanno vicini a ciascuno di noi due angeli, uno buono e uno cattivo, e che dipende dalla decisione dell’uomo scegliere quale dei due seguire. Ne segue quindi che permane sempre nell’uomo il libero arbitrio, il quale può non curare o apprezzare la grazia di Dio. E di fatto l’Apostolo non avrebbe suggerito questo precetto, dicendo: “Attendete alla vostra salvezza con timore e tremore” (Fil 2,12), se non avesse saputo che la salvezza può essere da noi curata, ma anche trascurata. Ma perché i cristiani non credessero di non aver bisogno dell’aiuto di Dio per assicurare l’opera della loro salvezza, egli soggiunge: “È Dio che suscita in voi il volere e l’operare secondo i suoi benevoli disegni” (Fil 2,13). Perciò, scrivendo a Timoteo, così gli parla: “Non trascurare la grazia di Dio, che è in te” (1 Tm 4,14), e ancora: “Per questo motivo ti ricordo di ravvivare la grazia di Dio che è in te” (2 Tm 1,6). Ne deriva pertanto che egli, scrivendo ai Corinti e ammonendoli a non rendersi indegni della grazia di Dio, compiendo opere infruttuose, arriva a dire: “Poiché siamo suoi collaboratori, vi esortiamo a non accogliere invano la grazia di Dio” (2 Cor 6,1). E poiché Simone, senza dubbio, aveva ricevuto questo dono, non gli giovò la ricezione di questa grazia della salvezza. Egli infatti aveva preferito non obbedire al precetto del beato Pietro, allorché gli diceva: “Pentiti dunque di questa iniquità e prega Dio che ti sia perdonato questo pensiero del tuo cuore. Io ti vedo infatti chiuso in fiele amaro e in lacci di iniquità” (At 8,22-23). Dio previene dunque la volontà dell’uomo, poiché così è detto: “Dio mio! La sua misericordia mi preverrà” (Sal 58,11). Sarà invece la nostra volontà a prevenire Dio, allorché Egli tarderà e, in certo qual modo, utilmente rimanderà di esaudirci allo scopo di mettere alla prova il nostro libero arbitrio; così infatti è detto: “Al mattino giungerà a Te la mia preghiera” (Sal 87,14), e di nuovo: “Ho prevenuto il mattino e ho gridato a Te” (Sal 118,147), e ancora: “I miei occhi hanno prevenuto il sorgere del giorno” (Sal 118,148). In più Egli ci chiama e ci invita, dicendo: “Tutto il giorno io ho steso le mani verso un popolo incredulo e ribelle” (Rm 10,21). Egli è invitato da noi, allorché gli diciamo: “Tutto il giorno io ho proteso verso di Te le mie mani” (Sal 87,10). Egli ci aspetta, come è detto per mezzo del Profeta: “Perciò il Signore aspetta, per avere pietà di voi” (Is 30,18). Egli pure è aspettato da noi, allorché gli diciamo: “Ho atteso il Signore, ed Egli mi ha guardato” (Sal 39,2), e ancora: “Aspetto da Te la salvezza, Signore!” (Sal 118,166). Egli ci conforta, dicendo: “Io li ho istruiti ed ho rafforzato il loro braccio, ma essi hanno tramato il male contro di me” (Os 7,15) e ci esorta ad appoggiarci a vicenda: “Irrobustite le mani fiacche, rendete salde le ginocchia vacillanti” (Is 35,3). Grida Gesù: “Chi ha sete, venga a me e beva” (Gv 7,37) ed anche il Profeta grida verso di Lui: “Sono sfinito dal gridare, sono riarse le mie fauci; i miei occhi si consumano nell’attesa del mio Dio” (Sal 68,4). Il Signore va in cerca di noi, dicendo: “L’ho cercato, ma non l’ho trovato; l’ho chiamato, ma non mi ha risposto” (Ct 5,6). Egli stesso è ricercato dalla sua sposa, che piange e si lamenta: “Sul mio letto, lungo la notte, ho cercato l’amato del mio cuore; l’ho cercato, ma non l’ho trovato; l’ho chiamato, ma non mi ha risposto” (Ct 3,1 LXX). 13. Gli sforzi dell’uomo non possono sostituire la grazia di Dio E così sempre la grazia di Dio coopera per il buon risultato con il nostro libero arbitrio e in tutto lo sostiene, lo protegge e lo difende al punto che talvolta essa esige e attende da quello alcuni sforzi di buona volontà, affinché non sembri che essa concede i propri doni a un individuo del tutto addormentato e in preda all’ignavia e all’ozio; la grazia di Dio cerca, in certo qual modo, le occasioni per le quali, una volta scosso il torpore dell’inerzia umana, non sembri irragionevole la larghezza della sua generosità, appunto perché essa concede quei doni sotto l’appiglio del desiderio e dello sforzo. Ciò nonostante, la grazia di Dio rimane gratuita, dato che essa concede, con larghezza inestimabile e in vista di sforzi tanto ridotti e tanto irrilevanti, una gloria immortale e doni di beatitudine eterna. La fede professata dal ladrone sulla croce fu espressa da lui per primo (Cf. Lc 23,40), ma non per questo occorre insistere e negare che a lui fu promessa gratuitamente la dimora nel paradiso; così pure non bisogna credere che sia stato il pentimento di Davide, quando disse: “Ho peccato contro il Signore” (2 Re = 2 Sam 12,13), a cancellare le sue due colpe così gravi, e non piuttosto la clemenza di Dio al punto da meritare di sentirsi dire per mezzo del profeta Nathan: “Il Signore ha perdonato il tuo peccato: tu non morirai” (Ibid.). L’avere Davide aggiunto l’omicidio all’adulterio, fu conseguenza del libero arbitrio; l’essere egli stato rimproverato per mezzo del Profeta, è frutto della grazia e della degnazione divina. E ancora: l’aver egli riconosciuto umilmente la propria colpa, è frutto della sua volontà; l’aver meritato, in un tempo così breve, il perdono per colpe così gravi, è dono della misericordia del Signore. Che dire allora di questa così breve confessione e dell’incomparabile larghezza della ricompensa divina, tenendo presente quanto sia facile considerare quello che il beato Apostolo ha detto in riferimento alle persecuzioni senza numero da lui subite in vista della ricompensa futura così grande? Così egli si esprime: “Il momentaneo e leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria” (2 Cor 4,17). E sempre coerente a se stesso, dice altrove: “Le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi” (Rm 8,18). Ne segue dunque che, per quanto l’umana debolezza si sforzi, mai potrà adeguarsi alla ricompensa futura e neppure riuscirà a sminuire con i suoi sforzi la grazia di Dio al punto che questa non continui ad essere sempre gratuita. Appunto per questo il suddetto maestro dei gentili, benché confessi d’aver ricevuto la missione del suo apostolato dalla grazia di Dio al punto di affermare: “Per la grazia di Dio sono quello che sono” (1 Cor 15,10), tuttavia egli stesso dichiara d’aver risposto alla grazia divina fino ad asserire: “La sua grazia in me non è stata vana; anzi, ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me” (1 Cor 15,10). Infatti, dicendo “ho faticato”, egli indica lo sforzo derivato dal proprio libero arbitrio; dicendo “non io, ma la grazia di Dio”, egli indica l’efficacia della protezione divina; dicendo “che è con me”, egli dichiara che essa ha cooperato, non con un individuo ozioso e irresponsabile, ma con una persona dedita alla fatica e al lavoro sudato. 14. Con le tentazioni, da Lui stesso inviate, Dio mette alla prova le forze del nostro libero arbitrio Noi leggiamo che la giustizia divina operò tutto questo anche a proposito di Giobbe, suo apprezzatissimo atleta, allorché il demonio lo reclamò per un singolare combattimento. Infatti, se egli avesse affrontato il suo nemico, sostenuto non dalla propria virtù, ma soltanto dalla grazia divina e, senza il ricorso al sostegno offerto dalla propria pazienza, ma con il conforto offertogli unicamente dall’aiuto divino, avesse sopportato quei molteplici assalti e il peso esiziale delle tentazioni ricercate dalla totale crudeltà del suo nemico, come mai il demonio non avrebbe ripreso con più diritto contro di lui quella voce calunniosa, già da lui emessa in precedenza: “Forse che Giobbe teme Dio per nulla? Non hai forse messa una siepe attorno a lui e alla sua casa e a tutto quello che è suo? Ritira la tua mano … ”, vale a dire lascia che egli combatta con me con le sole sue forze, “e allora vedrai se egli ti benedirà ancora in faccia!” (Gb 1,9-11 LXX. Citazione riferita a memoria. Letteralmente “Stendi la mano e tocca quanto ha”). D’altra parte, poiché quel nemico calunniatore, dopo il conflitto, non osa ripetere quella lamentosa recriminazione, egli confessa perciò di essere stato vinto, non però dalla virtù di Dio, ma da Giobbe, e benché sia pure da ritenere che a Giobbe non venne del tutto a mancare la grazia di Dio, la quale aveva concesso al tentatore tanto potere quanto sapeva che Giobbe ne aveva per resistere, non l’aveva però protetto da quegli assalti in modo tale da non lasciare alla virtù dell’uomo nessuno spazio: aveva solamente procurato che quel violentissimo nemico non rendesse l’anima di Giobbe priva di ragione e menomata di senso, in modo da abbatterlo poi in base all’ineguaglianza dell intelligenza e al diverso peso della lotta. Che dunque il Signore intenda talvolta mettere alla prova la nostra fede per renderla più forte e più gloriosa, ce lo dimostra l’esempio del centurione del vangelo. Il Signore, pur sapendo che avrebbe potuto curare il suo servo con il potere della sua parola, preferì offrire la sua presenza corporale, dicendo: “Io verrò e lo curerò” (Mt 8,7). Il centurione sentì aumentare la sua fede per essersi il Signore offerto ad andare di persona, e allora esclamò: “Signore, io non sono degno che tu entri sotto il mio tetto; di’ soltanto una parola e il mio servo sarà guarito” (Mt 8,8). Il Signore, preso d’ammirazione, lo lodò fino a dargli la preferenza su quanti, del popolo di Israele, avevano pur creduto in Lui, e dichiarò: “In verità vi dico: io non ho trovato in Israele una fede così grande!” (Mt 8,10). Non vi sarebbe stato in quel centurione nessun motivo di lode o di merito, se in lui Cristo avesse posto in evidenza i suoi propri doni. Noi leggiamo che la giustizia divina ha offerto un riscontro della medesima fede nel più glorioso dei patriarchi, là dove così è scritto: “Dopo queste cose Dio mise alla prova Àbramo” (Gn 22,1). Infatti la divina giustizia volle che in lui fosse sperimentata non la fede ispiratagli dal Signore, ma quella che da lui, una volta eletto e illuminato, era in grado di dimostrare l’effetto del suo libero arbitrio. Perciò non senza suo merito viene comprovata la sostanza della sua fede e per questo motivo, una volta sopraggiunta in lui la grazia di Dio che per un po’ di tempo l’aveva lasciato, gli vengono rivolte queste parole: “Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli alcun male. Ora io so che tu temi il Signore e non hai risparmiato il tuo figlio amato per riguardo a me” (Gn 22,12 LXX). Che poi un tale genere di tentazione, allo scopo di assicurarci il merito della prova, possa toccare anche a noi, è stato preannunziato con sufficiente evidenza nel Deuteronomio dal legislatore: “Qualora si alzi in mezzo a voi un profeta o qualcuno, il quale dica d’aver veduto dei sogni, e ti proponga un segno o un prodigio, e il segno e il prodigio annunciato succeda ed egli ti dica: Seguiamo dèi stranieri, che tu non hai mai conosciuti, tu non dovrai mai ascoltare le parole di quel profeta o di quel sognatore, perché il Signore tuo Dio ti mette alla prova per sapere se tu lo ami con tutto il tuo cuore e se custodisci i suoi precetti oppure no” (Dt 13,1-3). Che cosa pensare allora? Avendo Dio permesso la presenza d’un Profeta o di un sognatore, bisognerà ritenere che Egli proteggerà coloro di cui Egli si propone di provare la fede al punto da non lasciare alcuna possibilità al loro libero arbitrio da poter combattere con il tentatore per mezzo delle loro forze? Ma allora che bisogno c’è di esporre alla tentazione individui che Egli conosce così deboli e così fragili che non potrebbero resistere al tentatore con le loro forze? Ne risulta dunque che la giustizia del Signore non avrebbe permesso che essi fossero tentati, se non avesse saputo che v’era in essi la facoltà sufficiente a resistere, con la quale poter poi essere giudicati, con giudizio equanime, per l’uno o per l’altro comportamento, colpevoli o degni di lode. Tale risulta pure la dichiarazione dell’Apostolo: “Quindi, chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere. Nessuna tentazione vi ha finora sorpresi, se non proporzionata all’uomo; infatti Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via d’uscime e la forza per sopportarla” (1 Cor 10,12-13). Allorché egli dice: “Chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere”, mette in guardia il libero arbitrio: ovviamente egli conosce che tale libertà, una volta accolta la grazia divina, potrà restare attiva con il proprio apporto, o cadere per la propria negligenza. Allorché egli dice: “Nessuna tentazione vi ha finora sorpresi, se non proporzionata all’uomo”, egli non rimprovera la loro debolezza e l’incostanza dell’anima non ancora irrobustita, per effetto della quale incostanza non potevano essere ancora sopportati gli assalti degli spiriti malvagi, contro i quali egli sapeva che lui e gli spiriti perfetti dovevano ogni giorno combattere. Di essi così egli scrive agli Efesini: “La nostra battaglia non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti” (Ef 6,12). E allorché egli aggiunge: “Dio è fedele e non permetterà che voi siate tentati oltre le vostre forze” (1 Cor 10,12-13), non desidera certo che il Signore non permetta che essi siano tentati, quanto piuttosto che essi non siano tentati al di sopra di quanto potrebbero sostenere. Se il primo accenno allude alle condizioni dell’umano libero arbitrio (esposto alle tentazioni), l’altro accenno dimostra la grazia del Signore che modera gli assalti delle tentazioni stesse. In tutti questi casi si riscontra che sempre la divina grazia stimola il libero arbitrio dell’uomo, in modo però che essa non lo protegge e difende in tutti i casi al punto da indurlo a non ricorrere alle proprie forze nella lotta contro i suoi nemici spirituali; è così che l’uomo imparerà a riconoscere la grazia di Dio, se riuscirà vincitore, e la propria fragilità, se sarà vinto, e apprenderà ad apporre la propria speranza, non nelle sue forze, ma nel soccorso divino, in modo da ricorrere sempre al suo divino protettore. E affinché tutto questo non si dimostri dettato da una mia opinione, ma appoggiato su argomenti evidenti, dedotti dalla divina Scrittura, richiamerò quanto si legge nel libro di Giosuè: “Queste sono le nazioni che il Signore risparmiò e non volle disperdere allo scopo di mettere alla prova Israele per mezzo loro, per vedere se egli osservava i precetti del Signore, suo Dio, ed anche perché si abituasse a combattere i suoi nemici” (Gdc 3,1-2). E allora, tanto per confrontare qualcosa di umano con l’incomparabile clemenza del nostro Creatore, non certo per paragonarne la pietà, ma solo per richiamarmi a qualche somiglianza di indulgente comprensione, eccone un esempio, quello di una madre comprensiva e premurosa: per un certo tempo ella tiene in braccio il suo figlioletto fino a quando non possa insegnargli a camminare; poi ella gli permette di trascinarsi per terra, quindi lo tiene per mano con la sua destra, perché si sforzi, stando ritto, a porre un piede dopo l’altro; se lasciato solo per un poco, lo vede traballare, subito lo riafferra; lo trattiene, se vacilla; lo rialza, quando cade; vigila, perché non ricada, oppure, permettendo che egli cada leggermente, subito lo rialza dopo la caduta. Poi, quando essa l’avrà allevato fino a raggiungere la fanciullezza e la robustezza dell’adolescenza e della giovinezza, gli affianca alcuni pesi per la fatica, non perché ne sia oppresso, ma perché si eserciti, e così ella lo prepara a gareggiare con i suoi coetanei. Quanto più dunque il Padre celeste di tutti conosce chi Egli debba portare sul grembo della sua grazia, chi rendere esercitato nell’uso del libero arbitrio per assuefarsi alla virtù in presenza sua; e intanto Egli aiuta chi s’affatica, esaudisce chi lo invoca, non abbandona chi lo ricerca, e toglie dai pericoli chi frattanto non se ne rende nemmeno conto. 15. La grazia multiforme delle chiamate divine Da questi argomenti risulta dunque chiaro che “i suoi giudizi sono imperscrutabili, e inininvestigabili sono le sue vie” (Rm 11,33), per le quali Egli conduce alla salvezza il genere umano. E questo io posso confermarlo con gli esempi riscontrabili nei vangeli. Cristo elesse Andrea e Pietro e gli altri apostoli con spontanea degnazione della sua grazia, proprio quando essi neppur pensavano alla propria salvezza (Cf. Mt 4,18); Egli non solo si offrì a Zaccheo, mentre questi si poneva fiduciosamente in vista del Signore e si era alzato sui rami del sicomoro a causa della piccolezza della sua statura, ma lo predilesse, decidendo di entrare in casa sua (Cf. Lc 19,2 ss.); attrasse Paolo proprio quando gli era contrario e nemico (Cf. At 9,3 ss.); invita a seguirlo inseparabilmente un altro al punto di non concedere nessuna dilazione alla sua richiesta d’aver tempo, anche molto breve, da destinare alla sepoltura del proprio padre (Cf. Mt 8,21 ss.). A Cornelio, occupato continuamente nella preghiera e nelle elemosine, viene indicata la via della salvezza come sua ricompensa, e a lui, dalla voce di un angelo, viene ordinato di chiamare Pietro per conoscere da lui come raggiungere la sua salvezza assieme a tutti i suoi familiari (Cf. At 10). E così la sapienza multiforme di Dio procura la salvezza agli uomini con pietà varia e inscrutabile, e distribuisce l’abbondanza della sua grazia secondo la capacità di ciascuno, in modo da poter applicare gli stessi suoi interventi, non secondo la potenza uniforme della sua maestà divina, ma secondo la misura della fede, di cui trova nutrito ciascuno dei fedeli, e che Egli stesso ha donato a ciascuno. Infatti, quel tale, fiducioso che per la guarigione della sua lebbra sarebbe bastata la sola volontà di Cristo, Cristo lo curò col solo consenso della propria volontà, dicendo: “Lo voglio, sii curato! ” (Mt 8,3); e un altro, che l’aveva pregato perché, con la sua venuta, risuscitasse la sua figlia, già morta, con l’imposizione delle sue mani, Egli, entrato nella casa di lui, concesse quello di cui era stato pregato, e proprio nel modo stesso con cui quel tale aveva espresso le sue speranze (Cf. Mt 9,18); un altro credette che il risultato di tutta la sanità consistesse nel comando dettato dalla viva voce di Cristo, e così ebbe a dire: “Di’ soltanto una parola, e il mio servo sarà guarito” (Mt 8,8), ed Egli allora rese sane nel loro stato di salute quelle membra prima malate, dicendo: “Va’, e ti sia fatto come tu hai creduto” (Mt 8,13). Ad altri, fiduciosi di ricevere la salute per il solo tocco della sua veste, concesse in abbondanza il dono della sanità (Cf. Mt 9,20); pregato, concesse la guarigione alle malattie di altri, ad altri concesse la guarigione spontaneamente; indusse alcuni a sperare il suo intervento, dicendo: “Vuoi essere guarito?” (Gv 5,6); ad altri, che pur non speravano, elargì spontaneamente il suo aiuto; di altri volle che manifestassero i loro desideri prima di soddisfare la loro volontà, e così si espresse: “Che cosa volete che io faccia per voi?” (Mt 20,32); un altro che non sapeva il modo di ottenere quanto desiderava, benignamente glielo indicò: “Se tu crederai, vedrai la gloria di Dio” (Gv 11,40); ad altri Egli offrì l’efficacia delle sue guarigioni al punto che, riferendosi ad esse, l’evangelista così ebbe a concludere: “Egli guarì tutti i loro malati” (Mt 14,14); presso altri però l’abisso senza limiti dei suoi benefici venne bloccato al punto da dover essere sottolineato questo limite: “Gesù non potè compiere presso di essi alcun prodigio a causa della loro incredulità” (Mc 6,5-6). Ne deriva così che la larghezza di Dio si uniforma essa pure alla capacità della fede dell’uomo, al punto di dire ad uno: “Ti avvenga secondo la tua fede” (Mt 9,29); a un altro: “Va’, e ti sia fatto come tu hai creduto” (Mt 8,13); e a un altro: “Ti sia fatto come tu vuoi” (Mt 15,28); e a un altro ancora: “La tua fede ti ha fatto salvo” (Mc 10,52; Lc 18,42). 16. La grazia di Dio sorpassa i limiti angusti della fede umana Nessuno pensi che da me siano sostenute queste idee allo scopo di convincere che il fondamento della nostra salvezza consiste nel potere della nostra fede personale, e questo secondo l’opinione errata di certuni, i quali sostengono, riferendo ogni merito al libero arbitrio, che la grazia viene dispensata secondo i meriti di ciascuno (Qui Cassiano intende distinguersi dalle dottrine dei pelagiani, allora molto diffuse. Ndt); qui io invece sostengo con assoluta dichiarazione che la grazia di Dio è pure superiore e che talvolta essa trascende le angustie della infedeltà dell’uomo. Ricordo che questo avvenne a proposito di quel funzionario del re, di cui si parla nel vangelo. Egli, persuaso che fosse più facile guarire uno da ammalato che risuscitarlo dopo che fosse morto, implora con insistenza la presenza del Signore fino ad esclamare: “Discendi prima che mio figlio muoia!” (Gv 4,49). E benché Cristo abbia rimproverato la sua incredulità con queste parole: “Voi, se non vedete segni e prodigi, non credete” (Gv 4,48), tuttavia non pose in opera la grazia della sua divinità in riferimento alla debolezza della fede di quell’uomo, e neppure con la sua presenza fisica eliminò l’attacco mortale di quella febbre, ma solo con il potere delle sue parole, dicendo: “Va’, tuo figlio vive!” (Gv 4,50). Noi leggiamo che il Signore offerse l’abbondanza della sua grazia anche nella guarigione del paralitico, allorché a lui che gli chiedeva solamente i rimedi destinati a sanare i languori, da cui era stato colpito il suo corpo, Egli offerse anzitutto la salute dell’anima dicendo: “Coraggio, figliolo; ti sono rimessi i tuoi peccati” (Mt 9,2). E subito appresso, poiché gli scribi non credevano che Egli potesse rimettere i peccati degli uomini, Egli, allo scopo di confondere la loro incredulità, restituì alla sanità le membra di quel paralitico, illanguidite dalla perdita della sanità, con la potenza della sua parola, e così disse: “Perché pensate cose malvagie nel vostro cuore? Che cosa dunque è più facile, dire: Ti sono rimessi i tuoi peccati, o dire: Alzati e cammina? Ora, perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere in terra di rimettere i peccati, disse al paralitico: Alzati, prendi il tuo letto e va’ alla tua casa” (Mt 9,4-6). Analogamente, anche per quel malato che, giacendo invano da trentotto anni sulla sponda della piscina, attendeva il rimedio del movimento dell’acqua, Egli dimostrò la munificenza della sua spontanea liberalità. Di fatto, volendo Egli indurlo ad accogliere il rimedio destinato alla sua salute, col dirgli: “Vuoi guarire?” (Gv 5,6), ed essendosi lui lamentato della mancanza d’ogni aiuto umano fino a dichiarare: “Io non ho nessuno che mi immerga nella piscina quando l’acqua si agita” (Gv 5,7), il Signore, concedendo un’attenuante alla sua ignoranza e alla sua incredulità, gli restituì la sua precedente sanità, non però nel modo da lui sperato, ma in quello disposto dal Signore, che così gli disse: “Alzati, prendi il tuo letto e va’ nella tua casa” (Gv 5,8). Quale meraviglia dovrà allora notarsi in relazione a questi prodigi operati dalla potenza del Signore, se prodigi simili vennero compiuti per mezzo dei suoi servi? Infatti, mentre Pietro e Giovanni entravano nel tempio e un poveretto, zoppo fin dalla nascita e che non era mai stato in grado di camminare, chiese l’elemosina, essi non offrirono le vili monete che l’infermo domandava, ma gli elargirono la possibilità di camminare, arricchirono lui, che sperava il sussidio di qualche moneta, con il premio della inattesa sanità; così, di fatto, si espresse Pietro: “Io non possiedo né argento né oro, ma quello che possiedo, io te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, alzati e cammina” (At 3,6). 17. L’inscrutabile potenza di Dio Ne segue allora che noi, con il ricorso a questi esempi, tratti dalla testimonianza dei vangeli, potremo riconoscere che attraverso diversi modi e per vie inscrutabili Dio procura la salvezza del genere umano, e come Egli stesso inciti l’intento di alcuni, volenti e bramosi, ad incamminarsi con maggiore ardore, e come solleciti altri, che invece non vorrebbero e resistono; talora Egli agisce in modo che siano da noi compiute utilmente le opere che Egli scorge già da noi desiderate; talora Egli stesso ispira l’avvio di qualche santo desiderio o anche l’inizio e la continuazione di qualche opera buona. Ne deriva così che, quando noi preghiamo, riconosciamo in Lui non solo il nostro protettore e il nostro salvatore, ma anche Colui che ci aiuta e ci sostiene. Infatti, in quanto, Lui per primo, invita e attrae noi distratti e senza volontà, Egli risulta nostro protettore e nostro salvatore; in quanto solitamente Egli ci porta aiuto nei nostri sforzi e ci accoglie come nostro rifugio e nostro sostegno, Egli prende il nome di nostro accoglitore e nostro rifugio. Infine il beato Apostolo, richiamando con la sua mente la molteplice larghezza della provvidenza divina e constatando d’esser stato lui stesso assorto nell’immenso e illimitato pelago della pietà divina, così esclamò: “O profondità della ricchezza della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono imperscrutabili i giudizi di Dio e ininvestigabili le sue vie! Chi mai ha potuto conoscere il pensiero del Signore?” (Rm 11,33-34). Risulta dunque che cercherà di mortificare la propria ammirazione per questa scienza divina che il grande maestro dei gentili considerò con paura, chiunque presumerà di poter commisurare la profondità di quell’abisso insondabile. Infatti, coloro che confidano di poter concepire e discorrere con la propria mente intorno alle disposizioni, con le quali Dio opera tra gli uomini la loro salvezza, senza dubbio, impugnando essi la verità della sentenza dell’Apostolo, ammettono con audacia profana che scrutabili risultano i giudizi di Dio e accessibili le sue vie, mentre anche il Signore stesso dichiara contro quegli audaci: “I miei pensieri non sono i vostri pensieri; le vostre vie non sono le mie vie, dice il Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre e i miei pensieri sovrastano i vostri” (Is 55,8-9). E allora, volendo il Signore esprimere con umani confronti queste sue disposizioni e l’amore che Egli con pietà continua si degna di offrirci, e non trovando nelle creature tali affezioni amorose, alle quali poter convenientemente ragguagliare il proprio amore, si richiamò alle tenerissime viscere di una madre affettuosa, al punto di dire: “Si dimentica forse una donna del suo bambino così da non aver pietà per il figlio delle sue viscere?” (Is 49,15). Ma non contento di questo richiamo, subito lo sopravanza, fino ad aggiungere: “E se ella se ne dimenticasse, io non ti dimenticherò mai” (Ibid.). 18. I Padri hanno dimostrato che il libero arbitrio non è sufficiente a salvarci Ed ora si ricava con evidenti motivi da parte di coloro i quali, non con la loquacità delle parole, ma sotto la guida dell’esperienza sanno misurare la grandezza della grazia e la ristrettezza del nostro libero arbitrio, “che non è degli agili la corsa, né dei forti la guerra, e neppure dei sapienti il pane e degli accorti la ricchezza” (Qo 9,18 LXX), ma “tutte queste cose è l’unico e medesimo Spirito che le opera, distribuendole a ciascuno come Egli vuole” (1 Cor 12.11). Pertanto si dimostra con fede sicura e, per così dire, con palpabile esperienza, che Dio, creatore dell’universo, al pari di un piissimo padre e di un benevolentissimo medico, come suggerisce l’Apostolo, opera indifferentemente tutto in tutti: ora Egli ispira il principio della salvezza e infonde in ciascuno l’ardore della buona volontà; ora Egli dona il compimento dell’opera e la perfezione della virtù; ora revoca perfino dalla rovina imminente e da una precipitosa caduta quanti rimangono riluttanti e non se n’avvedono; ora offre occasioni e opportunità di salvezza, e impedisce sforzi violenti e precipitosi dal raggiungere traguardi funesti. E così Egli accoglie quanti sono volenterosi e gli vanno incontro, così come trae e costringe al buon volere quanti non vogliono e resistono. Siamo comunque avvertiti che non sempre tutto è concesso a noi da Dio, soprattutto quando noi perseveriamo nella nostra resistenza e nella nostra cattiva volontà, e siamo ammoniti dalla voce stessa del Signore che il conseguimento ultimo della nostra salvezza non è dovuto ai meriti delle nostre opere, ma alla grazia divina: “Vi ricorderete della vostra condotta, di tutti i misfatti, dei quali vi siete macchiati, e proverete disgusto di voi stessi, davanti ai vostri occhi, per tutte le malvagità che avete commesse Allora saprete che io sono il Signore, quando agirò con voi per l’onore del mio nome e non secondo la vostra malvagia condotta e i vostri costumi corrotti, uomini di Israele” (Ez 20,43-44). E così, da parte dei Padri cattolici, i quali hanno appreso la perfezione del cuore, non dalle parole delle vane dispute, ma dalla realtà delle loro opere, sono stati dettati questi principi: è proprio anzitutto della concessione di Dio indurre ognuno a desiderare tutto ciò che è bene, in modo però che resti in piena facoltà del libero arbitrio decidersi per l’una o per l’altra parte; in secondo luogo è proprio della grazia divina far sì che siano effettuati i suddetti compiti delle virtù, in modo però che non venga mortificato il potere del libero arbitrio; in terzo luogo appartiene alla concessione divina mantenere perseverante il grado della virtù acquisita, in modo però che la suddetta libertà non subisca alcuna restrizione. Occorre pertanto ritenere che Dio, creatore dell’universo, opera tutto in tutti in questa misura nell’incitare, nel proteggere e nel confermare, mai però nel senso di togliere la libertà del libero arbitrio, che Egli stesso intese concedere. Se poi qualche deduzione, tratta sottilmente con qualche umana e razionale argomentazione, sembra in contraddizione con quanto finora è stato esposto, occorre evitarla piuttosto che addurla col rischio di compromettere la fede. Infatti la fede non deriva dall’intelligenza, ma è l’intelligenza che deriva dalla fede in conformità a quanto è stato scritto: “Se voi non crederete, neppure comprenderete” (Is 7,9 LXX). Di fatto, in che modo Dio operi tutto in tutti in noi e, nel tempo stesso, tutto venga attribuito al libero arbitrio dell’uomo, non si riuscirà a comprenderlo interamente attraverso il senso e l’umana ragione». Fu così che il beato Cheremone, avendoci consolidati con la refezione della sua dottrina, fece sì che noi non avvertissimo più la fatica di un cammino così difficile. Nota: (Estratta da “Conferenze spirituali II” – Edizioni Paoline 1965) Con queste parole Cassiano pone il problema della conciliazione tra la grazia e il libero arbitrio; un problema difficile e molto dibattuto a quei tempi, a causa della imperversante eresia pelagiana. Per notizie più approfondite rimandiamo alla introduzione dell’opera. Qui gioverà notare che Cassiano si era occupato della questione anche nel libro XII delle Istituzioni e nella Conferenza III, mai però l’aveva affrontata sistematicamente come in questa Conferenza XIII. Dire che qui l’argomento è affrontato in maniera sistematica non è lo stesso che dire è ben risolto. Cassiano va avanti impacciato, si contraddice ad ogni istante, non sa dare una sintesi apprezzabile della dottrina cattolica sul delicato argomento. Questa conferenza ha meritato al suo autore il titolo di « semipelagiano » e le critiche di Prospero d’Aquitania nel « Contra Collatorem ». La dottrina qui contenuta fu condannata nel 529, al Concilio di Orange. La condanna però non fu comminata contro Cassiano ma contro i « Marsigliesi », che propugnavano idee simili a quelle contenute nella presente conferenza. PRIMA CONFERENZA DELL’ABATE NESTORE LA SCIENZA SPIRITUALE Estratto da “CONFERENZE AI MONACI“ Traduzione e note a cura di Lorenzo Dattrino, 2000, Città Nuova Editrice L’ordine della mia promessa e l’itinerario seguito nel nostro viaggio mi obbliga a dare notizia dell’insegnamento impartitoci dall’abate Nestore, uomo eccellente in tutto e di grandissima scienza. Egli, essendosi accorto che noi ricordavamo alcuni passi della Sacra Scrittura e desideravamo di averne una spiegazione, prese a parlarcene nel modo seguente: «Sono molti in questo mondo i generi delle scienze, e così numerosi quanta è la varietà delle arti e delle professioni. Essendo esse, però, tutte quante, inutili o adatte solo ai vantaggi della vita presente, non v’è però alcuna che non abbia un proprio ordine e un procedimento relativo al proprio contenuto dottrinale in modo da poter essere appresa da quanti ne hanno desiderio. E allora, se quelle arti tendono al loro apprendimento attraverso metodi propri e sicuri, quanto più la disciplina professata dalla nostra religione, la quale tende alla contemplazione arcana dei misteri invisibili e si ripromette non guadagni presenti, ma la ricompensa dei beni eterni, esige un ordine sicuro e razionale. Doppia ne risulta così la scienza: la prima è praktiké, vale a dire attiva, e si acquista con l’emendazione dei costumi e con la purificazione dai vizi; la seconda è theoretiké, e consiste nella contemplazione delle cose divine e nella conoscenza delle verità più sacre. Ne segue pertanto che se uno intende giungere alla scienza teoretica, dovrà necessariamente e anzitutto dedicarsi con ogni impegno e dedizione alla scienza attiva. Infatti la scienza pratica si può possederla anche senza quella teoretica, mentre la scienza teoretica non si può raggiungerla in nessuna maniera senza quella pratica. Si tratta, dopo tutto, di certi gradi così ordinati e distinti fra loro da essere possibile all’uomo ascendere dal grado inferiore a quello superiore. Pertanto, se essi si succedono col criterio da me ora suggerito, sarà possibile giungere al grado successivo, al quale invece non sarà possibile risalire qualora venga a mancare quello inferiore. Invano dunque pretende di arrivare fino alla visione di Dio colui che prima non si distacca dal contagio dei vizi: “Lo Spirito di Dio odia la finzione e non abita in un corpo soggetto ai peccati” (Sap 1,5 e 4). Questa scienza attiva dunque si fonda su due princìpi. Il primo è quello di ben conoscere la natura di tutti i vizi e il metodo adatto a sanarli. Il secondo è quello di ben conoscere l’ordine delle virtù e di accordare la nostra mente alla perfezione da esse richiesta, in modo che la mente stessa non vi si assoggetti come asservita e quasi obbligata da una violenta imperiosità, quanto piuttosto allettata e alimentata come da un bene naturale, al punto da affrontare con piacere quella via ardua e ristretta. E in realtà, come potrebbe uno raggiungere la compagine delle virtù, in cui consiste il secondo grado relativo alla disciplina attiva, o addirittura come potrebbe conoscere i misteri delle cose spirituali e celesti, le quali formano il grado più elevato della scienza, se prima egli non è riuscito a comprendere la natura dei suoi vizi e non si è curato di estirparli? Ne segue quindi che, ovviamente, non potrà pretendere di salire a un piano superiore chi non è stato in grado di assicurarsi prima nel piano inferiore, e molto meno comprenderà le cose che gli stanno al di fuori chiunque prima non è stato in grado di comprendere quelle che sono innate nel suo interno. Occorre comunque sapere che bisogna affaticarsi con ben maggiore impegno nell’espellere i vizi di quanto occorra adoperarsi per acquistare le virtù. Una tale asserzione non è frutto di una mia congettura, ma è un insegnamento dettato da Colui che, unico, conosce le forze e le condizioni delle sue creature. “Ecco, Egli dice, io ti ho costituito oggi sopra i popoli e sopra i regni per sradicare e per demolire, per distruggere e per abbattere, per edificare e per piantare” (Ger 1,10). E di fatto il Profeta dichiarò che quattro sono gli elementi necessari per l’espulsione delle cose nocive, e cioè “sradicare, demolire, distruggere e abbattere”, mentre, per acquistare le virtù e assicurare i requisiti della giustizia, egli fece parola unicamente di queste condizioni: “edificare e piantare”. Ne risulta perciò che è ben più difficile divellere e sradicare le innate passioni del corpo e dell’anima di quanto lo sia inserire e piantare le virtù spirituali. Questa vita attiva dunque, la quale, come ho detto, si fonda su due sistemi, s’indirizza verso molte professioni e impegni. Alcuni infatti fanno consistere il meglio dei loro impegni in vista della segretezza della solitudine e nella purezza del cuore, come si osserva, nei tempi passati, per Elia e per Eliseo, e, ai tempi nostri, per il beato Antonio e per altri, seguaci dell’identico proposito; noi sappiamo che essi hanno conseguito, nel silenzio del deserto, una grande familiarità con Dio; altri invece hanno indirizzato ogni loro impegno all’ammaestramento dei fratelli e alla costruzione vigilantissima di cenobi, come, in tempi recenti, ricordiamo l’abate Giovanni, il quale governò il grande cenobio sorto nelle vicinanze della città che porta il nome di Tmuis (Thmuis, città posta sulla riva destra del Nilo, lungo il Delta, non lontana da Panefisi), e alcuni altri uomini di un medesimo merito, segnalatisi pure per miracoli che ci fanno ricordare i tempi apostolici. Alcuni si compiacciono di offrire il loro pietoso servizio, destinandolo ad accogliere gli stranieri; per tale prestazione, in tempi passati, anche il patriarca Abramo e Lot piacquero al Signore, e recentemente vi si dedicò il beato Macario, uomo di singolare mansuetudine e pazienza, il quale fu a capo dell’ospedale sorto nei pressi di Alessandria, e lo resse in modo tale da far ritenere che egli non fu affatto inferiore a nessuno di quanti vissero nella solitudine dei deserti. Alcuni scelsero la cura degli infermi; altri si dedicarono alla difesa dei miseri e degli oppressi, applicandosi all’insegnamento o distribuendo elemosine ai poveri, e così tutti quanti emersero tra gli uomini grandi e più elevati per il loro affetto e la loro pietà. Ne segue dunque che a ciascuno ritorna utile e conveniente procurare di giungere al più presto, con somma dedizione e diligenza secondo il disegno da lui formulato e la grazia divina da lui ricevuta, alla perfezione dell’impegno assunto, senza rinunciare alla professione da lui una volta eletta, pur lodando e ammirando le virtù degli altri, persuaso, come insegna l’Apostolo, che uno solo è il corpo della Chiesa, pur essendo molte le sue membra (Rm 12,4 ss.), e convinto così “che abbiamo doni diversi secondo la grazia che ci è stata conferita: il dono della profezia, secondo la misura della fede; il ministero, nell’esercizio del ministero; l’insegnamento, per impartire la dottrina; l’esortazione, per chi deve esortare; chi dona, lo faccia con semplicità; chi presiede, lo faccia con diligenza; chi fa opere di misericordia, le compia con gioia” (Rm 12,6-8). Infatti nessuna delle varie membra può rivendicare l’ufficio proprio delle altre membra, appunto perché gli occhi non fanno uso del compito proprio delle mani, e il naso di quello proprio delle orecchie. Proprio per questo non tutti sono apostoli, non tutti sono profeti, non tutti sono dottori, non tutti hanno il potere delle guarigioni, non tutti hanno il dono delle lingue e non tutti quello di interpretarle (Cf. 1 Cor 12,28). Di fatto, coloro che non sono ancora ben fondati nella professione da loro intrapresa, allorché sentono dire che alcuni vengono esaltati nei loro impegni e per le loro virtù, si sentono così animati da quelle lodi da essere indotti immediatamente a imitare quella condotta; ne risulterà però che l’umana fragilità renderà necessariamente vani quegli sforzi. È infatti impossibile che un solo e medesimo individuo riesca a risplendere contemporaneamente per tutte le virtù da me in precedenza richiamate. Se poi qualcuno intenderà affrontare insieme quelle virtù, necessariamente egli incorrerà in questo risultato, che, mentre intenderà praticarle tutte, non ne compirà effettivamente nessuna, e così, da una tale varia mutazione, ricaverà più danno che utilità. Molte sono le vie che conducono a Dio, e perciò ognuno percorra con irrevocabile impegno nel suo cammino la strada una volta intrapresa, in modo da riuscire perfetto nella professione da lui scelta. A parte la considerazione del danno, da cui ho detto che viene colpito il monaco indottosi ad affrontare impegni diversi da quelli già da lui assunti, anche per un altro motivo può sorgere in lui un rischio mortale, il fatto che talvolta certi impegni, sostenuti convenientemente da alcuni, vengono poi, per malinteso esempio, affrontati da altri, e perciò, quello che per alcuni aveva sortito un buon esito, per altri si risolve in un risultato deleterio. E allora, tanto per citare un esempio, è come se qualcuno volesse imitare la virtù di quell’illustre personaggio che l’abate Giovanni suole proporre, non per offrire un esempio da imitare, quanto piuttosto un modello da ammirare. Un tale, recatosi dal predetto venerando abate, in abito secolare, per offrirgli le primizie raccolte nei suoi campi, trovò, già in presenza dell’abate, un individuo posseduto da un ferocissimo demonio. Quello spirito maligno, dimostrando disprezzo di fronte agli ordini e agli scongiuri dell’abate Giovanni, protestava che mai si sarebbe allontanato da quel corpo da lui posseduto, sottostando alle sue ingiunzioni; poi, atterrito però per l’arrivo di quell’individuo (il secolare), il demonio fuggì, dopo averne pronunciato il nome con una voce piena di riverenza. Il vegliardo, preso da alta ammirazione per quella grazia così evidentemente concessa e, per di più, stupito nel vedere quel nuovo individuo vestito con abiti secolari, cominciò ad informarsi accuratamente della vita e della professione da lui praticata. E poiché il nuovo arrivato dichiarava di essere un secolare e legato col vincolo matrimoniale, il beato Giovanni, riflettendo sull’eccellenza di quella sua virtù e della grazia a lui concessa, volle indagare con più cura quale fosse la sua professione. Egli allora dichiarò di essere un agricoltore e di procurarsi il vitto con il lavoro quotidiano delle sue mani, di non essere consapevole di alcun bene, se non di recarsi al mattino al lavoro nei suoi campi, né di ritornare alla sera nella propria casa se prima non s’era recato nella chiesa a ringraziare, per il vitto quotidiano, Colui che ne era l’elargitore; aggiunse pure di non avere mai sottratto parte dei suoi prodotti, se prima non aveva offerto a Dio le loro primizie e le decime, così come mai aveva condotto i suoi buoi attraverso i campi coltivati degli altri, se prima non aveva egli stesso disteso una reticella sulla loro bocca, affinché i vicini non avessero a subire qualche danno a causa della sua negligenza. Ma poiché tutte queste informazioni non sembravano ancora idonee all’abate Giovanni, se confrontate con la grazia così grande a lui concessa, e poiché cercava di conoscere il vero segreto dei meriti, per i quali poteva essere conferita quella grazia così grande, questi, indotto per riverenza, di fronte ad una ricerca così sollecitata, confessò che dodici anni prima, pur desiderando di farsi monaco, costretto dalla volontà imperiosa dei suoi genitori, aveva preso moglie, e che essa, senza che nessuno lo sapesse, era stata considerata come una sorella e conservata nello stato verginale. Il vegliardo, udito il fatto, fu preso da tanta ammirazione da dover dichiarare pubblicamente davanti a lui che giustamente il demonio, pur avendo disprezzato lui, non aveva tollerato la presenza del nuovo venuto, e che egli perciò non avrebbe osato aspirare fino a quella virtù, non solo in rapporto all’ardore della prima giovinezza, ma neppure in rapporto alla vita presente, senza compromettere la sua castità. Quantunque l’abate Giovanni esaltasse questo fatto con la più alta ammirazione, tuttavia non esortò nessuno dei suoi monaci a ripetere lo stesso esperimento, ben sapendo che molte di tali esperienze, affrontate rettamente da altri, hanno recato un grande danno a quanti hanno voluto imitarle, e che perciò non si poteva pretendere di ricevere dal Signore quello che Egli aveva concesso a pochi con sua speciale donazione. Ritorniamo perciò all’esposizione della scienza, da cui ebbe inizio il nostro discorso. Pertanto, come in precedenza abbiamo rilevato, la vita attiva riguarda molte professioni e impegni, invece la vita contemplativa si suddivide in due parti, l’una perché s’interessa dell’interpretazione storica (delle Scritture), l’altra dell’intelligenza spirituale (Cassiano applica soprattutto alla scienza delle Scritture quanto occorre dire della teoria, ovvero della contemplazione). Anche Salomone, volendo dichiarare la grazia multiforme della Chiesa, così si esprime: “Tutti i suoi di casa hanno doppia veste” (Pr 31,21 LXX). Tre sono i generi della scienza spirituale: la tropologia, l’allegoria e l’anagogia. Di essi nei Proverbi così è detto: “Scrivi queste cose in tre modi sulla estensione del tuo cuore” (Pr 22,20 LXX). Pertanto la storia abbraccia la conoscenza delle cose passate e visibili, e così viene chiamata dall’Apostolo: “Sta scritto infatti che Abramo ebbe due figli, uno dalla schiava e uno dalla donna libera. Ma quello dalla schiava è nato secondo la carne; quello dalla donna libera, in virtù della promessa” (Gal 4,22-23). Appartengono alla allegoria le parole di Paolo che fanno seguito, poiché le cose che realmente erano accadute sono espresse in modo da prefigurare la forma di un ulteriore mistero. Così infatti egli dichiara: “Le due donne rappresentano le due Alleanze; una, quella del monte Sinai, che genera nella schiavitù, è rappresentata da Agar; il Sinai è un monte dell’Arabia e corrisponde alla Gerusalemme attuale che di fatto è chiava insieme ai suoi figli” (Gal 4,24-25). L’anagogia è quella che, partendo dai misteri spirituali, ascende ai segreti del cielo più alti e più sacri, ed è così dichiarata dall’Apostolo: “La Gerusalemme di lassù invece è libera, ed è nostra madre. Sta scritto infatti: Rallegrati, o sterile, che non partorisci; grida nell’allegria, tu che non partorisci, perché molti sono i figli dell’abbandonata, più di quelli della donna che ha marito” (Gal 4,26-27). La tropologia è la spiegazione morale che ha per fine l’emendazione della vita e l’insegnamento pratico, come se intendessimo le due Alleanze, rispettivamente, l’una come espressione della vita attiva, l’altra come scienza contemplativa, o anche, come se noi volessimo interpretare Gerusalemme e Sion come figure dell’anima dell’uomo, secondo la sentenza: “Loda, Gerusalemme, il Signore; loda il tuo Dio, Sion” (Sal 147,12). Ne deriva dunque che, volendo, le predette quattro figurazioni confluiscono in una sola configurazione, in modo che l’unica e medesima Gerusalemme può essere intesa in quattro forme: secondo la storia, essa sarà la città dei Giudei; secondo l’allegoria, sarà la Chiesa di Cristo; secondo l’anagogia, sarà la città celeste di Dio, la “madre di tutti noi” secondo la tropologia, sarà l’anima umana che di frequente, con questo nome, ora è biasimata, ora è lodata dal Signore. Di questi quattro generi di interpretazione il beato Apostolo così parla: “E ora, fratelli, supponiamo che io venga da voi parlando con il dono delle lingue; in che cosa vi potrei essere utile, se non parlassi a voi in rivelazione o in scienza o in profezia o in dottrina?” (1 Cor 14,6). La rivelazione infatti appartiene all’allegoria: per essa le cose che restano coperte dalla narrazione storica vengono rivelate dal senso e dalla esposizione spirituale, ed è, ad esempio, come se volessimo chiarire quel passo della Scrittura, come “i nostri padri furono tutti sotto la nuvola e tutti furono battezzati in rapporto a Mosè nella nuvola e nel mare”, e come “tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale e tutti bevvero la stessa bevanda che scaturiva da una roccia, e quella roccia era il Cristo” (1 Cor 10,1-4). Questo richiamo, confrontato con la prefigurazione del Corpo e del Sangue, che noi assumiamo ogni giorno, contiene il motivo tutto proprio dell’anagogia. La scienza, similmente richiamata dall’Apostolo, fa parte della tropologia: per essa noi riusciamo a distinguere con criterio prudente tutte le cose in riferimento alla vita attiva, se esse sono utili e oneste, come comporta il precetto del giudizio, la cui decisione è lasciata a noi stessi, di giudicare “se è conveniente che una donna faccia preghiera a Dio col capo coperto” (1 Cor 11,13). Questa forma di interpretazione, come già ho osservato, comporta un’applicazione di valore morale. Parimenti la profezia, collocata dall’Apostolo al terzo posto, comporta l’anagogia, per effetto della quale il discorso viene trasferito alle cose invisibili e future, così come suona il passo seguente: “Vogliamo lasciarvi nell’ignoranza, fratelli, circa quelli che sono morti perché non continuiate ad affliggervi come gli altri che non hanno speranza. Noi crediamo infatti che Gesù è morto e risuscitato; così anche quelli che sono morti, Dio li radunerà per mezzo di Gesù insieme con Lui. Questo vi diciamo sulla parola del Signore: noi che viviamo e saremo ancora in vita per la venuta del Signore, non precederemo quelli che sono morti. Perché il Signore stesso, a un ordine, alla voce dell’arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo” (1 Ts 4,13-16). In questa forma di esortazione appare la figura dell’anagogia. La dottrina invece riferisce il semplice ordine dell’esposizione storica, nella quale non è inteso nessun occulto riferimento al di fuori di quello che risulta dalle stesse parole, come appare nel passo seguente; ‘Vi ho trasmesso anzitutto quello che anch’io ho ricevuto, che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, e fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno, e apparve a Cefa” (1 Cor 15,3-5), e ancora: “Iddio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sorto la legge” (Gal 4,4-5); come pure: “Ascolta, Israele: il Signore, tuo Dio, è l’unico Signore” (Dt 6,4). Pertanto, se vi sta a cuore arrivare alla luce della scienza spirituale, non spinti dal vizio di una vana presunzione, ma per la grazia data in vista dell’emendazione, infiammatevi anzitutto del desiderio di quella beatitudine, di cui è detto: “Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio’’ (Mt 5,8), in modo da poter giungere a quel traguardo, di cui parlò l’angelo a Daniele: “I saggi risplenderanno con lo splendore del firmamento; coloro che avranno indotto molti alla giustizia, risplenderanno come le stelle per sempre” (Dn 12,3), così come presso altri profeti è detto: “Accendete in voi il lume della scienza, finché c’è tempo” (Os 10,12 LXX) . E allora, mantenendo costante la premura della lettura (della Scrittura), che io già m’accorgo da voi coltivata, procurate di perfezionare con ogni cura la vostra vita attiva, vale a dire quella morale. Senza di questa infatti non è possibile arrivare alla purezza della contemplazione, di cui già ho parlato; una tale purezza, infatti, la raggiungono soltanto coloro che sono divenuti perfetti, non per effetto degli insegnamenti altrui, ma per l’efficacia della propria condotta e quasi come per ricompensa dopo essersi impegnati con molta dedizione e molte fatiche. E in realtà essi non hanno conseguito quell’intelligenza dalla meditazione della Legge, ma dal frutto della loro operosità, e così perciò possono cantare con il salmista: “Dai tuoi decreti io ricevo intelligenza” (Sal 118,104), come pure, dopo avere soppresse tutte le loro passioni, possono ripetere con fiducia: “Voglio cantare inni a Te e agirò con intelligenza nella via dell’innocenza” (Sal 100,1-2). Di fatto, nella recitazione dei salmi, comprenderà quello che viene cantato proprio colui che pone i passi del suo cuore puro lungo le vie dell’innocenza. Perciò, se voi volete disporre nel vostro cuore il sacro tabernacolo della scienza spirituale, purificatevi dal contagio di tutti i vizi e dalle influenze del secolo presente. Non è infatti possibile che un’anima, occupata anche per poco nelle faccende del mondo, meriti il dono della scienza o la capacità di produrre frutti spirituali o di divenire tenace prosecutrice delle sante letture. Fate dunque in modo, anzitutto, e specialmente tu, Giovanni, a cui l’età così giovane suggerisce maggiormente l’osservanza di quanto ora sto per dire, che non resti sminuito per un vano sussiego l’impegno della lettura e lo sforzo del tuo desiderio, e perciò imponi alla tua bocca un sommo silenzio. È questa la prima risoluzione della vita attiva, accogliere gli insegnamenti e le decisioni di tutti gli anziani con cuore attento e con la bocca pressoché chiusa, e poi, riponendo tutto nel proprio intimo, decidersi a mettere tutto in pratica anziché disporsi per insegnarlo agli altri. Da quest’ultima tendenza nasce infatti il danno della vanagloria; dal silenzio invece nascono i frutti della scienza spirituale. Non osare perciò di intervenire durante le conferenze degli anziani, se non fosse perché ignorare qualche cosa sarebbe di danno o perché chiarire qualche notizia necessaria indurrebbe a porre delle interrogazioni; vi sono di quelli infatti che, esaltati dal desiderio della vanagloria, simulano di fare delle interrogazioni al solo scopo di mettere in evidenza quello che essi già conoscono. E in realtà non è possibile che uno, il quale si occupi nell’impegno della lettura allo scopo di acquistarsi le lodi degli uomini, possa poi meritare il dono della vera scienza. Di fatto, chi è vinto da una tale passione, necessariamente sarà sopraffatto da altre passioni, e soprattutto dalla superbia, e perciò, una volta abbattuto nella lotta ingaggiata nella vita attiva e morale, non conseguirà per nulla la scienza spirituale che da essa prende inizio. Costui dunque “sia pronto ad ascoltare, lento a parlare” (Gc 1,19), in modo da non cadere nella colpa già rilevata da Salomone: “Se vedi un uomo veloce nel parlare, sappi che c’è più da sperare in uno stolto che non in lui” (Pr 29,20 LXX), e quindi non presumere di insegnare ad altri con le tue parole quello che prima tu non hai saputo compiere. Che poi noi dobbiamo attenerci a questo comportamento ce lo ha dimostrato pure nostro Signore, di cui così è detto: “Gesù cominciò a fare queste cose e ad insegnare” (At 1,1). Guardati bene perciò, qualora tu voglia insegnare prima di operare, dall’essere incluso nel numero di coloro, di cui il Signore parla ai discepoli nel vangelo: “Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno. Legano infatti fardelli pesanti e insopportabili, e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito” (Mt 23,3-4). Se dunque “colui che trasgredirà uno solo, anche minimo, di questi precetti, e insegnerà agli altri a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli” (Mt 5,19), colui che trasgredirà molti gravi precetti e presumerà di farsi maestro agli altri, otterrà certamente, non già di essere considerato minimo nel regno dei cieli, ma di essere ritenuto il maggiore nei supplizi dell’inferno. Perciò devi ben guardarti dall’essere indotto ad insegnare sull’esempio di coloro, i quali, avendo raggiunto la perizia dell’eloquenza e la facilità di parola, poiché riescono ad esporre ornatamente e copiosamente quello che vogliono, si crede, da parte di quanti non sanno giudicare la forza qualitativa di quella eloquenza, che essi possiedano la scienza spirituale. Infatti altra cosa è possedere la facilità nel parlare e lo splendore nel discorrere, e altra cosa è introdursi nel midollo e nell’intimo delle parole celesti, e così completare col purissimo occhio del cuore la profondità e la segretezza dei misteri, che in nessun modo saprebbe raggiungere l’umana dottrina e l’erudizione secolare, ma unicamente la purezza della mente per mezzo dell’illuminazione dello Spirito Santo. Tu devi dunque preoccuparti, se desideri acquistare la scienza delle Scritture, di assicurarti anzitutto una immobile umiltà di cuore, la quale conduce, non alla scienza che gonfia (Cf. 1 Cor 8,2), ma alla scienza che illumina per mezzo della completezza della carità. È infatti impossibile che una mente impura acquisti il dono della scienza spirituale. Procura perciò di evitare con ogni cautela che, pur con l’impegno della lettura, sorgano in te, non già il lume della scienza e la gloria eterna promessa per l’illuminazione della vera dottrina, quanto piuttosto motivi di perdizione, prodotti dalla vanità dell’arroganza. Appresso tu dovrai in tutti i modi adoperarti affinché, superata ogni sollecitudine e preoccupazione terrena, ti renda disponibile in modo assiduo e, ancora più, continuo alla sacra lettura della Scrittura, al punto che quella incessante meditazione riempia la tua mente e, per così dire, la conformi a sua propria immagine, rendendola, in certo qual modo, un’arca del Testamento (Cf. Eb 9,4-5), contenente in se stessa le due tavole di pietra, vale a dire la saldezza del duplice Testamento, come pure l’urna d’oro, e cioè la memoria pura e sincera che conservi in sé con fermezza indefettibile la manna ivi nascosta, vale a dire la dolcezza perenne e celeste dei sensi spirituali e di quel pane angelico; conserverà pure la verga di Aronne, cioè il vessillo salvifico del sommo e vero pontefice, Gesù Cristo, che sempre rifiorisce col verde della sua immortale memoria. Gesù Cristo infatti è la verga che, dopo essere stata recisa dalla radice di Jesse (Cf. Is 11,1) rinverdisce con forza maggiore proprio dopo la sua morte. Tutti questi elementi sono protetti da due Cherubini, vale a dire dalla purezza della scienza storica e spirituale. “Cherubino” infatti significa “la pienezza della scienza”. Essi proteggono in continuità il propiziatorio di Dio, e cioè la tranquillità della tua anima, e la custodiscono immune da tutti gli assalti degli spiriti malvagi. E così la tua mente, elevata fino a raggiungere non solo l’arca della divina Alleanza, ma pure il rango del regno sacerdotale, assorbita nella conoscenza della scienza spirituale per effetto dell’aspirazione derivata in lei dalla sua indefettibile purezza, adempirà il precetto rivolto al pontefice dal Legislatore: “Non uscirà dal santuario per non profanare il santuario di Dio” (Lv 21,12), ed è quanto dire, il suo cuore, nel quale il Signore promette di abitare costantemente, dicendo: “Abiterò in mezzo a loro e camminerò in mezzo a loro” (2 Cor 6,16). Perciò occorre affidare con tutta diligenza alla nostra memoria e richiamare senza tregua il complesso delle Scritture. Una tale continuità di meditazione ci apporterà un duplice frutto: anzitutto, che mentre l’attenzione della mente è occupata nella lettura e nell’apprendere quegli insegnamenti, necessariamente essa non sarà accattivata dai lacci dei pensieri nocivi; in secondo luogo, mentre noi ci sforziamo di assicurare quei passi alla nostra memoria, essendo però la nostra mente in quei momenti molto occupata, non riusciremo a comprenderli; in seguito però, una volta liberi da tutte le intrusioni delle occupazioni diurne, e soprattutto quindi durante la meditazione della notte, allorché in silenzio li richiameremo, riesaminandoli con maggiore chiarezza, è allora che ci si rivelerà l’intelligenza di quei passi così oscuri, che, nella veglia, non eravamo riusciti a percepire neppure con leggera supposizione, e proprio in quell’ora, pur essendo noi dediti al riposo della notte e come immersi nel torpore del sonno. Ne segue perciò che, per effetto di un tale studio e per il progresso della nostra mente, anche la visione delle Scritture comincerà a modificarsi e la bellezza d’una comprensione più profonda in un certo senso progredirà con il progredire della mente. Gli aspetti delle Scritture infatti si adattano alla capacità dell’intelligenza umana, e così appariranno terreni a chi è vittima della carne, e divini agli uomini spirituali, in modo che coloro, ai quali in precedenza quella visione appariva involuta per una certa nebbia brumosa, non saranno certo in grado di intuirne la sottigliezza e neppure di sostenerne il fulgore. E allora, affinché quanto io mi sto sforzando di costruire appaia più chiaro con il ricordo di qualche esempio, basterà riportare una sola testimonianza della Legge, per effetto della quale io possa dimostrare che pure tutti i precetti divini sono estesi a tutto il genere umano secondo la misura del nostro stato. Così è scritto nella Legge: “Non fornicare” (Es 20,14). Questo precetto viene osservato salutarmente, secondo il semplice suono delle lettere, dall’uomo ancora in preda alle passioni vergognose. Ma da colui che già si è svincolato da questa condotta limacciosa e dalle affezioni impure, questo precetto sarà osservato con criterio spirituale, in modo da astenersi non solo dal culto degli idoli, ma anche dalle superstizioni praticate dai gentili, quindi dagli auguri, dalle divinazioni, dall’osservanza di tutti i segni, dei giorni e dei tempi; e questo in modo che egli non si lasci compromettere dalle congetture derivate da certe parole e da certi nomi, aventi per fine di guastare la sincerità della nostra fede. Si dice infatti che anche Gerusalemme si è macchiata per tale fornicazione, essendosi prostituita “in ogni luogo elevato e sotto ogni albero verde” (Ger 3,6)). Anche il Signore le rinfaccia questa colpa, dicendole per mezzo del Profeta: “Si presentino e ti salvino gli astrologi che osservavano le stelle, e ti pronosticavano ogni mese, osservandole, quello che ti sarebbe accaduto” (Is 47,13). Anche altrove il Signore accusa il suo popolo di fornicazione, dicendo: “Uno spirito di fornicazione li ha ingannati, ed essi si sono prostituiti, allontanandosi dal loro Dio” (Os 4,12). Chiunque pertanto avrà evitato questa duplice fornicazione, dovrà evitarne pure una terza, indicata nelle superstizioni della Legge, tutte proprie del Giudaismo. Di esse così parla l’Apostolo: “Voi osservate giorni, mesi, stagioni e anni” (Gal 4,10), e ancora: “Così è prescritto: Non prendere, non gustare, non toccare” (Col 2,21). Senza dubbio queste parole sono state dette con riferimento alle superstizioni della Legge; se però qualcuno finisce per cadere in esse, certamente, una volta allontanatosi, così peccando, da Cristo, non meriterà di udire dall’Apostolo queste parole: “Io vi ho promesso a un unico sposo, per presentarvi quale vergine casta a Cristo” (2 Cor 11,2), e invece saranno dirette a lui, sempre dalla voce dell’Apostolo, le parole che seguono: “Io temo che, come il serpente nella sua malizia sedusse Eva, così i vostri pensieri vengano traviati dalla loro semplicità, che è in Cristo Gesù” (2 Cor 11,3). Chi poi riuscirà ad evitare anche l’immondezza di questa fornicazione, potrebbe incorrere nella quarta, la quale si contrae, perpetrando l’adulterio tutto proprio della professione ereticale. Di essa così parla lo stesso Apostolo: “Io so che dopo la mia partenza entreranno fra voi lupi rapaci, che non risparmieranno il gregge; perfino in mezzo a voi sorgeranno alcuni a insegnare dottrine perverse per attirare discepoli dietro di loro” (At 20,29-30). E se qualcuno riuscirà ad evitare anche questa colpa, si guardi bene dal cadere in un peccato più sottile, nel vizio cioè di quella fornicazione che consiste nella divagazione dei pensieri, proprio perché ogni pensiero, non solo turpe, ma anche ozioso e, anche per poco, lontano da Dio, viene considerato dall’uomo perfetto come una impudentissima fornicazione». A questo punto io, turbato dapprima per una interna compunzione, e poi uscito in gravi gemiti, così presi a dire: «Questi rilievi, da ora abbondantemente espressi, mi hanno apportato un senso di scoraggiamento maggiore di quello provato fino al presente, e la ragione è questa: oltre quei richiami generici, propri dell’animo, dai quali non dubito che si lasciano attrarre gli spiriti ancora deboli, s’aggiunge un impedimento particolare ostile alla mia salvezza a causa di quella cultura letteraria, pur esigua, che mi sembra d’essermi procurata: per essa l’impegno del pedagogo e la mia dedizione alla lettura mi occuparono talmente che ora la mia mente, come pervasa da quei poemi, non fa che ripensare alle inezie di quelle favole e alle narrazioni di quelle guerre, del cui pascolo essa ebbe a nutrirsi fin da ragazzo nei miei primi studi; ed ora, nel tempo della preghiera, nella recitazione dei salmi e quando chiedo perdono per i miei peccati, mi sorprende la memoria indiscreta di quei poemi e mi si rappresenta quasi davanti agli occhi l’immagine di quei bellicosi eroi, sicché la visione di tali fantasmi, con le loro continue illusioni, non permette alla mia mente di aspirare alla contemplazione delle cose celesti al punto che non riesco neppure a ricacciarli via con pianti effusi ogni giorno». Nestore: «Da questa stessa difficoltà, dalla quale sorge per te il maggiore ostacolo per uscirne fuori, potrà sortire ben presto il rimedio efficace, solo che tu trasferisca lo stesso costante impegno, da te dedicato agli studi profani, alla lettura e alla meditazione delle Scritture. Necessariamente infatti la tua mente sarà occupata dall’influsso di quei poemi per tutto quel tempo in cui con simile impegno e assiduità, essa non accoglierà in se stessa altri interessi, e così, in luogo di espedienti infruttuosi e terreni, produca frutti spirituali e divini. Una volta che tu riesca a concepire una tale progettazione e a nutrirtene in modo reale ed efficace, potrai ridurre sensibilmente i pensieri precedenti o addirittura cacciarli via del tutto. La mente dell’uomo non può rimanere vuota di ogni pensiero, e perciò, nel tempo in cui essa non è occupata da impegni spirituali, necessariamente rimarrà vincolata da quelli curati in precedenza. Di fatto, per tutto il tempo in cui essa non avrà un altro fine, a cui dedicarsi in continuità, necessariamente riprenderà gli interessi coltivati fin dall’infanzia e così attenderà ancora a quei compiti, da essa curati con prolungata abitudine e riflessione. E affinché la scienza spirituale si rafforzi con saldezza perenne e di essa tu possa godere non solo per breve tempo, come coloro che t’attingono non per proprio impegno, ma per rapporti c quasi, per così dire, per respiro d’aria, affinché dunque tale scienza risulti, in un certo qual modo, inviscerata nei tuoi sensi, ti conviene attenerti con ogni cura al seguente comportamento: anche se in questo nostro incontro ascolterai cose che per avventura già ben conosci, non accoglierle con disprezzo e con fastidio per il solo fatto che già ti sono note, ma affidale al tuo cuore con quella avidità, con la quale le parole desiderabili della salvezza devono essere affidate alle nostre orecchie ed essere proferite continuamente dalla nostra bocca. Infatti, per quanto di frequente avvenga l’incontro con l’esposizione delle cose sante, per l’anima assetata della vera scienza mai la sazietà procurerà ripugnanza; essa, al contrario, accettando ogni volta quell’incontro come nuovo e desiderato, quanto più frequentemente ne avvertirà il contenuto, con tanta maggiore avidità l’ascolterà e ne parlerà, e dalla sua ripetizione riceverà conferma di quella scienza già da lei coltivata, anziché fastidio dalla sua frequente reiterazione. Risulta infatti indizio evidente di una mente tiepida e superba accogliere fastidiosamente e negligentemente la medicina delle parole salvifiche, anche se accompagnate dall’impegno di una eccessiva assiduità: “L’anima, che risulta già sazia, disprezza il miele; ma all’anima che si trova nel bisogno, anche le cose amare sembrano dolci” (Pr 27,7 LXX). Se dunque tali insegnamenti saranno accolti con diligenza, una volta nascosti e contrassegnati nell’intimo della tua mente e assicurati dal silenzio, in futuro, come certi vini soavemente olezzanti e allietanti il cuore dell’uomo, maturati dall’anzianità della meditazione e dalla longevità della pazienza, verranno riesposti e tirati fuori con il loro grande profumo dal fondo del tuo animo e, come una fonte perenne, fluiranno dalle vene dell’esperienza e dagli irrigui meati delle virtù, ed effonderanno onde continue come da un certo abisso del tuo cuore. Avverrà infatti per te quello che nei Proverbi è detto per colui che aveva compiuto tutto questo con le sue opere: “Bevi l’acqua della tua cisterna e quella che zampilla dal tuo pozzo; le tue sorgenti scorrano per te al di fuori e i tuoi ruscelli si effondano nelle pubbliche piazze” (Pr 5,15-16 LXX); così pure Isaia: “Sarai come un giardino irrigato e come una sorgente, le cui acque non inaridiscono. Per tuo mezzo saranno riedificati i luoghi abbandonati da secoli e farai risorgere i fondamenti posti di generazione in generazione, e perciò sarai chiamato riparatore di siepi e restauratore di vie nella sicurezza” (Is 58,11-12). Sarà riferita a te la beatitudine promessa dallo stesso Profeta: “Il Signore farà in modo che non si allontani più da te il tuo maestro. I tuoi occhi vedranno il tuo maestro, i tuoi orecchi sentiranno questa parola dopo di te: Questa è la strada, percorretela senz’andare né a destra né a sinistra” (Is 30,20-21). Avverrà così che non solo ogni indirizzo e meditazione del tuo cuore, ma perfino tutte le divagazioni e le distrazioni dei tuoi pensieri si risolvano per te in un ripensamento santo e incessante della legge divina. È impossibile, come già ho avuto modo di dire, che possa conoscere e insegnare la scienza spirituale chi non ne ha fatto esperienza. E in realtà, se uno non è in grado neppure di accoglierla, come potrebbe comunicarla ad altri? Anche se egli presumerà di insegnarne qualche parte, senza dubbio le sue parole giungeranno inefficaci e inutili solo alle orecchie di quanti le ascoltano, ma non potranno penetrare nel loro cuore a causa della deficienza delle sue opere e della infruttuosità, tutta sua propria, della sua vanità, poiché il suo discorso non sorge dal tesoro d’una buona coscienza, ma dalla vana presunzione della sua ostentazione. È impossibile infatti che un’anima, senza essere pura, riesca a raggiungere la scienza spirituale, nonostante si sforzi caparbiamente nella continuità delle sue letture. Di fatto, nessuno versa in un vaso maleodorante qualche unguento costoso o dell’ottimo miele o, comunque, qualche liquore prezioso. Infatti sarà più facile che un vaso, già pregno di un tanfo insopportabile, corrompa un profumo anche se odoratissimo, anziché sia il vaso ad accogliere da quel profumo qualche porzione di soavità e di gradimento, poiché ben più presto le cose monde vengono corrotte di quanto le corrotte siano purificate. E allora ne segue che il vaso del nostro cuore, se prima non viene purificato da ogni fetidissimo contagio dei vizi, non meriterà di accogliere quell’unguento di benedizione, di cui è detto per mezzo del Profeta: “È come l’olio sul capo, che scende sulla barba di Aronne, che scende sull’orlo della sua veste” (Sal 132,2), e neppure conserverà inalterata la scienza spirituale e le espressioni delle Scritture, le quali sono “più dolci del miele e di un favo di miele” (Sal 18,11). “Quale rapporto infatti può esservi tra la giustizia e l’iniquità, o quale unione tra la luce e le tenebre? Quale intesa tra Cristo e Belial”? (2 Cor 6,14-15. Belial (=nullità, inutilità) è parola ebraica per indicare gli idoli e satana)». GERMANO: «La vostra illazione non ci sembra sorretta dalla verità e neppure sostenuta da ragione probabile. Ammesso infatti che tutti coloro che rifiutano la fede di Cristo o per lo meno la corrompono con l’empia deformità dei loro dogmi, risultano immondi di cuore, come va allora che molti tra i Giudei e tra gli eretici e perfino tra i cattolici, pur essendo avvolti tra molteplici vizi, hanno raggiunto una completa conoscenza delle Scritture e si vantano della loro dottrina spirituale, mentre un grande numero di uomini santi, il cui cuore è mondo da ogni contagio di peccati, soddisfatti della pietà derivata dalla semplicità della loro fede, ignora i segreti di una scienza più profonda? Come si regge allora questa vostra conclusione, che attribuisce la scienza spirituale unicamente alla purezza del cuore?». NESTORE: «Non correttamente interpreta il valore della mia conclusione chi non pesa esattamente tutte le parole della illazione da me avanzata. Io ho dichiarato che quei tali possiedono soltanto la perizia e la facoltà di ben discorrere, ma non hanno la capacità di entrare nelle vene delle Scritture e nei segreti di quei sensi spirituali. Infatti la vera scienza non è posseduta se non dai veri cultori di Dio, e non è certamente posseduta da quel popolo, a cui sono rivolte queste parole: “Ascolta, o popolo privo di senno! Pur avendo gli occhi, non vedete, e pur avendo orecchi, non udite!” (Ger 5,21), e ancora: “Tu hai rifiutato la mia scienza, e allora io rifiuterò te, affinché tu non eserciti il mio sacerdozio” (Os 4,6). E di fatto, poiché è detto che in Cristo “sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza” (Col 2,3), come potrebbe uno che ha avuto in disprezzo il cercare Cristo, oppure, dopo averlo trovato, lo bestemmia con bocca sacrilega, ovvero, sicuramente, contamina con le sue opere immonde la fede cattolica, come potrebbe far credere d’avere raggiunto la vera scienza? “Lo Spirito di Dio infatti rifugge dalla finzione e non abita in un corpo soggetto al peccato” (Sap 1,5 e 4). Ne segue dunque che alla scienza spirituale non si arriva, se non con il criterio delineato elegantemente dal Profeta con queste parole: “Seminate per voi secondo giustizia, e mieterete la speranza della vita; illuminate per voi il lume della scienza” (Os 10,12 LXX). Anzitutto dunque noi dobbiamo seminare secondo giustizia, vale a dire, propagare la perfezione ascetica per mezzo delle opere della giustizia; quindi dovremo mietere la speranza della vita, vale a dire raccogliere i frutti delle virtù spirituali con il cacciar via i vizi carnali; e così potremo illuminare in noi il lume della scienza. Anche il salmista dichiara che si deve tener presente questo criterio: “Beati coloro che sono senza macchia nella loro via e che camminano nella legge del Signore. Beati coloro che scrutano le sue testimonianze” (Sal 118,1-2). Egli non disse prima: “Beati coloro che scrutano le sue testimonianze”; al contrario, prima dichiara: “Beati coloro che sono senza macchia nella loro via”, dimostrando con queste parole che nessuno può giungere a scrutare le testimonianze di Dio rettamente, se prima non cammina senza macchia nella via di Cristo, attenendosi ad una vita ascetica. Coloro dunque, dei quali voi mi avete parlato, non sono in grado di possedere questa scienza, negata a quanti non sono puri; essi possiedono una scienza pseudónumon, vale a dire una scienza di falso nome, della quale così parla il beato Apostolo: “O Timoteo, custodisci il deposito, evitando le novità profane di certe voci e le obiezioni d’una scienza di falso nome” (1 Tm 6,20), il che in greco cosi suona tàs antithéseis tês pseudónumon gnóseos. Dì costoro dunque, i quali sembrano in grado di acquistare qualche apparenza di scienza, oppure di coloro che insistono premurosamente nella lettura dei testi sacri e nel ricordare le Scritture, e tuttavia non rinunciando ai vizi della carne, è detto elegantemente nei Proverbi: “Quale è un anello d’oro al naso d’un suino, tale è la bellezza per una donna di mala vita” (Pr 11,22 LXX). Infatti che cosa giova ad uno possedere l’ornamento delle elocuzioni celesti e la bellezza preziosissima delle Scritture, se poi, assentendo ad opere immonde e ai suoi propri sensi, si mette tutto sotto i piedi come una terra luridissima, e tutto imbratta con le brutture fangose delle sue libidini? Avverrà allora che egli non solo non potrà adornare quello che solitamente torna di decoro a quanti ne usano rettamente, ma, in più, egli lo renderà abbruttito con le sozzure del suo assai sordido fango. “Non è bella la lode che esce dalla bocca del peccatore” (Sir 15,9), e a lui così è detto per mezzo del Profeta: “Perché vai ripetendo i miei decreti e hai sempre in bocca la mia alleanza?” (Sal 49,16). Di tali anime, le quali, non possedendo il timore di Dio, – di esse, infatti, è detto: “Il timore del Signore è scienza e sapienza * (Pr 15,33 LXX) -, si sforzano comunque di penetrare il senso delle Scritture con una continua meditazione, così è detto con sufficiente proprietà nei Proverbi: “A che serve il danaro in mano dello stolto? L’uomo privo di intelligenza non potrà possedere la sapienza » (Pr 17,16 LXX). La scienza vera e spirituale è talmente lontana da codesta erudizione secolare, inquinata dalla sordidezza dei vizi carnali, da doverla talvolta riconoscere presente, da parte nostra, in alcuni, i quali sono senza pratica di eloquio e pressoché illetterati. E questo risulta, con tutta evidenza, vigente negli apostoli come pure in molti santi uomini, i quali non si esaltavano, (come certi alberi), per il loro inutile fogliame, ma si incurvavano sotto il carico dei reali frutti della loro scienza spirituale. E di essi che così è scritto negli Atti degli Apostoli: “Vedendo la franchezza di Pietro e di Giovanni, e considerando che essi erano senza istruzione e popolani, rimanevano stupefatti” (At 4,13). Perciò, se ti sta a cuore di assaporare quella incorruttibile fragranza, procura anzitutto di ottenere con ogni sforzo dal Signore la purezza della castità. Nessuno, in cui domini ancora l’affezione delle passioni carnali, e specialmente della fornicazione, potrà possedere la scienza spirituale. “In un cuore buono risiederà la sapienza” (Pr 14,33), e ancora: “Chi teme il Signore, troverà la scienza con la giustizia” (Sir 32,20). Anche il beato Apostolo insegna che si giunge alla scienza spirituale con l’ordine da me in precedenza indicato. Infatti, volendo comporre non solo l’ordine di tutte le sue virtù, ma anche il loro ordine successivo, e cioè sia la virtù che succedeva alla precedente, ma anche quella da essa immediatamente originata, così conclude: “Nelle veglie, nei digiuni, nella castità, nella scienza, nella longanimità, nella mansuetudine, nello Spirito Santo, nell’amore sincero” (2 Cor 6,6); con questa elencazione egli intese comprendere con tutta evidenza che dalle veglie e dai digiuni si giunge alla castità, dalla castità alla scienza, dalla scienza alla longanimità, dalla longanimità alla mansuetudine, dalla mansuetudine allo Spirito Santo, dallo Spirito Santo al premio dell’amore sincero. E allora, siccome per mezzo di questa disciplina e con quest’ordine tu pure giungerai alla scienza spirituale, certamente possederai, come già ho asserito, una dottrina, non sterile e incerta, ma vivida e ricca di frutti, e così il germe della parola salvifica, da te estesa al cuore di quanti ti ascolteranno, sarà assai largamente fecondata dalla rugiada dello Spirito Santo, secondo quanto ebbe a promettere il Profeta: “Sarà concessa la pioggia alla tua semente in qualunque terra tu l’abbia seminata, e il pane prodotto dalle messi della tua terra, sarà per te abbondantissimo e sostanzioso” (Is 30,23). C’è di più. Quanto tu avrai appreso dalle tue letture e dalla tua operosa esperienza, allorché l’età più matura ti avrà posto nell’occasione di dover insegnare agli altri, guardati bene, una volta sedotto dall’amore della vanagloria, dal diffonderlo qua e là a uomini indegni per la vita da essi condotta, in modo da non incorrere nella colpa così indicata dal sapientissimo Salomone: “Non condurre l’empio nei pascoli del giusto e non lasciarti adescare dalla sazietà del ventre” (Pr 24,15 LXX). Infatti “allo stolto non convengono le delizie” (Pr 19,10 LXX), e “non v’è bisogno di sapienza, dove non v’è l’intelligenza, perché vi si fa mostra della insipienza” (Pr 18,2 LXX). “Il servo refrattario non si corregge a parole; anche se comprenderà, si rifiuterà di obbedire” (Pr 29,19 LXX). E ancora: “Non parlare agli orecchi di uno stolto, affinché egli non disprezzi le tue sagge parole” (Pr 23,9), come pure: “Non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci, perché non le calpestino con le loro zampe e poi si voltino a sbranarvi” (Mt 7,6). Occorre dunque nascondere a uomini tali i misteri dei sensi spirituali, in modo che tu possa cantare efficacemente: “Ho nascosto le tue parole nel mio cuore per non offenderti con il mio peccato” (Sal 118,119). Ma tu forse mi obietterai: Ma allora a chi devono essere dichiarati i misteri delle divine Scritture? Ti risponderà il sapientissimo Salomone: “Date bevande inebrianti a chi è nella tristezza, e vino a chi ha l’amarezza nel cuore, affinché dimentichino la loro povertà e non ricordino più le loro pene” (Pr 31,6-7 LXX), ed è quanto dire: “Offrite abbondantemente la giocondità della scienza spirituale, come vino che allieta il cuore dell’uomo” (Sal 103,15), a coloro, i quali si sentono dolorosamente e tristemente depressi per il pentimento del loro passato comportamento; voi dovete rianimarli col versamento della vostra parola salutare, affinché, disanimati come forse sono dalla continuità del dolore e da un mortale avvilimento, “quanti si trovano in quello stato, non soccombano sotto un dolore troppo forte” (2 Cor 2,7). Invece, per coloro che, fermi ormai nella loro tiepidezza e nella loro negligenza, non sono morsi da nessun dolore del loro cuore, così viene detto: “Colui che vive nelle dolcezze e senza dolore, soffrirà la povertà” (Pr 14,23 LXX). E allora, con la maggiore cautela che ti è possibile, evita di lasciarti prendere dall’amore della vanagloria, così da non essere escluso dalle lodi rivolte dal Profeta a colui “che presta danaro senza fare usura” (Sal 14,5). Infatti, chiunque dispensa le perle di Dio, delle quali è detto: “I detti del Signore sono puri, argento raffinato nel crogiuolo, purificato sette volte” (Sal 11,7), per amore delle lodi umane, eroga ad usura il proprio danaro e così, non solo proprio per questo, non meriterà alcuna lode, quanto piuttosto la punizione. Di fatto egli ha preferito disseminare il danaro del Signore per assicurarsi con quel mezzo un compenso temporaneo, e non perché il Signore, come sta scritto, “ritornando, potesse ritirare il suo danaro con interesse” (Mt 25,27). Per due cause risulta inefficace la dottrina delle cose spirituali. Infatti, o colui che insegna si sforza di istruire il proprio uditore, comunicando però le cose senza esperienza e solo col suono delle sue parole, oppure, e senza dubbio, l’uditore, uomo perverso e pieno di vizi, non è in grado di percepire nel suo cuore del tutto sordo la dottrina santa e salutare da parte di quell’uomo spirituale. Di gente simile così è detto per mezzo del Profeta: “Il cuore di questo popolo si è accecato ed è divenuto duro d’orecchi; ha chiuso i suoi occhi per non vedere con i suoi propri occhi, e non intendere con le sue proprie orecchie, in modo che il suo cuore non comprenda e così non si convertano, ed io non li possa guarire” (Is 6,10 LXX). Tuttavia, talora, la generosa liberalità di Dio, nostro benefattore, “il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità” (1 Tm 2,4), dispone che proprio colui che non si è reso degno di predicare il vangelo con una vita irresponsabile, acquisti la grazia della dottrina spirituale in vista della salvezza di molti. In quali modi pertanto siano concessi perfino i carismi delle guarigioni, affinché dal Signore siano cacciati via i demoni, è evidente che noi dovremo esaminarli in una trattazione simile a questa, da riservare per la serata, dopo che avremo provveduto per la nostra refezione, poiché è pur vero che con la mente si riceve sempre più efficacemente tutto quello che ci viene impartito gradatamente e senza affaticare eccessivamente il nostro corpo». SECONDA CONFERENZA DELL’ABATE NESTORE I CARISMI *) DIVINI Dopo la sinassi della sera, ci sedemmo insieme sulle stuoie, come comporta il costume dei monaci, in attesa della promessa conferenza. Mentre eravamo ancora tutti in silenzio per il rispetto dovuto al vegliardo, egli intervenne e prevenne la nostra rispettosa taciturnità con il seguente discorso, «L’ordine degli argomenti trattati nella conferenza precedente era giunto a parlare della natura dei carismi spirituali, dei quali sappiamo fin dalla tradizione degli anziani che si distinguono in tre forme. La prima ragione del dono delle guarigioni sta nel fatto che essa accompagna con la grazia dei miracoli e per il merito della loro santità tutti gli uomini eletti e giusti; risulta infatti manifestamente che gli apostoli e molti santi operarono miracoli e prodigi per l’autorevole intervento del Signore che così si era espresso: “Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate ì demoni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (Mt 10,8). La seconda si ha allorché, o per l’edificazione della Chiesa oppure per la fede di coloro che portano i malati o per la fede dei malati stessi, la virtù delle guarigioni deriva pure dai peccatori e dagli indegni. Di essi così parla il Salvatore nel Vangelo: “Molti mi diranno in quel giorno: Signore, Signore, non abbiamo noi profetato nel tuo nome e cacciato demoni nel tuo nome e compiuto molti miracoli nel tuo nome? Io però dichiarerò loro: Non vi ho mai conosciuto; allontanatevi da me, voi operatori di iniquità” (Mt 7,22-23). Al contrario, se manca la fede nei portatori dei malati e nei malati stessi, Cristo non permette che risulti l’efficacia delle guarigioni nemmeno da parte di coloro ai quali è stato concesso il privilegio del risanamento. L’evangelista Luca così riferisce intorno a questo argomento: “Gesù non poté operare tra di essi alcun prodigio per la loro incredulità” (Mc 6,5-6; non Luca come dice Cassiano), e così parla il Signore stesso: “C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo, ma nessuno di loro fu risanato, se non Naaman, il Siro” (Lc 4,27). Il terzo genere delle guarigioni deriva pure, per simulazione, anche dal gioco e dalla frode dei demoni: avviene così che quando un uomo, pur essendo irretito in peccati manifesti, viene ritenuto santo e servo di Dio per l’ammirazione destata dalle sue guarigioni, ne deriva perfino l’emulazione dei suoi vizi per opera dei demoni, sicché, apertosi poi il varco della denigrazione, resta infamata anche la santità della religione, o almeno ne deriva con certezza che colui, il quale credeva di possedere il dono delle guarigioni, elevatosi per la superbia del suo cuore, resti poi solennemente deriso. Ne segue perciò che i demoni stessi invocano il nome di coloro che pur conoscono privi d’ogni merito di santità e senza alcun frutto spirituale e, in più, simulano perfino di essere colpiti dal fuoco dei loro meriti e costretti ad abbandonare i corpi da loro già posseduti. Di essi così è detto nel Deuteronomio “Qualora si alzi in mezzo a te un profeta o un sognatore che ti proponga un segno o un prodigio, e il segno e il prodigio annunciato succeda ed egli ti dica: Seguiamo dèi stranieri che tu non hai mai conosciuti, e rendiamo loro un culto, tu non dovrai ascoltare le parole di quel profeta o di quel sognatore, perché il Signore vostro vi mette alla prova per sapere se amate il Signore vostro Dio con tutto il cuore e con l’anima vostra” (Dt 13, 1-3). E nel Vangelo così troviamo scritto; “Sorgeranno falsi cristi e falsi profeti e faranno grandi portenti e miracoli; così da indurre in errore, se possibile, anche gli eletti” (Mt 24,24). Pertanto noi non dobbiamo mai ammirare, per i loro prodigi, coloro che simulano un tale comportamento, quanto piuttosto osservare se essi sono incensurabili per il rigetto di tutti i vizi e l’emendazione dei costumi, poiché questi favori sono concessi dalla benevolenza della grazia divina in vista dei propri impegni e non riguardo alla fede degli altri o per motivi che non riguardano gli interessati. È questa la scienza pratica, la quale, con altro termine, è definita dall’Apostolo come carità, e che, in base alla sua autorità, è preferibile a tutte le lingue degli uomini e degli angeli, alla pienezza della fede in grado di trasferire perfino le montagne, ad ogni scienza e ad ogni profezia, alla rinuncia di tutti i propri beni e, infine, perfino allo stesso glorioso martirio. Infatti, dopo aver enumerato tutti i generi dei vari carismi, e avere aggiunto: “A uno viene concesso dallo Spirito il linguaggio della sapienza; a un altro il linguaggio della scienza; a uno la fede; a un altro il dono delle guarigioni, a uno il potere dei miracoli” e altre cose, allorché viene a parlare della carità, preferendola a tutti i carismi, osservate come egli vi accenni con ben poche parole: “Io vi mostrerò una via migliore di tutte” (1 Cor 12,31). E con questo, ovviamente, si dimostra che il meglio della perfezione e della beatitudine non consiste nell’operare quelle meraviglie, ma nella purezza della carità. Infatti quelle concessioni sono destinate a finire e a scomparire, mentre la carità rimane per sempre (1 Cor 13, 8). È questo il motivo per cui vediamo che i nostri padri non hanno mai fatto ostentazione di operare questi prodigi; al contrario, qualora avessero posseduto quel potere per concessione dello Spirito Santo, mai avrebbero voluto esercitarlo, a meno che, per puro caso, un’estrema e inevitabile necessità non li avesse costretti. È così che noi ricordiamo come venne risuscitato un morto da parte dell’abate Macario, il quale per primo trovò la sua abitazione nel deserto di Scete. Infatti, poiché un certo eretico, seguace della perfida eresia di Eunomio, cercava di pervertire con la sua arte diabolica la sincerità della fede cattolica e già aveva ingannato un gran numero dì uomini, il beato Macario, pregato da fedeli cattolici, profondamente preoccupato per la rovina recata da una sovversione così grave, intervenne allo scopo di liberare la semplicità della fede, professata in tutto l’Egitto, dal naufragio di quella infedeltà. Allorché dunque l’eretico cercò di affrontarlo con la sua arte dialettica, procurando di condurre lui, ignorante, nel groviglio del bosco aristotelico, il beato Macario, tanto per concludere quella loquacità con la brevità tutta propria dell’Apostolo, così disse: “Il regno di Dio non consiste in parole, ma in potenza (1 Cor 4,20); rechiamoci perciò presso i sepolcri e invochiamo il nome del Signore sopra il morto che noi incontreremo per primo, e cosi, come sta scritto, dimostriamo la nostra fede in rapporto alle opere (Cfr. Gc 2, 14) in modo che siano in evidenza, con quella testimonianza, le prove manifestissime della vera fede, e così noi siamo in grado di dimostrare la perspicacia della verità, non con le vane dispute delle parole, ma con la potenza dei miracoli e con quel giudizio che non può essere ingannato”. All’udire questo discorso l’eretico, costretto dall’imbarazzo di fronte a quella folla, promettendo con simulazione di rendersi presente per partecipare alla condizione così proposta e assicurando di intervenire per il giorno appresso, in realtà, proprio il giorno dopo, quando ormai tutta la gente s’era affollata per la curiosità di quello spettacolo presso il luogo stabilito, egli, atterrito per la coscienza della sua infedeltà, se ne fuggì e ben presto si allontanò da tutto l’Egitto. Il beato Macario, dopo aver atteso assieme alla folla fino all’ora nona, avendo compreso che egli si era allontanato perché indotto dalla sua mala coscienza, dopo aver invitato a seguirlo quella gente che dall’eretico era stata ingannata, si recò alla volta della sepoltura da lui suggerita. Le inondazioni del fiume Nilo hanno indotto gli Egiziani a quest’usanza: poiché tutta l’estensione di quelle regioni viene ricoperta come un mare lungo e disteso per tutta una non breve stagione dell’anno a causa del solito straripare dell’acqua, tanto che non è permesso a nessuno di compiere un viaggio, se non ricorrendo alle barche, i corpi di morti, trattati con balsami assai profumati, vengono deposti in piccole celle alquanto sollevate da terra. Il suolo infatti, pregno come per il flusso continuo dell’acqua, non consente la sepoltura dei cadaveri. Di fatto, se la terra, una volta scavata, accoglie i corpi dei morti, è poi costretta a rigettarli fuori, in superficie, a causa dell’eccesso di quelle inondazioni. Non appena dunque il beato Macario si avvicinò alla tomba di uno che era morto da moltissimo tempo, così prese a parlare: “O uomo, se fosse venuto qui, assieme a me, quell’eretico, figlio di perdizione, e in sua presenza, invocando il nome di Cristo, io ti avessi chiamato per nome, dichiara, davanti a tutti costoro, che per poco non furono sommersi dalle sue frodi, se tu saresti risorto”. Egli allora, risorgendo, rispose affermativamente con un “sì”. E poiché l’abate Macario lo interrogò per sapere che cosa egli fosse stato durante la vita, in quale età fosse vissuto e se avesse conosciuto il nome di Cristo in quel suo tempo, egli rispose d’essere vissuto in epoca molto antica, nell’età dei re, e dichiarò di non avere mai udito in quei tempi il nome di Cristo. Fu allora che l’abate Macario gli disse: “Dormi in pace, in attesa d’essere risuscitato da Cristo nella tua condizione, alla fine dei tempi, con tutti gli altri”. Pertanto, questa sua virtù e questa sua grazia, per quanto dipendeva da lui, sarebbero rimaste forse per sempre sconosciute, se la necessità di tutta quella provincia immersa nel pericolo e la piena devozione di lui per Cristo, col suo amore per lui così sincero, non l’avessero indotto a compiere quel miracolo. E non fu sicuramente l’ostentazione della gloria a persuaderlo a compiere quanto egli fece, ma lo costrinse l’amore di Cristo e il vantaggio di tutta quella popolazione. Tutto questo anche il Libro dei Re lo dichiara compiuto dal beato Elia: fu lui a chiedere che dal cielo discendesse il fuoco sopra le vittime deposte sulla catasta di legna allo scopo di salvare la fede, posta in pericolo dal prestigio dei falsi profeti, di tutto quel popolo (Cfr. 1 Re 18, 36-38). E perché non dovrei ricordare le gesta dell‘abate Abramo, denominato aploûs, cioè il semplice, per la semplicità del suo comportamento e per la sua innocenza? Essendosi egli recato fino in Egitto per attendere alla mietitura nei giorni della Quinquagesima, (che decorrono dalla Pasqua alla Pentecoste), fu avvicinato da una donna che recava in braccio il figlioletto sofferente per la mancanza del latte e ridotto in fin di vita: egli allora, pregato e quasi costretto da quella donna tutta in lacrime, le porse da bere in un bicchiere d’acqua, sul quale aveva impresso un segno di croce. Bevuta quell’acqua, immediatamente e in modo meraviglioso, il seno di quella donna, fino a quel momento del tutto inaridito, s’effuse in un abbondante flusso di latte. E ancora. Mentre un giorno il medesimo abate si recava verso un villaggio, venne circondato da una folla di gente, tutta protesa a insultarlo: in quello stesso momento, in cui lo schernivano, gli posero davanti un povero uomo con un ginocchio rattrappito, che da molti anni gli impediva di camminare, sicché, per quell’antica infermità, egli procedeva, strascinandosi per terra. Essi dunque, per tentarlo, gli gridavano: Abate Abramo, dimostraci se sei il servo di Dio, e restituisci costui alla sua prima sanità, affinché noi crediamo che il nome di Cristo, che tu adori, non è un nome vano! Egli allora, immediatamente, dopo aver invocato il nome di Cristo, chinatosi, trasse a sé la gamba rattrappita di quel poveretto. A quel contatto, il ginocchio rattrappito e incurvato prontamente si raddrizzò, sicché, ripreso l’uso del camminare, che la lunga infermità gli aveva ormai fatto dimenticare, se ne andò via del tutto rinfrancato. Questi uomini nulla attribuivano a se stessi per il compimento di quei prodigi; al contrario, dichiaravano che venivano operati, non per loro merito, ma dalla misericordia del Signore, e di fronte all’ammirazione destata da quei miracoli, essi rifiutavano ogni gloria umana, richiamandosi alle parole degli Apostoli: “Fratelli, perché vi meravigliate di questo e continuate a fissarci come se per nostro potere e nostra pietà avessimo fatto camminare quest’uomo?” (At 3,12). Essi ritenevano che nessuno, nei doni e nei prodigi compiuti da Dio, doveva essere posto in vista; al contrario, si doveva piuttosto fare riferimento ai frutti delle virtù praticate, i quali vengono prodotti dall’impegno della mente e dall’efficacia delle opere- Per lo più infatti, come in precedenza è già stato rilevato, uomini di mente corrotta e reprobi in fatto di fede, espellono i demoni e compiono massimi prodigi in nome del Signore. E poiché di tali individui gli Apostoli adducevano un motivo per dire al Signore: “Maestro, abbiamo visto un tale che scacciava i demoni nel tuo nome e glielo abbiamo impedito, perché non è con noi tra i tuoi seguaci” (Lc 9,49), sul momento Cristo rispose loro: “Non glielo impedite, perché chi non è contro di voi, è per voi” (Lc 9,50). Tuttavia, alla fine dei tempi, allorché essi diranno: “Signore, Signore, non abbiamo noi profetato nel tuo nome e cacciato demoni nel tuo nome e compiuto molti prodigi nel tuo nome?”, Egli attesta che così ad essi risponderà; “Non vi ho mai conosciuti; allontanatevi da me, voi operatori di iniquità” (Mt 7, 22-23). Perciò, anche a coloro ai quali Egli stesso ha concesso la gloria e il potere dei miracoli in vista dei meriti guadagnati dalla loro santità, rivolge il seguente ammonimento, affinché non si esaltino per un tale motivo: “Non rallegratevi perché i demoni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto che i vostri nomi sono scritti nei cieli” (Lc 10,20). Infine, lo stesso autore di tutti i prodigi e di tutti i poteri, allorché invitò i discepoli all’apprendimento della sua dottrina, dimostrò che cosa i veri e sceltissimi suoi seguaci debbono ovviamente e particolarmente imparare da Lui: “Venite e imparare da me” (Mt 11, 28), non certo a cacciare via i demoni con un potere che viene dal cielo; non a guarire i lebbrosi; non a dare la vista ai ciechi; non a suscitare i morti; di fatto, anche se io opero simili prodigi per mezzo dei miei servi, non può la condizione umana pretendere le lodi dovute unicamente a Dio, né può il ministro e il servitore arrogarsi in questo campo alcuna parte, poiché la gloria è tutta e unicamente della divinità. “Voi imparate da me, che sono mite e umile di cuore” (Mt 11, 28-29). È questo infatti quello che in genere è possibile per tutti imparare a praticare; l’attuazione dei prodigi e dei miracoli non è sempre necessaria, non conviene a tutti e neppure è concessa a tutti. L’umiltà è dunque la maestra di tutte le virtù, è il saldissimo fondamento dell’edificio celeste, è il dono tutto proprio del Salvatore. E in realtà opererà tutti i miracoli che Cristo ha operato e senza pericolo d’autoesaltazione colui che si fa seguace del Signore così mite non con la sublimità dei prodigi, ma con la virtù della pazienza e dell’umiltà. Al contrario, colui che pretende di comandare agli spiriti immondi e di offrire il dono della sanità ai malati, oppure s’adoperava per esibire alla gente qualche prova mirabile anche se nella sua ostentazione invoca il nome di Cristo, egli risulta alieno da Cristo, appunto perché non segue il maestro dell’umiltà. Di fatto, anche quando stava per ritornare al Padre e intese estendere, per così dire, il suo testamento, questo lasciò detto ai discepoli: “Vi dò un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, cosi amatevi anche voi gli uni gli altri” (Gv 13, 34) e subito soggiunse: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13, 35), ma è certo che un tale amore non potranno coltivarlo se non i miti e gli umili. Per questo motivo mai i nostri padri hanno stimato come monaci virtuosi e privi del morbo della vanità coloro che si vantano davanti alla gente come esorcisti e vanno divulgando con vanitosa ostentazione tra la folla degli ammiratori questa grazia che essi hanno meritato o presumono d’aver meritato. Tutto inutile. Infatti “chi s’appoggia sulle menzogne, insegue gli uccelli mentre volano” (Pr 10,4). Senza dubbio avverrà a lui quanto è detto nei Proverbi: “Come sono evidenti i venti, le nuvole e le piogge, così pure lo sono coloro che si gloriano per doni falsi” (Pr 25,14). E allora, se uno davanti a noi compie qualcuno di tali prodigi, dovrà esser oggetto di lodi da parte nostra, non però per l’ammirazione destata da quei miracoli, ma per il comportamento della sua condotta, e noi dovremo indagare non se i demoni si rendono a lui soggetti, quanto piuttosto se egli possiede quegli elementi che fanno parte della carità, di cui parla l’Apostolo (1 Cor 13, 4, ss.). In realtà estirpare il fomite della lussuria dalla propria carne è un miracolo più grande che espellere gli spiriti immondi dal corpo degli altri; è un segno più distinto mortificare i moti truculenti della propria irascibilità con la virtù della pazienza che imporre dei comandi alle potenze dell’aria, e vale di più ricacciare i morsi divoranti della tristezza dal proprio cuore che sanare le malattie procurate dalla febbre nel corpo degli altri: infine, sotto molti rispetti, è virtù più nobile e profitto più elevato curare i mali della propria anima che curare quelli del corpo degli altri. Quanto più l’anima è superiore alla carne, tanto più vale la sua salute, e perciò, quanto più preziosa e più eccellente è la sua sostanza, di tanto risulta più grave e più deleteria si rivelerà la sua rovina. Della cura di quelle malattie corporali così fu detto ai beatissimi Apostoli: “Non rallegratevi perché i demoni si sottomettono a voi” (Lc 10,20). Infatti ad operare quei risultati non era il loro potere, ma l’efficacia del nome invocato; perciò essi venivano ammoniti, affinché, sotto questo riguardo, si guardassero bene dall’attribuire a se stessi qualche parte di beatitudine e di gloria, che appartiene unicamente alla potenza e alla virtù di Dio; semmai, si gloriassero della purezza della loro vita e del loro cuore, in merito alla quale meritavano che i loro nomi fossero scritti nei cieli. E affinché, quanto ora io ho detto, resti approvato dalle testimonianze degli anziani e dagli oracoli divini, io riferirò con le stesse sue parole che cosa abbia pensato il beato Pafnuzio dell’ammirazione destata dai prodigi e dalla grazia della purezza, o meglio, riferirò quello che egli conobbe dalla rivelazione di un angelo. Egli dunque, essendo vissuto per molti anni in un’austerità così singolare da credersi ormai del tutto immune dai lacci della concupiscenza carnale, dato che ormai egli si riteneva superiore a tutti gli assalti dei demoni, coi quali era venuto in aperto conflitto per tanto tempo, mentre dunque, per l’arrivo di certi santi uomini attendeva a preparare per loro un piatto di lenticchie, da loro denominato athéra 1), la sua mano, come di solito avviene, rimase scottata a causa d’una fiamma sprigionatasi dal forno. Il fatto prese a renderlo assai triste al punto che egli cominciò a riflettere così fra se stesso: “Perché mai il fuoco non ha pace con me, dato che ormai sono cessate per me le lotte ben più dure con i demoni? Nel temibile giorno del giudizio, allorché il fuoco inestinguibile e inquisitore dei meriti di tutti gli uomini mi sorprenderà, come non dovrà trattenermi con sé, se ora non mi ha risparmiato, pur essendo soltanto esterno, temporale e così ridotto?”. Ancora agitato da questi tristi pensieri e sorpreso da un improvviso assopimento, gli apparve un angelo del Signore che così prese a parlargli: “Pafnuzio, perché sei triste, solo perché il fuoco terreno non si è ancora acquietato nei tuoi confronti, mentre intanto nelle tue membra continua, non ancora del tutto sedata, la reazione dei tuoi movimenti carnali? Finché le radici di questo fuoco perdureranno nelle tue viscere, non permetteranno affatto che questo fuoco materiale ti lasci in pace. Tu non potrai avvertire di esserti liberato dal fuoco materiale in altro modo, se non quando sperimenterai, con il seguente indizio, che si sono spenti in te tutti i tuoi moti interni. Perciò ora va’, prenditi una donzella ancora vergine, nuda e bellissima, e allora, in presenza sua, se avvertirai che in te è rimasta imperturbata la tranquillità del tuo cuore e insensibili gli ardori della tua carne, anche il contatto di questa fiamma visibile ti toccherà in forma mite e inoffensiva al modo stesso che si verificò per i tre giovinetti in Babilonia” (Dn 3). Il vecchio pertanto, impressionato da questa rivelazione, non tentò la prova che pur gli era stata divinamente proposta, ma, interrogando la propria coscienza, esaminando la purezza del suo cuore e ritenendo che il potere della sua castità non era ancora in grado di sostenere il peso di quella prova, così concluse: “Non devo meravigliarmi se, pur avendo superato le lotte combattute contro gli spiriti immondi, ho sperimentato che le scottature del fuoco, che io credevo fossero inferiori ai ferocissimi assalti dei demoni, mi hanno ancora colpito. È ben più grande quindi e più sublime grazia quella di estinguere l’interna libidine della carne che non quella di assoggettare col segno della croce e il potere della divina virtù la malvagità dei demoni che ti assaltano dall’esterno, o anche ricacciarli dal corpo degli ossessi con l’invocazione del nome di Dio”». L’abate Nestore, ponendo fine all’esposizione sul modo di porre in pratica veracemente i carismi, ci accompagnò con certa fretta, pur continuando i suoi insegnamenti, fino alla cella del vecchio Giuseppe, distante all‘incirca un miglio dalla sua. Note: *) Con il termine “carismi” s’intende di solito i doni concessi dallo Spirito di Dio per operare miracoli e guarigioni. Origene era persuaso che, pur essendo diminuiti i segni soprannaturali in confronto a quanto era avvenuto nella Chiesa primitiva, il monachesimo costituiva la sede privilegiata della loro manifestazione. Il Crisostomo, da parte sua, riteneva che i carismi non fossero un privilegio esclusivo della gerarchia ecclesiastica e del monachesimo. Cassiano si limita a considerare il fenomeno nell’ambiente monastico, ne adduce diversi esempi, concludendo però che, al di sopra della concessione elargita a pochi privilegiati, quello che vale è la perfezione della vita vissuta. 1) Athéra è un termine d’origine egiziana che designa un bollito di lenticchie. PRIMA CONFERENZA DELL’ABATE GIUSEPPE L’AMICIZIA Estratto da “Giovanni Cassiano – Conferenze spirituali” – Edizioni Paoline – 1965 Indice dei capitoli I. La prima domanda che ci rivolse l’abate Giuseppe. I – La prima domanda che ci rivolse l’abate Giuseppe Il beato Giuseppe, del quale ora prendo a spiegare gli insegnamenti e i precetti, era uno dei tre vecchi monaci dei quali ho parlato nella prima di queste conferenze. Veniva da famiglia illustre ed era uno dei notabili della sua città natale, cioè di Tmuis, in Egitto. Aveva imparato a parlare molto bene non solo la lingua del suo paese, ma anche il greco; così, non solo con noi, ma anche con altri che ignoravano completamente la lingua egiziana, poteva esprimersi con molta eleganza, senza ricorrere, a somiglianza degli altri, ad un interprete. Avendo conosciuto il nostro desiderio di udire i suoi insegnamenti, prima di tutto ci domandò se eravamo fratelli. Quando sentì che lo eravamo veramente, ma non per nascita, sì bene secondo lo spirito, perché fin dagli inizi della vita monastica una inseparabile unione ci aveva avvinti, sia nel viaggio — che insieme avevamo intrapreso per formarci nella milizia spirituale — sia negli esercizi del monastero, così prese a parlare. II – Discorso del vecchio abate sulle amicizie infedeli Molte sono le forme d’amicizia e d’affetto che uniscono gli uomini nei legami dell’amore. Per molti è stata una raccomandazione a metterli in contatto, poi fra loro è nata l’amicizia. Alcuni si son legati in amicizia nell’occasione di qualche contratto o convenzione che importava un dare e un ricevere. Altri hanno fatto amicizia per causa delle somiglianze e dei contatti che c’erano fra loro, o negli affari, o nella vita militare, oppure nel lavoro e nella professione. L’unione amichevole pone tanta dolcezza nel cuore anche delle persone meno sensibili, che gli stessi banditi, i quali vivono nelle foreste, nelle montagne e trovano la loro gioia nel versare sangue umano, si mostrano pieni d’attaccamento e di premura per i complici dei loro misfatti. C’è un’altra specie d’affetto che nasce dalla natura e dalla legge del sangue: per essa sono preferiti a tutti gli altri i membri della stessa razza, lo sposo1 e la sposa, i genitori, i fratelli, i figli. Questa forma di unione non si riscontra soltanto tra gli uomini, ma anche presso gli uccelli e gli altri animali. Tutti gli animali, infatti, difendono i loro piccoli con tale slancio di naturale affetto che spesso non temono di esporsi per quelli a gravi pericoli e anche alla morte. Perfino le belve feroci, i serpenti velenosi, gli uccelli rapaci, che per la loro ferocia o il loro mortale veleno sono tenuti lontani da tutti gli altri esseri, — e valgano come esempi il basilisco, il rinoceronte, il grifo — benché al solo vederli rappresentino per tutti un pericolo, tuttavia non cessano di vivere in pace fra loro e senza nuocersi; e ciò in forza della loro comune origine e dei vincoli che da quella derivano. Ma tutte queste forme d’affetto, per il fatto stesso che sono comuni ai buoni e ai cattivi, alle bestie feroci e ai serpenti, è certo che non possono durare per sempre. Sono spesso rotte dalla distanza, dalla dimenticanza che nasce dal tempo, da un accordo verbale, dalla stipulazione di un contratto, da una questione d’interessi. Queste unioni, che erano nate da legami diversi, come ad esempio: desiderio di guadagno, passione, sangue, relazioni varie, si spezzano anche con facilità, alla prima occasione che si presenti. III – Da dove nasce una amicizia indissolubile Fra le diverse specie di amicizia se ne trova una sola che sia indissolubile: quella che non si fonda sul favore derivante da una raccomandazione, o sulla grandezza dei servigi e dei favori ricevuti, né sui contratti, o in una necessità della natura, ma nella somiglianza della virtù. Questa, io dico, è l’amicizia che gli avvenimenti non sciolgono, che le lontananze nel tempo e nello spazio non possono rompere, che neppure la morte riesce ad infrangere. Questo è il vero e indissolubile affetto che cresce col crescere simultaneo delle virtù che ornano i due amici; il nodo di questa amicizia, stretto che sia, non si rompe, né per la diversità dei desideri, né per la lotta delle volontà contrarie. Nella mia lunga esperienza io ho conosciuto molti, i quali, dopo essersi legati in amicizia per amore di Cristo, non hanno saputo conservare per sempre il vincolo della loro unione. Il principio dell’amicizia era buono, ma non seppero conservare lo stesso impegno a mantenere il proposito fatto. La loro unione fu di quelle che durano una sola stagione perché non si alimentava ad una virtù d’ugual natura e intensità nell’uno e nell’altro; resisteva invece per la pazienza di uno solo dei due. Il destino di una tale amicizia, anche se un amico si dimostra eroicamente deciso a mantenerla, è quello di rompersi per la pusillanimità dell’altro. Quantunque i forti siano disposti a sopportare le debolezze di coloro che cercano con molta tiepidezza la sanità della perfezione, sono alla fine gli stessi deboli a non sopportare se stessi. Costoro infatti hanno in sé la causa di un turbamento che mai li lascia tranquilli. Assomigliano a certi ammalati che tutti conosciamo, i quali attribuiscono al cuoco o al cameriere i disturbi del loro stomaco ammalato, e quantunque tutti cerchino di servirli nel migliore dei modi, non cessano d’imputare a chi si prodiga per loro, la causa dei loro disturbi, ben lontani dal supporre che la causa si trova in loro stessi, nel loro cattivo stato di salute. Per questo io ritengo che un legame d’amicizia indissolubile può formarsi soltanto là dove regna un’uguaglianza di virtù: « Il Signore fa abitare nella stessa casa coloro che hanno lo stesso spirito » (Sal 67,7). L’amore dunque può durare ininterrotto soltanto tra coloro che hanno gli stessi propositi, la stessa volontà: fra coloro che vogliono e non vogliono le stesse cose. Se volete anche voi mantenere inviolata la vostra amicizia, sforzatevi di allontanare i vizi, di mortificare la vostra volontà; poi, quando avrete lo stesso ideale, lo stesso proposito, avvererete l’oracolo che riempiva di gioia l’anima del profeta: « Oh! come è bello e giocondo che due fratelli abitino insieme! » (Sal 132,1). E queste parole del salmo — com’è evidente — sono da intendersi in senso spirituale, non locale. Non vale nulla infatti abitare sotto lo stesso tetto, se si è separati dal sistema di vita e dai propositi; mentre per coloro che sono ugualmente fondati nella virtù, la distanza nello spazio non costituisce separazione. Davanti a Dio è l’unità della condotta, non l’unità di luogo, che fa abitare i fratelli nella stessa casa: la pace non può resistere inalterata là dove le volontà sono divergenti. IV – Domanda: se sia bene compiere qualche azione utile, anche contro il desiderio del fratello Germano. Vorrei fare una domanda. Se uno dei due amici vuol fare una cosa che conosce utile e vantaggiosa dinanzi a Dio, ma l’altro non vuole, come dovrà comportarsi? Dovrà compierà quell’atto nonostante la contrarietà dell’amico, o dovrà rinunciare al suo proposito per non contristare l’amico? V – Risposta: l’amicizia duratura può esistere soltanto tra i perfetti Giuseppe. È proprio questa la ragione per cui ho detto che la grazia dell’amicizia non potrà durare piena e perfetta se non tra coloro che hanno uguale virtù. Una volontà unificata, un proposito identico, non permetteranno che esistano tra loro (o potranno esistere soltanto raramente) delle aspirazioni diverse, o qualche disaccordo su ciò che riguarda il progresso della vita spirituale. Se i due amici si sorprendono con una certa frequenza a disputare calorosamente, è chiaro che i loro cuori non furono mai uniti secondo quella regola che ho detto sopra. E vero però che anche nell’amicizia non si comincia dai gradi più perfetti; bisogna anche qui metter prima i fondamenti. Voi non mi domandate qual è la grandezza dell’amicizia, ma quali sono i mezzi per raggiungerla. Ritengo perciò necessario farvene conoscere brevemente le leggi, affinché voi possiate più facilmente ottenere il dono della pazienza e della pace. VI – In qual modo un’amicizia si può conservare immobile Il primo fondamento della vera amicizia sta nel disprezzo dei beni mondani e nel distacco da tutto ciò che possediamo. Sarebbe cosa sommamente ingiusta ed empia se noi, dopo aver rinunciato alla vanità del mondo e di tutte le cose che in esso si trovano, anteponessimo una cosa da nulla che ancora ci resta, all’affetto prezioso di un fratello. In secondo luogo conviene che ognuno comprima le sue volontà personali, affinché, dopo essersi giudicato più bravo e più sapiente, non preferisca seguire il suo giudizio piuttosto che quello dell’amico. Il terzo elemento di amicizia sta nel persuadersi che tutto, anche ciò che si stima utile e necessario, vai meno di quel bene che è la pace e la carità. Il quarto consiste nella certezza che per nessun motivo, giusto o ingiusto che sia, è permesso andare in collera. La quinta regola è questa: bisogna desiderare di guarire l’ira che il fratello può aver concepito nei nostri riguardi, anche se ingiustamente. In quest’opera occorre mettere tanto zelo quanto ne metteremmo ad estinguere l’ira nostra, ben sapendo che dall’ira dell’altro noi traiamo lo stesso danno che trarremmo dalla nostra, posto che non ci sforziamo a cacciare quel sentimento dall’animo del fratello. L’ultima regola, quella che costituisce indubbiamente la fine di tutti i vizi, consiste nel pensare che ogni giorno si può morire. Questo pensiero, oltre a non lasciar attecchire nel nostro cuore nessun germe d’ira, comprimerà anche tutti i movimenti delle concupiscenze e dei vizi. Se si aderisce fermamente a questi principi, non è possibile sentire, o far sentire ad altri, l’amarezza dell’ira e della discordia. Se invece questi principi non sono accettati, il nemico della carità verrà di nascosto nel cuore degli amici e vi seminerà il veleno della tristezza. Da una disputa nascerà un’altra disputa, e l’amore necessariamente si raffredderà a poco a poco, finché la rottura si farà completa fra due cuori da lungo tempo esulcerati. Colui che s’incammina per la via da me indicata, non avrà motivo per separarsi affettivamente dal suo amico. Se non rivendica nulla come sua proprietà, taglia la radice stessa di tutte le liti, che nascono di solito da piccole cose, da oggetti di nessun valore. L’amico che segue le regole enumerate sopra, si applica con tutte le forze ad osservare ciò che è scritto nel libro degli Atti a proposito dell’unità che regnava tra i primi cristiani: « La moltitudine dei credenti era un cuor solo e un’anima sola, né alcuno c’era che considerasse come suo quel che possedeva, ma avevano tutto in comune »(At 4,32). E come potrebbe seminare discordia un amico di tal genere? Egli non è schiavo della sua volontà, ma di quella del fratello; si è reso imitatore del suo Signore e creatore, il quale diceva — parlando a nome dell’umanità che rappresentava — « lo non sono venuto a fare la mia volontà, ma la volontà di Colui che mi ha mandato » (Gv 6,38). Come potrebbe dare motivo di contesa? Egli si è proposto — tutte le volte che si tratterà del suo modo di vedere e giudicare le cose — di non regolarsi secondo i suoi gusti, ma secondo i desideri del fratello, e secondo le decisioni di quell’arbitro, lo vedremo approvare e disapprovare le sue stesse idee, mostrando nell’umiltà di un cuore pieno di dolcezza l’avveramento perfetto di quel detto evangelico: « Tuttavia, non come voglio io ma come vuoi tu » (Mt 26,39). E come potrebbe permettersi qualcosa capace di far soffrire il fratello? Egli giudica che non esista al mondo una cosa più preziosa della pace e non si toglie mai dalla mente queste parole del Signore: « Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli, se vi amerete scambievolmente » (Gv 13,35). Questo amore scambievole ha voluto il Signore che fosse un sigillo col quale si riconoscessero in questo mondo le pecore del suo gregge; l’ha voluto, se così posso dire, come un’impronta che distinguesse i suoi dal resto degli uomini. Come potrebbe un vero amico sopportare che in lui o nel fratello si annidasse il rancore della tristezza? Egli tiene per verità indubitabile che l’ira, sempre dannosa e illecita, non può mai avere una giusta causa. Per lui è impossibile pregare, sia quando il fratello è adirato con lui, sia quando lui è irritato col fratello. Continuamente conserva in cuore il ricordo di queste parole del Maestro: « Se tu, nel fare la tua offerta sull’altare, ti rammenti che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia lì la tua offerta davanti all’altare e va’ prima a riconciliarti col tuo fratello; poi ritorna a fare l’offerta » (Mt 5,23-24). Infatti non giova nulla affermare che non siete in collera con nessuno e ripetere a voi stessi che osservate quel comandamento: « Il sole non tramonti sul vostro sdegno » (Ef 4,26); o « Chi si adira con suo fratello merita di esser giudicato » (Mt 5,22), se poi disprezzate con cuore duro e superbo la tristezza del vostro fratello, quando la vostra mansuetudine potrebbe addolcirla. In entrambi i casi si pecca contro il precetto del Signore, perché Colui che ha detto: non ti adirare col tuo prossimo; ha detto pure: non disprezzare la tristezza del tuo prossimo. Al Signore che vuole salvi tutti gli uomini non importa che perda te stesso o un altro. Chiunque sia ad andar perduto, il danno che ne viene a Dio è sempre lo stesso; e, per la ragion dei contrari, colui che gode tanto a perdere tutti, trae la stessa gioia dalla vostra morte eterna e da quella di un fratello. Infine, come potrebbe conservare il più piccolo rancore verso il fratello, uno che pensa di poter morire oggi stesso? VII – Niente va apprezzato più della carità, niente va disprezzato più dell’ira Come non c’è cosa da stimarsi di più della carità, così non c’è cosa più spregevole dell’ira. Bisogna sacrificare tutto — si trattasse anche di cose utili o addirittura necessarie — pur di evitare i turbamenti di questa passione. Bisogna tutto accettare, tutto sopportare — anche ciò che sembra una disgrazia — pur di conservare inviolabile la tranquillità dell’amore e della pace; convinti che nulla è più dannoso dell’ira e della tristezza, nulla è più utile della carità. VIII – Per qual motivo nascono le divisioni fra gli uomini spirituali Tra i fratelli ancora carnali e deboli, il demonio fa nascere l’ira che li divide, da cause di vile materia; tra i fratelli spirituali, il demonio fa nascere la discordia con la diversità dei pareri. Di qui, senza dubbio, nascono quelle risse e divisioni che l’Apostolo condanna; dalle risse prende occasione il nemico invidioso e crudele per giungere alla rottura tra fratelli che prima facevano un cuor solo e un’anima sola. È verissima a tal proposito la sentenza del sapiente Salomone: « Le dispute fanno nascere l’odio, ma coloro che non s’abbandonano alle dispute sono protetti dall’amicizia » (Pr 10,12 – LXX). IX – Bisogna troncare le cause spirituali che generano discordia Per conservare una carità continua e indivisibile, non basta togliere la prima causa del dissenso, che sta di solito nelle cose caduche e terrestri; non basta disprezzare tutto ciò che è carnale e permettere ai fratelli l’uso di tutti gli oggetti che ci sono necessari. Bisogna togliere anche la seconda causa, che nasce dalla diversità d’opinione nelle cose spirituali. Oltre a ciò è necessario sforzarci d’acquistare in tutto, con l’umiltà dello spirito, una volontà perfettamente intonata con quella degli altri. X – Il modo migliore per cercare la verità Ho un ricordo che riguarda quel periodo della mia giovinezza in cui facevo vita comune con un amico. Accadeva che ciascuno di noi, per proprio conto, facesse delle scoperte nella morale o nella sacra Scrittura, che sembravano le cose più giuste e ragionevoli di questo mondo. Poi ci riunivamo e incominciavamo a comunicarci i nostri pensieri. Dopo aver sottomesso alla critica certe affermazioni, accadeva che uno le trovasse false e pericolose; poi, continuandone ancora l’esame, una sentenza unanime le dichiarava pericolose e degne di condanna. Eppure, prima pareva che splendessero come la luce del sole, quando il demonio ce le ispirava. Quelle sentenze avrebbero facilmente suscitato la discordia, se il comando degli Anziani, osservato da noi come un oracolo di Dio, non ci avesse preventivamente liberati da ogni disputa. Ora, il comando degli Anziani prescriveva che né l’uno né l’altro doveva fidarsi di più del suo giudizio che di quello dell’amico, se non voleva essere ingannato dall’astuzia del demonio. XI – Chi si fida del proprio giudizio cadrà infallibilmente nelle illusioni del diavolo È stata spesso riscontrata la verità di ciò che dice l’Apostolo, cioè che il demonio si trasforma in angelo di luce (2 Cor 11,14), per immettere nelle nostre menti una caligine oscura e tetra in luogo della vera luce della scienza. Se gli artifici di Satana non trovano un cuore umile e dolce, il quale li sottopone al giudizio di un fratello molto esperto o di un anziano di virtù ben provata, per poi accettare o rifiutare secondo il giudizio da loro dato dopo un esame attento, non v’è alcun dubbio che noi accetteremo l’angelo delle tenebre come se fosse un angelo della luce, e periremo della peggiore fra tutte le morti. Chi si fida di se stesso, non potrà evitare un tale guaio. Bisognerà perciò che il monaco ami la vera umiltà e la pratichi; egli dovrà adempiere, in piena contrizione di cuore, quelle parole dell’Apostolo: « Se dunque è possibile qualche consolazione in Cristo, se v’è qualche conforto dell’amore, se v’è qualche comunanza di spirito, se avete viscere di compassione, rendete compiuto il mio gaudio della concordia vostra, avendo uno stesso amore, una stessa anima, uno stesso sentire. Nulla si faccia per spirito di rivalità o per vanagloria, ma per umiltà, ritenendo ciascuno gli altri superiori a se stesso » (Fil 2,1-3). E l’Apostolo dice ancora: « Quanto a rispetto, anteponga ognuno gli altri a se stesso » (Rm 12,10). Ciascuno insomma attribuisca al fratello più scienza e santità che a se stesso, creda che la vera e perfetta discrezione si trova più nel giudizio dell’altro che nel proprio. XII – Perché non si debbono disprezzare gli inferiori nelle Conferenze Accade spesso, o per illusione del diavolo o per errore umano (infatti non c’è uomo fatto di carne che non sia soggetto a sbagliare), che colui il quale ha maggiore ingegno e maggiore scienza, concepisca nella mente qualche idea falsa; un altro, invece, che ha minore ingegno e minor merito può avere un’idea più giusta e più vera. Nessuno dunque, anche se molto sapiente, monti in superbia e pensi di poter fare a meno del consiglio del fratello. Anche se il suo giudizio non sarà insidiato dalle illusioni del diavolo, non potrà tuttavia sfuggire i tranelli terribili che preparano la superbia e la fiducia in se stessi. Chi potrebbe, senza pericolo, avere in sé una fiducia assoluta, dal momento che il Vaso d’elezione, nel quale Cristo stesso parlava, afferma di essere salito a Gerusalemme per comunicare agli Apostoli, in un esame privato, il Vangelo che predicava alle nazioni, nonostante che avesse la rivelazione e l’assistenza del Signore? Con questo resta dimostrato che l’osservanza delle regole da noi suggerite, non conserva soltanto l’unanimità e la concordia, ma pone al riparo da tutte le insidie del demonio, nostro nemico, e ci permette di non temere le sue illusioni e i suoi lacci. XIII – La carità non è soltanto una cosa divina, ma è Dio stesso La Scrittura divina pone così in alto la virtù della carità che il beato Giovanni apostolo giunge a dire: la carità non è soltanto una cosa divina: è Dio stesso: « Dio — egli dice — è carità e chi sta nella carità, sta in Dio e Dio in lui » (1 Gv 4,16). Non è vero che noi sentiamo un elemento divino nella carità? Non sentiamo forse come una realtà viva quel che dice l’Apostolo: « La carità di Dio è stata diffusa nei nostri cuori dallo Spirito Santo che abita in noi » (Rm 5,5). È come se dicesse: Dio è stato diffuso nei nostri cuori per lo Spirito Santo che abita in noi. E questo divino Spirito, quando non sappiamo che cosa dobbiamo domandare nella preghiera, « prega per noi con gemiti inenarrabili; e Colui che scruta i cuori sa bene qual sia l’aspirazione dello Spirito, perché intercede per i santi secondo Dio » (Rm 8,26-27). XIV – I gradi della carità È possibile usare con tutti quella carità che si chiama agape. Di questa carità parla l’Apostolo quando dice: « Come l’occasione si presenta, facciamo del bene a tutti, specialmente ai compagni di fede » (Gal 6,10). È tanto vero che la carità va usata con tutti, che il Signore ci ha comandato di usarla verso i nemici, dice infatti: « Amate i vostri nemici » (Mt 5,44). La diàtesis, o carità d’affezione, si rivolge invece a un piccolo numero di persone, cioè a coloro che ci sono uniti o per somiglianza di costumi o per comunanza di virtù. La diàtesis, peraltro, offre una notevole varietà di gradi. Altro è l’amore filiale e quello coniugale, altro l’amore fraterno e quello paterno. E anche in questi rapporti affettivi così diversi tra loro, si riscontrano altre diversità: neppure l’amore dei genitori per i figli è sempre uguale. Il patriarca Giacobbe ce ne fornisce una prova. Padre di dodici figli, li amava tutti d’un amore veramente paterno, tuttavia sentiva una propensione particolarissima per Giuseppe, tanto che la sacra Scrittura dice apertamente: « I fratelli, vedendo che era amato dal padre più di tutti gli altri, lo odiavano e non potevano parlare con lui senza adirarsi » (Gn 37,4). Non che quell’uomo giusto e ottimo padre, mancasse di amare grandemente gli altri figli, ma aveva un affetto più tenero, una maggior compiacenza verso Giuseppe, che portava in sé una figura del Signore. Leggiamo nel Nuovo Testamento che anche Giovanni evangelista fu oggetto di un particolare amore. Il Vangelo ce lo presenta chiaramente come il « discepolo amato dal Signore » (Gv 13,23). Con questo non si vuol negare che il Signore amasse gli altri undici; sta scritto anzi nello stesso Vangelo: « Come io amo voi, così voi amatevi scambievolmente » (Gv 13,34). Dell’amore di Gesù per tutti gli Apostoli si dice anche altrove: « Poiché aveva amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine » (Gv 13,1). Così il particolare amore che Gesù mostrò per san Giovanni, non significa che il suo affetto fu tiepido nei confronti degli altri Apostoli, ma solo che la sovrabbondanza dell’amore si riversò su colui che il privilegio della verginità, e una completa integrità della carne, rendevano particolarmente caro al Signore. È proprio per questo che il Vangelo nota l’amore più sublime ed eccezionale che Gesù ebbe per Giovanni: il contrasto non è tra amore e odio, ma tra un amore grande e uno più grande ancora, che nasce da una fonte di carità più alta. Qualcosa di somigliante si trovava nel Cantico dei Cantici, sulle labbra della sposa: « Ordinate in me la carità» (Ct 2,4 – LXX). E carità ordinata è quella che, senza avere odio per nessuno, ama alcuni con preferenza, a causa dei loro meriti. Pur amando tutti, la carità sceglie alcuni che vuole avvolgere d’una particolare tenerezza, e anche in questo numero di privilegiati sceglie un piccolo stuolo al quale dona un affetto ancor più speciale. XV – Coloro che dissimulano aumentano così la commozione propria e quella dei fratelli Ma io so —-e volesse il cielo che mai l’avessi saputo — che in molti monaci non c’è carità, bensì una ostinazione e una durezza singolare. Se si accorgono di essere presi da passione verso un fratello, oppure si accorgono che il fratello è adirato con loro, si mettono a dissimulare la tristezza del loro cuore, venga essa da loro stessi o da un altro. Si allontanano allora da coloro che avrebbero dovuto lenire con un’umile soddisfazione, con buone parole, e incominciano a cantare qualche versetto dei salmi. Credono di calmare così l’amarezza che hanno in cuore. Ma in tal modo accrescono il fuoco che hanno dentro, quel fuoco che avrebbero potuto immediatamente estinguere, se avessero saputo usare maggior gentilezza e umiltà, in modo che una scusa opportuna avesse sanato insieme la ferita del loro cuore e quella prodotta nel cuore del fratello. Ma facendo come fanno, essi accarezzano e fanno crescere la loro pusillanimità, anzi coltivano la loro superbia, invece di spegnerne il focolaio. Non pensano al comando del Signore che dice: « Chi si adira con suo fratello meriterà d’essere condannato in giudizio » (Mt 5,22). E ancora: « Se ti rammenti che il fratello ha qualcosa contro di te, lascia la tua offerta dinanzi all’altare e corri a riconciliarti con tuo fratello; poi torna e fa’ la tua offerta » (Mt 5,23-24). XVI – Dio rifiuta l’offerta delle nostre preghiere se abbiamo un’inimicizia con qualche fratello Osserviamo fino a qual punto il Signore condanna il disprezzo che noi possiamo avere della tristezza altrui: Se il nostro fratello ha qualcosa contro di noi, Dio non accetta più le nostre preghiere. In altre parole: Dio non accetta l’offerta delle nostre preghiere finché noi non avremo allontanato, con una pronta riparazione, la tristezza dal cuore del fratello, sia essa prodotta per nostra colpa, sia che noi non ne abbiamo colpa. Il Signore non dice: se tuo fratello ha un giusto motivo per lamentarsi di te, lascia la tua offerta dinanzi all’altare e corri prima a riconciliarti con lui. No! dice: se ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, vale a dire: anche se il dissapore che ha provocato il malinteso tra te e il fratello è cosa da nulla, e il ricordo di ciò colpisce all’improvviso la tua memoria, sappi che tu non devi offrire i doni spirituali della preghiera, senza aver fatto prima scomparire i segni della tristezza dal cuore del fratello — qualunque ne sia stata la causa — con una soddisfazione piena d’affetto. Così il Vangelo ci comanda di far le nostre scuse ai fratelli imbronciati, anche per un contrasto passato e leggero, e nato da cause di poco peso. E noi, per collere molto recenti e serie, per di più nate da nostra colpa, ostentiamo una noncuranza sprezzante! Che cosa sarà di noi? Gonfi di superbia diabolica e timorosi di umiliarci, non vogliamo riconoscere di essere responsabili della tristezza del fratello: il nostro spirito ribelle sdegna di sottomettersi al comando del Signore, e ci difendiamo col dire che quel comando non va preso alla lettera ed è impossibile a praticarsi. Ma quando giudichiamo impossibili i comandi del Signore, noi diventiamo, come dice l’Apostolo, « Non osservatori, ma giudici della legge » (Gc 4,11). XVII – Quelli che si tengono obbligati ad essere pazienti verso i secolari più che verso i loro confratelli C’è anche uno scandalo degno di esser pianto a calde lacrime. Alcuni fratelli sono stati offesi con una ingiuria e si presenta loro un amico che cerca di calmarli con le sue esortazioni. Il consolatore dice che non si deve mai concepire o serbare del risentimento verso un fratello, sta scritto infatti: « Chiunque si adira contro il fratello, sarà condannato in giudizio », e ancora: « Il sole non tramonti sul vostro sdegno ». A queste esortazioni essi rispondono: « Se mi avesse offeso un pagano o un secolare avrei certo dovuto sopportarlo, ma chi potrebbe sopportare che un fratello commetta un atto così grave, o dica parole così insolenti? ». Quasi che la pazienza si dovesse usare soltanto con gli infedeli e coi sacrileghi, e non con tutti indistintamente; come se la collera, condannabile verso i pagani, diventasse lecita verso i fratelli! Ma è vero, al contrario, che quando l’anima rimane ostinata nel suo rancore fa sempre peccato, chiunque sia che forma l’oggetto di quel sentimento. Quale ostinazione, anzi, quale stoltezza! Questa gente ha perduto persino il senso delle parole! Infatti, non è scritto: chi va in collera contro un estraneo sarà condannato in giudizio. Se fosse stato detto così dal Signore, ci poteva essere motivo per fare una eccezione riguardo a quelli che ci sono uniti nella comunanza di fede e di vita, come certi monaci pretendono di poter fare. Ma no; il Vangelo parla nel modo più chiaro: « Chiunque si adira con suo fratello, merita di essere condannato in giudizio ». Non c’è poi dubbio che il Signore ci insegna a stimare fratello ogni uomo. Ma se non si vuole andare tanto a fondo nel ricercare il valore di quel termine, non si potrà negare che in questo passo del Vangelo il nome « fratelli » indica i fedeli, coloro che condividono la nostra vita, prima e più che i pagani. XVIII – Coloro che si fingono pazienti e provocano all’ira i loro fratelli Altro errore è quello di stimarci pazienti perché talvolta non rispondiamo alcunché alle provocazioni che ci vengono rivolte. Invece di rispondere, mettiamo in ridicolo i fratelli inquieti, con un silenzio amaro, con qualche movimento o gesto canzonatorio; così, col nostro aspetto impassibile, li provochiamo alla collera più ancora che se parlassimo in tono offensivo. Noi crediamo di non essere colpevoli davanti a Dio perché non c’è uscita dalla bocca neppure una di quelle parole che gli uomini notano o disapprovano, ma ci sbagliamo. Agli occhi di Dio non hanno valore di colpa soltanto le parole, la volontà vale di più della parola. Che forse la colpa sta tutta nell’opera? Non sta piuttosto nell’intenzione e nel proposito malvagio? Non crederemo mica che il Signore, quando dovrà giudicarci, terrà conto soltanto di ciò che abbiamo fatto, e non di ciò che ci siamo proposti di fare? L’imputabilità non nasce soltanto da un fatto che muove all’ira il fratello, nasce anche dall’intenzione di muovere qualcuno all’ira. L’esame del nostro Giudice non andrà solo a cercare il modo in cui l’inimicizia è nata, ma cercherà anche per colpa di chi il fuoco si è acceso. Bisogna soprattutto guardare al peccato in se stesso, allo sviluppo esterno che può avere. Che differenza c’è tra ammazzare uno con le proprie mani o condurlo a morte con qualche inganno? Quel che conta è che il fratello è morto! Non basta mica essersi astenuti dal sospingere il cieco in un precipizio per essere innocenti della sua morte. Se chi poteva farlo non lo ha trattenuto quando lo ha visto sull’orlo del precipizio, egli è responsabile della sua morte. Che forse è assassino soltanto colui che impicca con le proprie mani? Non Io è anche chi gli prepara o gli presenta il capestro, o almeno non si sforza di strapparglielo? Similmente, non vale nulla tacere, se ci imponiamo il silenzio per ottenere con quello lo stesso effetto che s’otterrebbe con parole offensive; e se oltre a ciò compiamo dei gesti ipocriti che aumenteranno l’ira di colui che avremmo dovuto placare. Il colmo della colpa sarebbe se da questo contegno ipocrita ci attendessimo le lodi degli uomini. Il silenzio descritto nel nostro esempio è dannoso a tutte e due le parti: fa crescere l’ira nel cuore del prossimo e non la estingue nel cuore nostro. A coloro che agiscono così si rivolge la maledizione del profeta: « Guai a colui che dà da bere al suo amico mescendogli il suo fiele e ubriacandolo, affine di godere lo spettacolo della sua nudità! Si riempie di ignominia anziché di gloria » (Ab 2,15-16). E un altro profeta così parla di uomini simili: « Ogni fratello è pronto a imbrogliare il fratello e ogni amico procede fintamente. Gli uni gabbano gli altri e non parlano con verità » (Ger 9,4-5), « Vibrano infatti la loro lingua come arco di menzogna e non di verità » (Ger 9,3). Spesso una finta pazienza eccita alla collera più assai delle parole offensive; un silenzio sprezzante è più grave delle più gravi ingiurie: si sopportano meglio le percosse di un nemico dichiarato che la falsa dolcezza d’un derisore. Di questi tipi così parla il profeta: « Più blande dell’olio sono le sue parole e sono invece pugnali » (Sal 54,22), e altrove: « Le parole dei mentitori sono lievi, ma penetrano sino in fondo alle viscere » (Pr 26,22). Si può applicare al caso anche un altro testo della Scrittura: « Nella bocca ha proteste di pace con l’amico, e con l’interno gli pone le insidie » (Ger 9,8). Ma quello più ingannato è sempre il mentitore, perché sta scritto che: « Chi tende la rete davanti al suo amico, ci rimane preso » (Pr 29,5). e « Chi scava la fossa per il suo prossimo, ci cade dentro » (Pr 26,27). Venne una grande moltitudine con spade e bastoni a prendere il Signore; fra tutta quella turba nessuno fu tanto crudele parricida contro l’Autore della nostra vita, quanto colui che stava alla testa, allo scopo di offrire al Maestro un saluto e un segno d’affetto: il bacio d’un amore perfido. E il Signore gli disse: « Giuda, con un bacio, tradisci il Figlio dell’uomo? » (Lc 22,48). Cioè: per coprire l’amaro della persecuzione e dell’odio tu prendi il segno che è fatto per manifestare la dolcezza del vero amore? Ma lo stesso Signore nostro manifesta più apertamente e amaramente la violenza del suo dolore per bocca del profeta: « Se un nemico mi avesse insultato lo avrei sopportato, e se uno che mi odia avesse insolentito contro di me, mi sarei forse guardato da lui. Ma sei stato tu, un’anima stessa con me, mia guida e mio intimo, tu che insieme con me prendevi il dolce cibo, e d’accordo procedevamo nella casa del Signore » (Sal 54,13-15). XIX – Quelli che digiunano per sdegno C’è poi una nuova specie di tristezza sacrilega, che io non ricorderei se non sapessi che molti fratelli ne sono presi. Quando sono tristi o adirati, si tengono per molto tempo lontani dal cibo. Lo dico con vergogna: questi uomini, finché sono calmi assicurano di non poter protrarre il loro pasto al di là dell’ora di sesta o, tutt’al più, al di là dell’ora nona, quando invece la tristezza o l’ira li riempie, non sentono più il digiuno per due giorni. L’astensione del cibo dovrebbe annientarli, invece no: la sopportano perché si nutrono di rabbia. E questo è senza dubbio un peccato’ di sacrilegio: essi sopportano… ad onore del diavolo, quei digiuni che si devono offrire a Dio solo, per umiliare il cuore e purificarlo dai vizi. Questo equivale a presentare i nostri sacrifici e le nostre preghiere non a Dio, ma ai demoni. Così si diventa meritevoli del rimprovero di Mosè: « Sacrificarono ai demoni e non a Dio, a dèi che prima non conoscevano » (Dt 32,17). XX – Coloro che dissimulano pazienza e presentano a chi li percuote l’altra guancia Non sfugge un altro genere di stoltezza che si ritrova in alcuni monaci, i quali affettano una falsa pazienza. Essi non si accontentano di provocare all’ira i loro fratelli, li spingono fino al punto di venire alle mani. Poi, appena sono stati leggermente toccati, si voltano e presentano l’altra parte del loro corpo, come se realizzassero così la perfezione del comando divino: « Se uno ti percuote sulla guancia destra, porgigli l’altra » (Mt 5,39). Ma essi non hanno capito per nulla questo testo del Vangelo, perché credono di praticare la pazienza evangelica abbandonandosi al vizio dell’ira. Proprio per estirpare fin dalle radici il vizio dell’ira, il Signore non si accontentò di abrogare la legge del taglione, e le provocazioni della rissa, ma ci comandò pure di mitigare il furore di chi ci percuote con la nostra costanza a sopportare doppia ingiuria. XXI – Come è possibile obbedire ai comandi del Signore e non acquistare la perfezione evangelica Germano. Come si fa a condannare uno che obbedisce al comando del Vangelo e, oltre a non praticare la legge del taglione, si mostra pronto a sopportare una seconda ingiuria? XXII – Il Signore non guarda soltanto all’atto, ma anche all’intenzione Giuseppe. A questa obiezione ho già risposto quando ho detto che non si deve considerare soltanto l’atto materiale, ma anche la disposizione d’animo e l’intenzione di chi agisce. Considerate attentamente in cuor vostro i sentimenti che dirigono le azioni umane, esaminate da quali moti esse derivano’, e vi accorgerete che la virtù della pazienza o della dolcezza, non si può esercitarla con lo spirito opposto, cioè con lo spirito d’impazienza e d’ira. Il Signore e Salvatore nostro ci ha voluto formare ad una virtù sincera, ad una virtù che non stesse soltanto sulle nostre labbra, ma dimorasse nel santuario più intimo dell’anima nostra. Dice dunque il Signore nella sua formula di perfezione evangelica: « Se uno ti percuote sulla guancia destra, mostragli l’altra », ma qui dobbiamo sottintendere l’altra destra. L’altra destra non si può poi intendere se non si riferisce alla faccia dell’uomo interiore. Il Signore desidera pertanto estirpare dal profondo dell’anima ogni fuoco d’ira. Vuole che quando l’uomo esteriore si trova ad essere percosso sulla guancia destra, dal colpo di un ingiusto aggressore, il nostro uomo interiore presenti anch’egli la sua destra alla percossa, consentendo umilmente all’offesa. L’uomo interiore deve partecipare al dolore dell’uomo esteriore sottomettendo, abbandonando, in certo modo, il corpo all’ingiuria. Insomma: bisogna che l’uomo interiore non si adiri, neppure leggermente, del colpo ricevuto dall’uomo esteriore. Da questo potete vedere come e quanto, quei monaci dei quali abbiamo parlato, sono lontani dalla perfezione evangelica, la quale insegna a conservare la pazienza non a parole, ma con la tranquillità intima del cuore. Ed ecco come ci ordina di comportarci quando avviene qualcosa di contrario: non basta tenersi lontani dai movimenti violenti dell’ira, dobbiamo anche — nell’accettare l’ingiuria — cercare di calmare coloro che si adirano per loro propria colpa, vincere l’ira con la nostra dolcezza, ottenere che ritrovino la calma mentre ci percuotono. Così osserveremo il comando dell’Apostolo che dice: « Non lasciarti vincere dal male, ma vinci nel bene il male » (Rm 12,21). Ma di ciò non sono capaci coloro che pronunciano parole di dolcezza e d’umiltà in spirito di iracondia e di superbia. Invece di spegnere in se stessi il fuoco dell’ira, essi avvivano le fiamme nel loro cuore e in quello del fratello. Anche ammettendo che riescano, per quanto personalmente li riguarda, a conservare in qualche modo la dolcezza della pace, non ne trarranno alcun frutto di giustizia, perché cercano di ottenere la gloria della pazienza a danno del prossimo. In tal modo si rendono totalmente estranei alla carità raccomandata dall’Apostolo, la quale « non cerca il proprio interesse » (1 Cor 13,5), ma quello degli altri. Essa non desidera arricchirsi a danno degli altri, non vuole acquistare alcunché spogliandone il primo possessore. XXIII – È forte e sano chi sa piegarsi alla altrui volontà Generalmente dimostra di essere più forte chi sottomette la sua volontà, a quella del fratello, che non colui il quale si mostra ostinato a difendere e conservare la sua volontà. Il primo, per il fatto che sa sopportare paziente- mente il prossimo, merita un posto nella schiera degli uomini forti e valorosi; il secondo è da annoverarsi fra i deboli e forse anche tra gli ammalati, perché ha bisogno di essere accarezzato e coccolato. Talvolta sarà opportuno astenersi anche dalle cose necessarie per farlo stare tranquillo e in pace. E quando per compiacere a un debole il monaco tralascerà qualche pratica, non pensi di nuocere alla sua personale perfezione. Anzi, la longanimità e la pazienza lo faranno molto progredire. Dice infatti l’Apostolo: « Voi che siete forti, sopportate le debolezze dei deboli » (Rm 15,1) e ancora: « Portate i pesi gli uni degli altri, così adempirete la legge di Cristo » (Gal 6,2). Mai un debole può dar forza a un debole, o un malato può curare e guarire un malato. Solo chi non è debole può portare aiuto a chi è vinto dalla debolezza. Altrimenti c’è ragione di dirgli: « Medico, cura te stesso » (Lc 4,23). XXIV – I deboli sono pronti all’ingiuria ma non sopportano di essere ingiuriati C’è da notare anche un altro particolare che è proprio dei deboli. Sono pronti e facili all’offesa, facili a far nascere litigi; essi però non vogliono’ essere sfiorati neppure dall’ombra dell’ingiuria. Pieni di insolenza, trattano tutti dall’alto in basso, usano parole e atti superbi, ma dopo tanta libertà che si sono presi, non possono sopportare un’offesa o una mancanza di riguardo leggerissima. Così siamo invitati a tornare alla sentenza degli Anziani, i quali dicevano che l’amicizia non può durare stabile e continua fino in fondo, se non tra uomini di eguale virtù e dello stesso sentimento. Altrimenti un giorno o l’altro dovrà rompersi, anche se uno degli amici avrà fatto grandi sforzi per conservarla. XXV – Come può essere forte chi non sa sopportare sempre un debole? Germano — Come può essere degna di lode la pazienza dell’uomo perfetto, se quello non riesce a sopportare il debole fino in fondo? XXVI – Il debole non permette che lo si sopporti Giuseppe — Io non ho detto che la pazienza dell’uomo forte e robusto deve lasciarsi vincere, ma le cattive disposizioni del debole, anche se curate da parte del forte, andranno crescendo di giorno in giorno, finché non potranno’ più essere sopportate. Oppure sarà il debole stesso, che, vedendo nella pazienza del prossimo una condanna alla sua impazienza, preferirà allontanarsi, piuttosto che sentirsi continuamente sopportato dalla pazienza dell’amico. Ecco ora la legge che a mio avviso devono osservare tutti coloro che desiderano conservare immutato il sentimento dell’amicizia. Innanzi tutto, quali che siano le offese che lo colpiscono, il monaco conserverà la pace; non solo sulle labbra, ma nel fondo del cuore. Se si sente anche minimamente turbato, rimanga in silenzio e osservi diligentemente quanto dice il salmista: « Mi son turbato, ma non ho parlato » (Sal 76,5). E ancora: « Dissi: custodirò le mie vie, per non peccare con la mia lingua. Posi alla mia bocca un fermaglio, mentre stava l’empio dinanzi a me. Ammutolii e mi umiliai, e tacqui più del conveniente » (Sal 38, 2-3). Egli non deve fermarsi a considerare il presente, non deve lasciarsi uscire dalle labbra ciò che gli suggerisce la collera, ciò che gli detta il cuore esasperato. Deve invece ripensare nel cuore la grazia della carità d’un tempo; oppure deve rivolgere il suo sguardo all’avvenire, per vedere la rappacificazione come già avvenuta, e state a contemplarla, ora, mentre sente i moti dell’ira, sicuro che presto dovrà tornare. Mentre si tiene pronto per la dolcezza della pace vicina, non sentirà l’amarezza della discordia presente e darà una risposta tale da non doversene pentire lui e da non poterne essere rimproverato dal fratello, quando l’amicizia sarà ristabilita. In tal modo metterà in pratica il consiglio del profeta: « Nell’ira ricordati della misericordia » (Ab 3,2 – LXX). XXVII – Come reprimere l’ira Dobbiamo dunque reprimere tutti i moti d’ira e regolarli con la regola della discrezione, affinché non siamo trasportati a quell’eccesso di cui parla Salomone quando dice: « Lo stolto spande tutta la sua collera, il sapiente la distribuisce in parti » (Pr 29,11 – LXX). Cioè: lo stolto si infiamma alla vendetta sotto l’impulso dell’ira, il saggio si domina e fa sbollire la sua ira a poco a poco, con la maturità del suo consiglio e con la sua moderazione. La stessa cosa ci insegna l’Apostolo: « Non vi vendicate da voi stessi, ma date luogo all’ira » (Rm 12,19). Cioè: non vi affrettate a vendicarvi, sotto l’accecamento della passione, ma lasciate passare la collera. O più chiaramente ancora: non permettete che il vostro cuore resti stretto- nelle angustie dell’impazienza e della pusillanimità, altrimenti non potrà fronteggiare la tempesta violenta dell’ira quando si sollevi. Allargatelo piuttosto e accogliete i flutti avversi dell’ira negli spazi allargati della carità, che tutto sopporta e tutto sostiene. La vostra anima, così dilatata dalla larghezza della longanimità e della pazienza, abbia in sé una specie di tempio del consiglio, nel quale il fumo nerissimo dell’ira si spanda e si dissolva. Ma la parola dell’Apostolo si può intendere anche in altro modo. Noi diamo spazio alla collera tutte le volte che ci pieghiamo con anima umile e tranquilla davanti all’ira del fratello e riconoscendoci in qualche modo meritevoli di tutte le ingiurie, cediamo all’impazienza imperversante dell’altro. Infine ci sono quelli che intendono le parole dell’Apostolo: « Date spazio alla collera », come un consiglio di allontanarsi da colui che si è adirato. Ma in questo modo i motivi di avversione si covano, non si estinguono: così almeno io la penso. Bisogna vincere la collera del prossimo subito, per mezzo di un’umile soddisfazione: la fuga serve più ad accrescere che ad estinguere l’ira. Ecco un’altra parola di Salomone che ben s’intona con le precedenti: « Non ti affrettare in cuor tuo all’ira, perché l’ira riposa nel seno degli stolti » (Qo 7,9). E ancora: « Non esser pronto alla rissa per non avere da pentirtene alla fine » (Pr 25,8). Se la sacra Scrittura condanna le collere immediate, non si dovrà per questo dire che approvi quelle lente. No! A quanto detto sopra bisogna aggiungere un’altra sentenza di Salomone che dice: « Lo stolto manifesta immediatamente la sua collera, ma l’uomo sapiente nasconde la sua vergogna » (Pr 12,16). Da questo passo consegue che Salomone condanna certamente la facilità d’inquietarsi, ma non approva tuttavia il vizio che si dipana lentamente. Dice soltanto che l’ira deve rimanere nascosta, se per una fatalità inerente alla debolezza umana, si produce in noi. Va tenuta nascosta e compressa, affinché si dilegui completamente. Questa infatti è la natura dell’ira: compressa, s’illanguidisce e muore; liberata, cresce maggiormente. Dobbiamo dunque allargare i nostri cuori, affinché, pressati dalle angustie della pusillanimità, non abbiano a rimanere soverchiati dai turbolenti marosi dell’ira. Non si può ricevere in un cuore stretto il comando di Dio che è larghissimo; non si può, senza dilatare il cuore, cantare col profeta: « La via dei tuoi precetti io corro, quando tu allargherai il mio cuore » (Sal 118,32). Che la pazienza è saggezza, ci vien ripetuto una infinità di volte nella sacra Scrittura: « L’uomo paziente è molto prudente, l’impaziente è stoltissimo » (Pr 14,29). Perciò, di colui che domandò a Dio la sapienza, la sacra Scrittura dice: « Dio diede a Salomone grande sapienza e prudenza e una larghezza di cuore incommensurabile, come la rena che sta sulla riva del mare » (1 Re 4,29). XXVIII – Le amicizie nate da patti segreti non sono durature Ecco un’altra cosa che l’esperienza ha spesso dimostrato vera: coloro che hanno costruito la loro amicizia sulla base di un giuramento o di un patto segreto, non sono mai vissuti nella concordia. E questo dipende da due motivi: o perché si sforzano di conservare quell’amicizia non col desiderio della perfezione e per il comando della carità apostolica, ma per un amore terrestre e per la necessità del patto giurato; oppure l’amicizia non durò perché l’astuto nemico li fece correre precipitosamente verso la rottura, allo scopo di farli diventare inadempienti al giuramento prestato. È dunque certissima la sentenza tramandataci da uomini pieni di prudenza: la vera concordia, l’amicizia indissolubile, può trovarsi soltanto in una vita senza macchia e fra persone della stessa virtù e degli stessi ideali. Questa fu la conferenza spirituale che il beato Giuseppe ci fece sul tema dell’amicizia e c’infervorò con più vivo ardore a difendere sempre quella carità che già ci univa. SECONDA CONFERENZA DELL’ABATE GIUSEPPE LE DECISIONI IRREVOCABILI Indice dei capitoli III. La soluzione da me proposta. VII. Risposta sulla diversa formazione che si dà nell’una e nell’altra provincia. VIII. Che gli uomini perfetti non debbano decidere nulla in forma assoluta; e se possano, senza peccato, mancare agli impegni assunti. XII. I buoni effetti di azioni cattive non giovano a chi le compie; ai buoni non nuoce il male che può derivare dai loro atti. XIII. Le ragioni del nostro giuramento. XIV. Il vecchio spiega che si può, senza peccare, dare un nuovo ordine alla propria vita, purché si faccia per un alto fine. XVI. Risposta: lo scandalo dei pusilli non può cambiare la verità delle Scritture. XVII. I santi si son serviti della menzogna come di una medicina. – XVIII. Obiezione: soltanto i santi dell’Antico Testamento hanno usato impunemente della menzogna. XIX. Risposta: la facoltà di mentire non era concessa neppure nell’A. Testamento; tuttavia molti se la son presa e meritano di essere approvati. XXI. Se uno ci interroga sulla nostra astinenza, rimasta fino a quel momento segreta, è bene manifestarla per evitare la menzogna? È bene, accettare ciò che si era prima rifiutato? XXII. Obiezione: bisogna nascondere l’astinenza, ma non si deve accettare ciò che si era rifiutato. XXIII. Risposta: è irragionevole ostinarci in impegni di questo genere. XXIV. Come l’abate Piamo volle nascondere la sua astinenza. XXV. Testimonianza della sacra Scrittura sulle risoluzioni cambiate. XXVI. I santi non possono essere né ostinati né duri. XXVII. Domanda: la parola del Salmo: «Ho giurato e stabilito», è contraria alla sentenza riferita sopra? XXVIII. Risposta: ci son casi nei quali è necessario conservare immutata la decisione presa; ce ne sono altri nei quali conviene rinunciarci, se c’è necessità di farlo. XXIX. Come si devono rivelare i segreti. XXX. Non bisogna per nulla impegnarci su ciò che riguarda l’uso ordinario della vita. I – Una notte senza sonno La conferenza era finita ed era sopraggiunta l’ora del silenzio notturno. L’abate Giuseppe ci condusse in una cella appartata, perché prendessimo un po’ di riposo. Ma la fiamma che la sua conferenza aveva acceso nei nostri cuori non ci permise di dormire. Uscimmo dunque dalla cella e, allontanandoci un centinaio di passi, ci mettemmo a sedere in un luogo più ritirato. Le tenebre della notte, aggiunte alla solitudine, favorivano un colloquio segreto e intimo. Appena ci fummo seduti, l’abate Germano incominciò a sospirare. II – Ansietà di Germano al ricordo della nostra promessa Fra i sospiri così mi parlò: «Che cosa facciamo? Noi siamo attorniati da immensi pericoli, e la nostra condizione è miserrima. Il colloquio di questi santi uomini e l’esempio della loro vita è l’insegnamento più utile per il progresso nostro nella via dello spirito, ma la parola data ai nostri superiori ci obbliga a ritornare in Siria e non ci lascia liberi di scegliere quello che è più vantaggioso per noi. Con gli esempi di questi grandi uomini noi potremmo formarci ad una vita elettissima e ad un alto metodo di perfezione, se l’impegno che abbiamo preso non ci obbligasse a tornare subito al nostro monastero. E dopo il nostro ritorno — si può prevederlo — non ci sarà concesso il permesso di ritornare qui. Se invece preferiremo accontentare i nostri desideri e resteremo qui, dove andrà a finire l’osservanza del nostro giuramento? Non possiamo infatti dimenticare che, per ottenere il permesso di visitare rapidamente i santi uomini e i monasteri di questa provincia, noi giurammo ai nostri superiori che saremmo tornati presto. Abbandonati al nostro dolore, incapaci di trovare una soluzione che provvedesse al nostro bene, manifestavamo col pianto la dura condizione in cui stavamo dibattendoci. Accusavamo la nostra naturale debolezza; era proprio per debolezza giovanile che non avevamo saputo resistere alle preghiere dei monaci di Siria e avevamo promesso di tornare presto, nonostante che il nostro ritorno fosse contrario al nostro bene. Intanto piangevamo su noi stessi, perché eravamo stati vittime di quel vizio di cui parla la sacra Scrittura: «C’è una timidezza che è motivo di peccato» (Pr 26,11: LXX). III – La soluzione da me proposta Allora io dissi: sia un consiglio del vecchio abate, anzi, sia la sua autorità a portare rimedio alle nostre ansietà. Presentiamo a lui il nostro problema e qualunque cosa egli decida, la sua parola porrà fine alle nostre angustie, come se fosse un oracolo divino piovuto dal cielo. Una risposta ricevuta dalla bocca di questo sant’uomo dobbiamo credere che ci viene come dono di Dio, sia per il merito del santo abate, sia per la sincerità della nostra fede. Per la bontà del Signore è avvenuto più volte che uomini di gran fede ottenessero un consiglio salutare da uomini indegni, e che uomini senza fede ottenessero ugual consiglio da uomini santi. Dio infatti tenne conto, ora del merito di chi dava il consiglio, ora della fede di chi lo sollecitava. Il santo abate Germano accettò questa proposta come se io non l’avessi pronunciata per mia iniziativa, ma per ispirazione del cielo. Attendemmo un poco l’arrivo del vecchio all’ora della sinassi notturna, che era ormai vicina; quando venne, lo ricevemmo col saluto d’uso. Dopo aver recitato il numero prescritto di preghiere e di salmi, ci sedemmo, secondo il costume, sulle stesse stuoie sulle quali ci eravamo distesi per dormire. IV – Domanda dell’abate Giuseppe sulla causa delle nostre ansietà Il venerabile Giuseppe ci vide molto abbattuti; e, pensando che ciò avesse le sue ragioni, si rivolse a noi con queste parole del patriarca Giuseppe: «Perché la vostra faccia è oggi così triste?» (Gen 40,7). Gli rispondemmo: Non è che noi abbiamo avuto un sogno (come il ministro imprigionato dal re egiziano), e ora ci manchi chi ce lo spieghi. Noi abbiamo passato tutta la notte senza dormire e non c’è chi possa liberarci dal peso dei nostri dubbi, eccetto che il Signore non voglia farlo per mezzo della tua prudenza. Allora il buon vecchio, che rammentava nel nome e nella virtù l’antico patriarca ebreo, disse: «La virtù del Signore sa apprestare una medicina a tutti i pensieri dell’uomo. Esponete i vostri pensieri e in premio della vostra fede, la divina clemenza si degnerà di concedervi il rimedio, per mezzo dei miei consigli». V – Germano espone le ragioni che c’invitano a rimanere in Egitto e quelle che ci esortano a tornare in Siria Disse allora Germano: Noi credevamo che saremmo potuti tornare al nostro monastero ricolmi di gioia e di frutti spirituali, dopo l’incontro con te e altri maestri della vita monastica; pensavamo che dopo il nostro ritorno ci sarebbe stato possibile imitare — almeno modestamente — quanto avremmo potuto apprendere alla vostra scuola. Questa è anche la promessa che ci lasciammo strappare dall’affetto dei nostri superiori, quando pensavamo che anche nel nostro primo monastero avremmo potuto imitare qualche aspetto della vostra vita e della vostra dottrina. Ma questi pensieri che una volta ci davano tanta gioia, ora ci danno un dolore insopportabile, perché ci accorgiamo che non è possibile ottenere quel che tanto desideravamo. Per questo ci sentiamo angustiati su due fronti. Noi, in presenza di tutti i fratelli, nella grotta santificata dalla nascita luminosa di nostro Signore dal seno della Vergine, abbiamo promesso con giuramento che saremmo presto tornati. Ma se vogliamo mantenere la promessa ci procuriamo un grave danno spirituale. Se invece, trascurando l’impegno preso, mettiamo il bene del nostro spirito al disopra del giuramento e rimaniamo in questa terra, temiamo di cadere nella colpa della menzogna e dello spergiuro. Non possiamo neppur pensare di liberarci dalla nostra inquietudine con un espediente, per esempio quello di mantenere la promessa tornando al nostro monastero per poi ripartire subito e venire qui tra voi. È certo che un ritardo anche leggero nel mantenere la promessa è dannoso a coloro che tendono al progresso spirituale e all’acquisto delle virtù, ma come fare a mantenere la nostra promessa? Noi sappiamo che l’affetto dei nostri superiori, unito con la loro autorità, ci legherà con vincoli indissolubili e mai ci sarà dato il permesso di tornare in questa regione. VI – Domanda dell’abate Giuseppe: se l’Egitto gioverà più della Siria al nostro progresso A queste parole l’abate Giuseppe rimase silenzioso qualche istante, poi domandò: siete proprio sicuri di trovare in questi luoghi un grande aiuto al vostro spirituale progresso? VII – Risposta sulla diversa formazione che si da nell’una e nell’altra provincia Germano. Noi dobbiamo essere molto riconoscenti a coloro che ci hanno insegnato, fin dalla nostra età più fresca, a fare grandi propositi, ed hanno acceso nei nostri cuori una sete inestinguibile di perfezione, facendoci gustare la bontà che era in loro. Tuttavia, se la nostra parola merita fede, non c’è neppure da fare un confronto fra gl’insegnamenti che abbiamo ricevuto qui e quelli che ricevemmo là. Taccio della immutabile purezza della vostra vita, che noi non pensiamo soltanto frutto del vostro ideale e del sistema austero della vostra vita, ma anche beneficio speciale di questi luoghi. Noi dunque siamo certi che per riprodurre lo splendore magnifico della vostra perfezione non basta ascoltare di sfuggita i vostri insegnamenti, ma c’è bisogno dell’aiuto che può dare un soggiorno continuo qui, affinché una scuola quotidiana e molto prolungata negli anni, allontani in qualche modo la tiepidezza dai nostri cuori. VIII – Che gli uomini perfetti non debbano decidere nulla in forma assoluta; e se possano senza peccato, mancare agli impegni assunti Giuseppe. È ragionevole, è perfetto, è consentaneo con la nostra professione l’uso di mantenere ciò che abbiamo promesso. Per questo un monaco non dovrebbe mai prendere degli impegni assoluti; perché i casi sono due: o sarà costretto a mantenere la promessa fatta imprudentemente, oppure, se non la manterrà, in vista di uno scopo più alto, diventerà inadempiente alle sue promesse. Ma noi in questo momento non dobbiamo giudicare se è stato bene o no fare quella promessa; dobbiamo invece cercare la cura per uno stato di malattia. Cioè, non è tempo di stabilire quel che sarebbe stato bene fare nel primo caso, ma cercare qualche mezzo salutare per salvarvi dal naufragio e dallo scoglio che vi minaccia. Quando non ci sono legami a costringerci, o condizioni a legarci, noi possiamo scegliere quel che più ci conviene dopo un esame attento delle varie possibilità che abbiamo. Ma quando è necessario affrontare una situazione sfavorevole in ogni senso, noi ci orienteremo in quella parte dove il danno è minore. Ora, secondo quel che ho potuto capire dal vostro racconto, la vostra promessa vi mette in una situazione tale che dall’una e dall’altra parte dovete subire un danno rilevante. La vostra scelta perciò dovrà rivolgersi a quella parte che chiede un danno minore, o presenta un più facile modo di riparare. Se siete convinti che la vostra vita spirituale si avvantaggerà maggiormente restando qui, che non ritornando al vostro monastero; se pensate di non poter mantenere la vostra promessa senza perdere dei grandi vantaggi, è meglio sopportare la vergogna di una menzogna, o di una promessa non mantenuta. Questo male, passato che sia, non tornerà più; non sarà per se stesso una fonte di altri peccati. Invece il ritorno ad una vita tiepida — come voi avete già fatto intendere — sarebbe causa di un danno quotidiano e senza fine [1]. È da perdonare, anzi è da lodare chi cambia una risoluzione presa con leggerezza, per abbracciare un proposito migliore. In questo caso non si manca di costanza, ma si corregge un atto sconsiderato, si rimedia a una decisione sbagliata. Tutto quel che sono venuto esponendo si può provare con testimonianze della sacra Scrittura, la quale ci ricorda come a molti il voler mantenere le loro promesse ha prodotto la morte, a molti invece fu salutare non averle mantenute. IX – Talvolta è meglio rompere i propri impegni che osservarli Delle due verità dette qui sopra, abbiamo una riprova evidente negli esempi che ci offrono san Pietro ed Erode. L’Apostolo rinuncia a un proposito che aveva confermato con una specie di giuramento: «Tu non mi laverai i piedi in eterno» (Gv 13,8). Ma proprio per aver rinunciato al suo proposito, san Pietro merita di aver parte con Cristo nell’eternità; mentre possiamo essere certi che sarebbe stato privato della grazia della beatitudine eterna se si fosse ostinato a mantenere la sua parola. Erode, per mantenere fede a un giuramento senza giudizio, diventò il carnefice del Precursore; il vano timore di divenire spergiuro, lo precipitò nella dannazione e nei supplizi eterni. In ogni cosa bisogna considerare il fine e orientare a quello il nostro cammino. Se ci accorgiamo che i nostri propositi ci diventano dannosi perché ci è sopravvenuto un giudizio più illuminato, è meglio rinunciare ad un proposito dannoso e passare ad uno migliore, piuttosto che macchiarsi di peccati più gravi per volersi ostinatamente attenere a quanto avevamo deciso prima. X – Domanda sul timore che nasceva in noi per il giuramento pronunciato in Siria Germano. Se guardiamo soltanto al nostro desiderio e al progresso spirituale di cui siamo desiderosi, noi vogliamo rimanere per sempre ad edificarci in vostra compagnia. Se torneremo al nostro monastero, siamo sicuri che cadremo da un ideale così alto e la mediocrità della vita che là si conduce ci recherà anche altri danni. Però ci atterrisce anche il comando del Vangelo che dice: «Il vostro linguaggio sia: sì, sì; no, no. Ciò che si dice in più viene dal maligno» (Mt 5,37). Crediamo che non ci sia alcuna cosa capace di rimediare la trasgressione di un precetto così grave. Non c’è infatti possibilità che finisca bene ciò che è incominciato male. XI – Risposta: bisogna considerare l’intenzione di colui che agisce, non l’effetto della sua azione Giuseppe. In tutto — come ho già detto — non si deve considerare il risultato dell’azione, ma l’intenzione di colui che agisce. Non dobbiamo domandarci che cosa uno abbia fatto, ma con quale intenzione abbia agito. Si trovano uomini che sono stati condannati per azioni dalle quali è derivato un bene; altri invece sono arrivati alla più alta giustizia dopo essere partiti da inizi condannabili. Ai primi non ha giovato nulla la buona piega che le cose hanno preso. Animati da intenzione cattiva nel momento in cui cominciavano l’azione, a loro non si può imputare il bene che è venuto dopo, ma solo il male che intendevano produrre. Invece gli inizi condannabili non hanno nociuto ai secondi, perché essi non avevano né il disprezzo di Dio, né la volontà di fare il male: accettarono la necessità di un inizio vituperevole in vista di un fine santo e necessario. XII – I buoni effetti di azioni cattive non giovano a chi le compie; ai buoni non nuoce il male che può derivare dai loro atti Posso chiarire questi principi con esempi presi dalla sacra Scrittura. Ci poteva essere una cosa più bella e più utile a tutto l’universo, della passione salutare del Signore? Eppure essa non ha giovato, anzi ha sommamente nociuto a quel traditore che mise in moto la macchina della passione. Di lui è scritto: «Meglio sarebbe se quell’uomo non fosse mai nato» (Mt 26,24). Il valore del gesto di Giuda non si giudica dall’effetto che ne è derivato, ma dall’intenzione che egli vi pose. Che cosa c’è di più biasimevole dell’ipocrisia e della menzogna, non solo nei confronti di un fratello o di un padre, ma anche nei confronti di un estraneo? Eppure il patriarca Giacobbe (Gen cap. 27), con la sua menzogna, non si rese colpevole e degno di condanna; anzi fu per sempre arricchito dell’eredità e della benedizione riservata al primogenito; benedizione che aveva desiderata, non già per possedere i beni della terra, ma per la fiducia di poter essere così eternamente santificato. Giuda invece non s’era proposto affatto la salvezza degli uomini, ma aveva sacrificato all’idolo dell’avarizia, quando mandò a morte il nostro comune Redentore. L’uno e l’altro raccolsero dal loro atto il frutto che era dovuto all’intenzione, o al proposito che aveva mosso la loro volontà. Giacobbe disse una menzogna, e il giustissimo giudice lo trovò scusabile, anzi encomiabile, per il fatto che non avrebbe potuto ottenere in altro modo la benedizione dei primogeniti. Non ci fu motivo per ascrivergli a colpa un atto che era nato unicamente dal desiderio di essere benedetto. Ma lo stesso patriarca, non solo sarebbe stato ingiusto verso il fratello, avrebbe altresì ingannato suo padre e commesso un sacrilegio, qualora avesse avuto un altro mezzo per ottenere la grazia desiderata e avesse scelto quello che sappiamo, così dannoso al fratello Esaù. Vedete dunque che Dio non guarda alle conseguenze dell’atto, ma al fine che nell’agire uno persegue. Dopo aver posto questi principi, torniamo alla questione che ci siamo proposta e di cui quanto è stato detto fin qui costituisce la premessa. Ditemi, per favore, perché vi siete legati con quella promessa? XIII – Le ragioni del nostro giuramento Germano. Una prima ragione l’ho già detta: noi temevamo — se non avessimo promesso — di dare un dispiacere ai nostri superiori e di disobbedire ai loro comandi. La seconda ragione è questa: noi credevamo, dopo il nostro ritorno al monastero d’origine, di poter là praticare le meraviglie udite e osservate presso di voi. XIV – Il vecchio spiega che si può, senza peccare, dare un nuovo ordine alla propria vita, purché si faccia per un alto fine Giuseppe. Ho già detto più volte che soltanto l’intenzione merita all’uomo premio o condanna, secondo quella parola dell’Apostolo: «I loro pensieri, da una parte e dall’altra, li condanneranno o li difenderanno nel giorno in cui Dio giudicherà i segreti degli uomini» (Rm 2,15-16). E c’è poi un’altra testimonianza della Scrittura che dice: «Ecco che io vengo a raccogliere le loro opere e i loro pensieri, con tutte le nazioni e tutte le lingue» (Is 66,18). Vedo bene che è stato il desiderio della perfezione a legarvi con quel giuramento: voi pensavate di rendervi perfetti facendo quella promessa. Ora però voi potete giudicare meglio e vi accorgete che non è possibile mantenere la promessa e giungere alle sublimi altezze della perfezione. Non c’è dunque alcun male nel fatto che veniate meno al primo proposito, perché non vi allontanate minimamente dal fine che vi eravate proposti quando formulaste la vostra promessa. Cambiare lo strumento di lavoro non è lo stesso che abbandonare l’opera: la scelta d’una via più breve e diritta, non fa concludere che il viandante è pigro. Applichiamo ora al caso vostro. Se correggete un proposito imprudentemente formulato, non si potrà dire che avete mancato ad un voto. Quel che si fa in vista della divina carità e per amore della pietà, «la quale ha le promesse della vita presente e della futura» (1 Tm 4,8), anche se al suo inizio ha delle apparenze meno belle, non merita alcun rimprovero, merita al contrario molti elogi. Non c’è dunque niente di male a rompere un impegno preso sconsideratamente, purché si resti fedeli a quei propositi di santità che si erano concepiti all’inizio. Noi infatti, in tutto quel che facciamo, abbiamo uno scopo solo: offrire a Dio un cuore puro. Se giudicate facile raggiungere il vostro scopo rimanendo in questa regione, liberarvi da una promessa che vi è stata come strappata, non potrà recarvi danno. Basta che, in tal modo, voi arriviate più presto allo scopo essenziale, cioè alla purezza del cuore, che fu il motivo della vostra promessa. XV – Domanda: se possa essere senza peccato lo scandalo che i pusilli potranno prendere dalla nostra condotta Germano. I tuoi discorsi hanno una grande forza di persuasione e sono pieni di prudenza; se guardiamo a quel che tu dici non è difficile liberarci dallo scrupolo che ci dà la nostra promessa. Ma c’è una cosa che ci atterrisce: il nostro esempio potrà fornire ai deboli il pretesto per mentire, quando sapranno che si può lecitamente venir meno alla parola giurata. Eppure, ci sono parole gravi e minacciose per proibire la menzogna: «Disperdi tutti quelli che pronunziano menzogne» (Sal 5,7); e ancora: «La bocca che mentisce dà morte all’anima» (Sap 1,11). XVI – Risposta: lo scandalo dei pusilli non può cambiare la verità delle Scritture Giuseppe. Le occasioni e i motivi di perdizione non mancano mai a coloro che debbono o desiderano perdersi. Non è il caso di abbandonare o di strappare dal contesto delle sacre Scritture quelle testimonianze che animano la pravità degli eretici, induriscono gli ebrei nella loro infedeltà, condannano la boria della sapienza pagana. È necessario che religiosamente crediamo quelle testimonianze, le riteniamo saldamente e le predichiamo secondo la verità del senso letterale. Noi non possiamo — con la scusa dell’incredulità di certuni — rinnegare le «economie» o modi di agire dei profeti e dei santi, raccontati dalle Scritture. Se tacessimo, sia pure per evitare di urtare la sensibilità dei deboli, ci renderemmo colpevoli di menzogna; anzi, di sacrilegio. Bisogna invece presentare quelle testimonianze tali e quali la sacra Scrittura ce le offre, e dimostrare come in esse non ci sia nulla di contrario alla pietà. Peraltro non riusciremmo a impedire la via della menzogna agli uomini di cattiva volontà, qualora cercassimo di negare la verità dei fatti che stiamo per citare e di quelli già citati sopra; neppure si allontanerebbero i malintenzionati dalla menzogna, se degli stessi fatti dessimo una interpretazione allegorica. E come potrebbe nuocere l’autorità delle sacre Scritture a coloro che hanno già i più potenti stimoli a peccare nella loro volontà corrotta? XVII – I santi si son serviti della menzogna come di una medicina Bisogna giudicare e usare la menzogna come si giudica e usa l’elleboro. Questo è una medicina che, se presa come rimedio a una malattia mortale, porta salvezza, presa invece fuori di estremo pericolo, causa la morte immediata. Uomini santi e carissimi a Dio si sono serviti utilmente della menzogna e facendo così, non solo non caddero in peccato, ma giunsero alla più alta giustizia. E se è vero che la menzogna dette loro gloria, non è giusto pensare che la verità avrebbe dato loro ignominia? Incominciamo col caso di Raab (Gs cap.2 e 6). La sacra Scrittura non le riconosce alcuna virtù, dice solo che era dedita al vizio impuro. Eppure, per la menzogna con la quale nascose (anziché consegnare) gli esploratori mandati da Giosuè, meritò di essere aggregata al popolo di Dio in una benedizione eterna. Supponiamo ora che essa avesse preferito dire la verità e provvedere alla salvezza dei suoi concittadini, nessuno dubita che sarebbe incorsa, con tutta la sua famiglia, nella morte che le stava sospesa sulla testa. Oltre a ciò non sarebbe entrata nella genealogia del Salvatore, non sarebbe entrata nel catalogo dei patriarchi, non avrebbe meritato di dare la vita — attraverso le generazioni derivate da lei — al Salvatore del mondo. Opponiamo a Raab, Dalila (Gdc 16,4-21). Essa prese su di sé la sorte dei suoi concittadini e rivelò la verità che era riuscita a conoscere; la sua sorte è di eterna rovina e non lascia altro ai posteri tranne il ricordo del suo delitto. Quando c’è un grave pericolo a dire la verità, bisogna rassegnarsi a dire il falso, pur provando nell’intimo della coscienza un umile rimorso. Ma, a parte questo caso estremo, evitiamo le menzogne come un veleno mortale. L’abbiamo già detto con l’esempio dell’elleboro: ottimo rimedio quando si prende in pericolo di vita, mentre incenerisce tutte le energie vitali se la salute è integra e inalterata. La verità di questo principio, l’abbiamo riscontrata nel caso di Raab e di Giacobbe. Quella non sarebbe sfuggita alla morte, questo non avrebbe ottenuto la benedizione del primogenito senza far ricorso ad una menzogna. Dio non esamina e giudica soltanto le nostre parole e i nostri atti, ma considera anche la nostra volontà e le nostre intenzioni. Quando ci vede fare o promettere qualcosa in vista della nostra salvezza eterna — anche se la nostra condotta ha davanti agli uomini qualche aspetto di durezza e d’ingiustizia — guarda i sentimenti di religione che sono al fondo del nostro cuore; non ci giudica secondo il suono delle parole, ma secondo l’intenzione della volontà. Il fine dell’atto e le disposizioni di chi lo compie sono gli elementi veramente importanti. Perciò, come abbiamo già detto prima, può avvenire che uno ottenga la grazia del Signore mentendo, mentre un altro può cadere nel peccato che lo porta alla dannazione eterna, dicendo la verità [2]. Il patriarca Giacobbe guardava al fine del suo atto, e per questo non aveva timore di simulare il corpo peloso di suo fratello rivestendosi con peli di agnello, né temeva di obbedire a sua madre che lo incoraggiava ad agire così. Egli pensava che in tal modo avrebbe guadagnato di più che se avesse rispettato scrupolosamente la verità. Questa colpa — egli ne era sicuro — sarebbe stata subito lavata dalla benedizione paterna e, a somiglianza di una nube leggera, sarebbe stata spazzata via dal soffio dello Spirito Santo. Insomma: egli pensò che da questa menzogna avrebbe potuto ritrarre più merito che dal suo amore riconfermato per la verità. XVIII – Obiezione: soltanto i santi dell’Antico Testamento hanno usato impunemente la menzogna Germano. Non fa meraviglia che nell’Antico Testamento ci sia stato chi ha mancato di sincerità e ha meritato di essere approvato; neppure meraviglia che, uomini arrivati alla santità, abbiano mentito e nonostante questo siano stati lodati, o almeno scusati. Quelli erano tempi d’ignoranza nei quali si ammettevano ben altre enormità. Porterò qualche esempio. David fuggiva Saul, e al Sacerdote Abimelec che gli domandava: «Perché sei solo e nessuno è con te?», non rispondeva il vero, ma diceva: «Il re mi ha dato un comando e m’ha detto: che nessuno sappia la missione per la quale tu sei mandato. Io stesso ho assegnato ai miei uomini diversi luoghi di ritrovo». E ancora: «Non hai a disposizione una lancia o una spada? Io infatti non ho preso con me la spada e le armi, perché il comando del re era urgente» (1 Sam 21,1-8). Lo stesso David fu poi condotto davanti ad Achis re di Geth e simulò di essere pazzo: «Contraffacendo il volto al cospetto di quelli, si abbandonava tra le loro mani, andava a battere contro i battenti delle porte, s’insudiciava di saliva la bocca» (1 Sam 21,13). Agli uomini dell’Antico Testamento era anche lecito avere una folla di mogli e di concubine, senza che per questo fossero accusati del più piccolo peccato. Oltre a ciò, essi spargevano spesso, con le loro stesse mani, il sangue dei nemici e non si pensava che questa fosse azione abominevole; veniva anzi lodata. Ma queste azioni, alla luce del Vangelo, sono tutte proibite: sarebbe un delitto mostruoso compierne anche una sola. Noi crediamo che anche per la menzogna valga la stessa regola. Qualunque coloritura di santità si voglia darle, chi dicesse una menzogna oggi non sarebbe da approvare né da scusare, dal momento che il Signore ha detto: «Il vostro linguaggio sia: sì, sì; no, no. Ciò che si dice in più viene dal maligno» (Mt 5,37). E san Paolo fa eco: «Non ditevi bugie a vicenda» (Col 3,9). XIX – Risposta: la facoltà di mentire non era concessa neppure nell’Antico Testamento, tuttavia molti se la son presa e meritano d’essere approvati. La molteplicità delle mogli e delle concubine fu una eccezione permessa agli antichi, ma cessò di essere necessaria quando si avvicinò la fine dei tempi e la moltiplicazione del genere umano giunse al suo termine. Allora la perfezione evangelica la soppresse. Fino alla venuta di Cristo doveva continuare ad agire la virtù della prima benedizione: «Crescete, moltiplicatevi, riempite la terra» (Gen 1,28). Era però giusto che dalla radice della fecondità, messa in grande onore sotto la sinagoga per un interesse generale, spuntassero nella Chiesa i fiori della verginità angelica e nascessero i frutti soavemente profumati della continenza. Per quanto riguarda la menzogna, invece, anche i testi dell’Antico Testamento dimostrano che era proibita. Sta scritto: «Disperdi coloro che parlano la menzogna» (Sal 5,7); e ancora: «È gustoso all’uomo il pane della menzogna, ma dopo gli si empirà la bocca di sassi» (Pr 20.17). Anche Mosè dice nella Legge: «Fuggi la menzogna» (Es 23,7). Ma abbiamo già detto che ad essa si poteva lecitamente ricorrere nel caso di necessità, o per procurare un grande bene: queste circostanze la riscattavano allora dalla condanna. È questo il caso da voi ricordato del re David, il quale, mentre fuggiva l’ingiusta persecuzione di Saul, disse ad Abimelec parole menzognere, ma non per interesse o per nuocere a qualcuno: solo per salvarsi da una persecuzione empia. Quelle erano parole di un uomo che non voleva macchiarsi nel sangue di un re suo nemico, che Dio stesso gli aveva più volte messo nelle mani. Ma David gridava: «Dio mi sia propizio affinché io non abbia a fare una simile cosa al mio signore; di alzar la mano contro di lui, perché è l’unto del Signore» (1 Sam 24,7). Noi non possiamo condannare e scartare questi modi di agire che l’Antico Testamento ci mostra adottati — in caso di necessità — da uomini santi. Se agirono così fu perché Dio così volle, o allo scopo di prefigurare i misteri della nostra fede, o per salvare qualche vita in pericolo. C’è di più. Noi vediamo che gli stessi Apostoli non hanno sdegnato fare altrettanto quando si è presentata la necessità. Ma io rimando a più tardi questo argomento degli Apostoli, per spiegare qui quanto ho da dire riguardo all’Antico Testamento. Il tema sarà più opportunamente ripreso dopo, perché così farò meglio vedere come i giusti e i santi di entrambi i testamenti sono andati pienamente d’accordo a questo riguardo. Che dire poi di quella pietosa finzione di Chusi dinanzi ad Assalonne, allo scopo di salvare David? Era ispirata unicamente dal desiderio di ingannare e raggirare, era diretta contro l’interesse di colui che aveva domandato consiglio, pur tuttavia è approvata dalla testimonianza della divina Scrittura che dice: «Ad un cenno di Dio venne sventato il consiglio utile di Achitofel, perché il Signore facesse cadere la sciagura su Alsalom» (2 Sam 20,17). Né, invero, poteva essere condannato questo modo di agire, perché era stato ispirato da intenzione retta, da un giudizio pietoso, dall’interesse di una parte per la quale militava la giustizia. Lo aveva concepito una mente religiosa, alla quale premeva che avesse a vincere l’uomo la cui pietà piaceva a Dio. E come giudicare il gesto di quella donna che nascose i messaggeri mandati dal già nominato Chusi al re David? Li fece scendere nel pozzo, ci tirò sopra un coperchio e su quello mise l’orzo a seccare. A chi le domandava notizie rispose: «Son passati, dopo aver bevuto un po’ d’acqua» (2 Sam 20,20) e con questa bugia li salvò dalle mani di quelli che li cercavano a morte. Rispondete, vi prego, che cosa avreste fatto, in simile circostanza, voi che vivete sotto la legge evangelica? Avreste preferito nasconderli con una menzogna e avreste detto anche voi: «Son passati dopo aver bevuto un po’ d’acqua»? Avreste così obbedito al precetto: «Libera coloro che son condotti alla morte e non indugiare a salvare quelli che son trascinati al supplizio» (Pr 24,11). O forse avreste scelto di metterli in mano ai loro nemici dicendo la verità? E allora come spiegate la parola dell’Apostolo: «Nessuno cerchi il vantaggio proprio, ma l’altrui» (1 Cor 10,24)? E ancora: «La carità non guarda alle cose proprie, ma anche a quelle degli altri» (1 Cor 13,5 e Fil 2,4). Lo stesso Apostolo dice poi di se stesso: «Non cerco il mio vantaggio, ma quello di molti, affinché siano salvi» (1 Cor 10,33). Se cerchiamo solo il nostro vantaggio e vogliamo ostinatamente ritenere quel che è utile per noi, anche in casi così gravi bisognerà dire la verità e farci responsabili della morte di altri. Se invece, in conformità al comando dell’Apostolo, preferiamo il bene degli altri alla nostra utilità personale, bisognerà senza dubbio dire qualche menzogna. Non avremo una carità perfetta, non cercheremo il bene degli altri — come l’Apostolo ci comanda di fare — se non allenteremo un poco le esigenze della nostra vita austera e del nostro ideale di perfezione, per accondiscendere con cuore sensibile al bene degli altri, per diventare — sull’esempio di san Paolo — deboli, allo scopo di guadagnarli a Cristo. XX – Anche gli Apostoli hanno pensato che talvolta la menzogna è utile e la verità nociva Istruiti dagli esempi che noi abbiamo richiamati, il beato apostolo Giacomo e gli altri capi della Chiesa primitiva, esortarono san Paolo a scendere fino alla finzione e alla simulazione, per non urtare la fragilità dei deboli. Lo obbligarono perfino a sottomettersi alle purificazioni legali, a radersi la testa, ad offrire voti [3]. Quei santi uomini non tennero alcun conto della sconvenienza di una tale finzione, guardarono soltanto ai vantaggi che sarebbero derivati dal suo lungo apostolato. Dal voler rimanere assolutamente fedele al principio, l’Apostolo avrebbe guadagnato soltanto morte per sé e danno per i pagani. Quel danno sarebbe ricaduto su tutta la Chiesa, qualora una finzione utile e salutare non avesse conservato l’Apostolo per la predicazione del Vangelo. Si è dunque scusati se acconsentiamo ad una menzogna quando ci sia necessità di fare così; nell’occasione, per esempio, in cui la manifestazione della verità potrebbe arrecare un danno più grande: danno compensato dal bene che viene dalla finzione. Lo stesso Apostolo fa notare di aver sempre osservato questa regola e di averla adottata dovunque; dice infatti: «Mi son fatto coi giudei giudeo, con quelli sottoposti alla Legge, come se fossi sotto la Legge, mentre non lo sono, e ciò per guadagnare tutti quelli che son sottoposti alla Legge. E con quelli senza Legge mi son fatto quasi senza Legge, non essendo affatto senza la Legge di Dio ed essendo anzi nella Legge di Cristo; e ciò per guadagnare quelli che sono senza Legge. Mi son fatto debole coi deboli, per guadagnare i deboli; mi faccio ogni cosa a tutti perché tutti io salvi» (1 Cor 9,20-22). Che cosa vuol dimostrare se non questo: che egli si è sempre piegato verso la debolezza di coloro che doveva evangelizzare; che s’è portato alla loro misura, facendo piegare il rigore della perfezione? Invece di attenersi alle strette esigenze dell’ideale, ha fatto passare al primo posto le necessità delle anime deboli. Ma guardiamo i fatti con più attenzione e consideriamo a una a una le forme della virtù dell’Apostolo. Qualcuno potrebbe domandare: come si dimostra che l’Apostolo ha saputo farsi tutto a tutti? Dov’è che si è fatto giudeo coi giudei? Questo avvenne il giorno in cui, pur tenendo in fondo al cuore quel principio enunciato nella lettera ai Galati, «Se vi fate circoncidere, Cristo non vi gioverà a nulla» (Gal 5,2), tuttavia fece circoncidere Timoteo e accettò in qualche modo le forme della superstizione giudaica. E quand’è che egli è vissuto con quelli che erano sotto la Legge, come se egli stesso fosse stato sotto la Legge? Quando Giacomo e gli anziani della Chiesa di Gerusalemme, per timore che la folla dei giudei, anzi dei cristiani giudaizzanti, si scagliasse contro di lui — dato che avevano abbracciato la fede di Cristo con la convinzione di rimanere ancora obbligati alle cerimonie legali — gli dissero, a modo di consiglio e allo scopo di evitargli un pericolo: «Fratello, tu vedi quante migliaia di giudei si son convertite alla fede: ma tutti sono zelanti della Legge. Or essi hanno udito che tu insegni a tutti i giudei che sono tra i gentili, a staccarsi da Mosè, dicendo di non circoncidere i figlioli, e di non vivere più secondo la consuetudine». E più avanti: «Fa’ dunque così come ti diciamo: son presso di noi quattro uomini che hanno fatto voto; prendili con te e purificati con essi, pagando per loro perché si radano il capo; così tutti sapranno che son false le cose udite intorno a te, e anche tu cammini nell’osservanza della Legge» (At 21,20-24). Così, per la salvezza di coloro che erano sotto la Legge, rinunciò per un istante a quel rigore che gli aveva fatto dire: «Io per la Legge sono morto alla Legge, per vivere a Dio» (Gal 2,19), e si persuase a radersi la testa, a subire le purificazioni legali, ad offrire voti nel tempio, secondo il rito prescritto da Mosè. Ma voi domanderete: quando è che l’Apostolo si è fatto come uno senza Legge, per salvare coloro che non possedevano la Legge divina? Leggete l’esordio del discorso da lui pronunciato ad Atene, dove regnava l’empietà pagana. «Passando — egli dice — ho visto i vostri idoli e un altare con questa iscrizione: al Dio ignoto8At 17,23)3. Così prende lo spunto per evangelizzarli proprio dalla loro superstizione; come se anch’egli fosse senza Legge, e soggiunge: «Colui che voi adorate senza conoscerlo, io vengo ad annunziare» (At 17,3). Qualche momento dopo, come se ignorasse completamente la Legge divina, l’Apostolo giunge a citare il verso d’un poeta pagano, invece di richiamarsi alla parola di Mosè o a quella di Cristo. «Come hanno detto molti dei vostri poeti, noi siamo progenie di lui» (At 17,28). L’Apostolo riferisce queste testimonianze che i suoi uditori non possono rifiutare per poi provocarli dal falso al vero. Aggiunge infatti: «Essendo noi progenie di Dio, non dobbiamo credere che la divinità sia simile all’oro, all’argento, o alla pietra scolpita ad arte e con ingegno umano» (At 17,29). Lo stesso Apostolo si fece poi debole coi deboli, quando, per condiscendenza, e non sotto forma di comando, concesse a coloro che non sapevano contenersi la facoltà di tornare alla vita coniugale; o quando ai Corinti dette a bere il latte e non osò dare un cibo solido; oppure quando affermò di essere stato tra loro nella più assoluta ansia, nel timore e nel tremore. San Paolo si fa, inoltre, tutto a tutti, per tutti condurre a salvezza, quando dice: «Chi mangia non disprezzi colui che non mangia; e chi non mangia non voglia giudicare chi mangia» (Rm 14,3), e ancora: «Chi dà in sposa la sua figliola fa bene, e chi non la sposa farà ancor meglio» (1 Cor 7,38). Altrove dice: «Chi è infermo che anch’io non lo sia? Chi è scandalizzato senza che io non arda?» (2 Cor 11,29). Così egli mette in pratica quanto comandava ai Corinti: «Non siate d’inciampo né ai giudei, né ai gentili, né alla Chiesa di Dio. Nel modo che anch’io cerco di compiacere a tutti non cercando il mio vantaggio, ma quello di molti, affinché siano salvi» (1 Cor 10,32-33). Certo sarebbe stato preferibile per lui non circoncidere Timoteo, non radersi la testa, non sottomettersi alle purificazioni giudaiche, non andare a piedi nudi, non offrire voti secondo la Legge. Tuttavia si assoggettò a tutto questo perché non cercava la sua personale utilità, ma quella dei molti. Ma benché abbia agito così per piacere al Signore, non si potrebbe affermare che la simulazione sia stata aliena alla sua condotta. Colui che era morto alla Legge mosaica, dopo aver accettato la Legge di Cristo, come poteva sottomettersi con cuore sincero alle prescrizioni della Legge? Non era suo il proposito di voler vivere unito a quel Dio che giudicava un pregiudizio la giustizia legale praticata fino ad allora irreprensibilmente? Non era lui che stimava immondezza la giustizia legale, pur di guadagnare Cristo? Non si può pensare che colui il quale aveva detto: «Se le cose che ho distrutto di nuovo le edifico, mi fo da me stesso prevaricatore» (Gal 2,18), sia caduto proprio nella colpa condannato. L’affermazione secondo la quale non vale l’azione in se stessa, ma valgono le disposizioni di colui che la compie, è tanto vera che si trovano casi in cui la verità ha recato danno e la menzogna ha recato vantaggi. Eccone qualche esempio: il re Saul si lamentava davanti ai suoi servi che David fosse riuscito a fuggire: «Darà a voi tutti, il figlio di Isai, campi e vigne e vi costituirà tutti tribuni e centurioni? Vedo che tutti avete congiurato contro di me e non v’è nessuno che mi avverta» (1 Sam 22,7-9). Doeg l’idumeo, che altro rispose al re se non la verità? «Ho visto il figlio di Isai in Nobe presso il sacerdote Abimelech figlio di Achitol. Questi consultò per lui il Signore, lo fornì di cibi e gli consegnò anche la spada di Golia il filisteo» (1 Sam 22,9-10). Per questa verità Doeg si meritò di essere sradicato dalla terra dei viventi, e di lui il profeta ha detto: «Dio ti abbatterà per sempre: ti strapperà via, ti scaccerà dalla tua tenda, ti sradicherà dalla terra dei viventi» (Sal 52 (51), 7). Ecco che Doeg, per aver detto la verità, è sradicato da quella terra in cui Raab, la peccatrice, s’è vista trapiantata con tutta la sua famiglia, per aver detto una bugia [4]. Ricordiamo anche che Sansone rivelò con suo grande danno la verità all’empia moglie, quella stessa verità che prima le aveva tenuta nascosta con la menzogna. Per avere imprudentemente detto il vero fu preso al laccio. Aveva infatti dimenticato l’ammonimento del profeta: «Con colei che dorme sul tuo seno, guarda bene di non aprir la bocca» (Mi 7,5). XXI – Se uno c’interroga sulla nostra astinenza, rimasta fino a quel momento segreta, è bene manifestarla per evitare la menzogna? È bene accettare ciò che si era prima rifiutato? Ecco qualche altro esempio preso dalle inevitabili difficoltà in cui ci troviamo ogni giorno. Per quanto siamo attenti, è impossibile prevedere questi casi difficili in modo tale da poterli evitare completamente. Supponiamo di aver stabilito di rimandare al giorno seguente la nostra refezione: ecco che verso sera arriva un fratello e ci domanda se abbiamo preso il consueto cibo. Come rispondere? Io lo domando a voi. Dovremo tacere il nostro digiuno e nascondere la nostra astinenza, oppure dovremo rivelare l’astinenza e dire la verità? Se noi nascondiamo la mortificazione, allo scopo di obbedire al comando del Signore che dice: «Non sia manifesto agli occhi degli uomini che voi digiunate, ma solo agli occhi del Padre vostro che vede nel segreto» (Mt 6,18); oppure: «La tua mano sinistra non sappia quello che fa la destra» (Mt 6,3), noi ci rendiamo colpevoli di menzogna. Se, al contrario, manifestiamo il nostro digiuno, incontriamo giustamente la condanna della sentenza evangelica: «In verità vi dico, hanno già ricevuto la loro mercede» (Mt 6,2). Supponiamo ancora che un fratello, tutto lieto per il nostro arrivo ci offre da bere e ci preghi di accettarlo. È lecito ricusarlo perché ci siamo proposti di non bere alcunché? E se il fratello s’inginocchia davanti a noi e ci scongiura perché è convinto di soddisfare così ai suoi doveri di carità, che cosa è meglio fare? Cedere alle pressioni affettuose, o rimanere inflessibili nel proposito e tener fede a quanto si era stabilito? XXII – Obiezione: bisogna nascondere l’astinenza, ma non si deve accettare ciò che si era rifiutato Germano. Nel primo esempio addotto ci pare fuor di dubbio che sia meglio nascondere la propria astinenza piuttosto che rivelarla a chi c’interroga, e in casi come questo conveniamo che è inevitabile dire una menzogna. Ma nel secondo degli esempi addotti, non vediamo alcuna necessità di mentire. Prima di tutto possiamo ricusare quello che il fratello offre senza esserci legati con un vincolo di promessa, secondariamente, dopo aver rifiutato la prima offerta, possiamo rimanere immobili nella nostra sentenza. XXIII – Risposta: è irragionevole ostinarci in impegni di questo genere Giuseppe. Ma promesse di questo genere sono in uso presso quei monasteri nei quali voi dite d’aver fatto le prime esperienze di vita religiosa. Coloro che là son maestri hanno per consuetudine di preferire la loro volontà al bene spirituale dei fratelli. Quello che uno ha stabilito, lo esegue con una ostinazione irremovibile. Presso i nostri anziani le cose andavano diversamente. Quegli uomini che ebbero tanta fede da ottenere miracoli come quelli degli Apostoli, si comportavano in tutto con giudizio e discernimento, piuttosto che con ostinazione. Ai loro occhi, chi accondiscendeva alle debolezze degli altri, otteneva più gran merito di chi si ostinasse nella sua risoluzione. Essi dissero che era segno di più alta virtù nascondere la propria astinenza con una umile menzogna, che non manifestarla con una orgogliosa verità. XXIV – Come l’abate Piamo volle nascondere la sua astinenza Un fratello offri una volta un grappolo d’uva e un po’ di vino all’abate Piamo, il quale da venticinque anni non aveva assaggiato simili cose. Anziché lasciar conoscere una astinenza che nessuno sapeva, l’abate accettò senza esitazione e subito si mise a gustar ciò che gli era stato offerto. Ecco un’altra cosa che io ho visto fare con la massima naturalezza ai nostri Anziani. Era necessario, per l’istruzione dei giovani monaci, parlare pubblicamente delle meraviglie da loro operate e riferire le loro personali azioni, ma essi si difendevano nella loro virtù narrando tutto sotto diverso nome. Come si fa a non vedere in questo modo di agire una menzogna manifesta? Tuttavia, se per grazia del Signore ci fosse nella mia vita qualche fatto che meritasse di essere proposto ai giovani come mezzo atto ad eccitare la loro fede, io non avrei scrupolo a seguire l’esempio degli Anziani. È meglio far ricorso a questo artificio del linguaggio e dire una menzogna, che tacere qualcosa che potrebbe edificare il prossimo, oppure cadere in una vana e fatale superbia, col pretesto di restar fedeli alla verità, anche quando ciò sia irragionevole. L’autorità dell’Apostolo delle genti c’insegna chiaramente a seguire questa via; infatti, dovendo parlare della grandezza delle sue rivelazioni, ha scelto di farlo sotto altro nome: «Conosco un uomo in Cristo che quattordici anni fa — o sia corporalmente non lo so, o sia senza corpo non lo so, lo sa Dio — un uomo siffatto fu rapito fino al terzo cielo. E so che quest’uomo fu rapito in paradiso e udì parole ineffabili che non è lecito ad uomo di proferire» [5]. XXV – Testimonianza della sacra Scrittura sulle risoluzioni cambiate Non è possibile riportare tutti gli esempi che fanno al caso nostro, neppure trattandone brevemente. Chi potrebbe enumerare i patriarchi (quasi tutti da mettere nella lista) e gli innumerevoli santi, i quali, o per salvare la loro vita, o per il desiderio d’ottenere una benedizione, o per un sentimento di misericordia, o per tener nascosto qualche segreto, chi per sentimento di zelo verso Dio, chi per il desiderio di scoprire la verità, hanno preso — se così posso dire — il patrocinio della menzogna? Ma se è impossibile enumerare tutti quei fatti, non si possono neppure passar tutti sotto silenzio. L’affetto fraterno spinse il patriarca Giuseppe ad imputare ai suoi fratelli un delitto inesistente, giurando anche per la vita del re: «Voi siete spie e siete venuti per vedere i punti meno difesi della regione» (Gen 42,9). E più avanti: «Mandate uno di voi che conduca qui il fratello minore; voi intanto rimarrete prigionieri fintantoché non si accerti se è vero o no quel che avete detto; se no, per la salute del faraone, voi siete davvero spie» (Gen 42,16). Se Giuseppe non avesse atterrito i fratelli con questa menzogna pietosa, non avrebbe potuto rivedere suo padre e il suo giovane fratello, né nutrirli nelle angustie di quella terribile carestia; né avrebbe potuto purificare la coscienza dei fratelli dalla colpa di averlo venduto. Perciò egli non è da condannare per aver ispirato timore ai fratelli per mezzo di una menzogna, ma è piuttosto da lodare e proclamare santo per aver condotto a un pentimento salutare — proprio con l’aiuto di queste finte minacce — coloro che un tempo erano stati i suoi nemici e l’avevano venduto. Guardate i fratelli di Giuseppe sotto l’accusa che li ha colpiti: ciò che li tormenta non è la colpa falsamente imputata, ma il rimorso di un’altra grave colpa che hanno commesso veramente. «È giusto — si dicevano l’uno con l’altro — che ora soffriamo; perché peccammo contro il nostro fratello, quando egli si raccomandava a noi, e noi, vedendo l’angoscia dell’anima sua, non gli demmo ascolto; per questo ci è ora venuta addosso questa tribolazione» (Gen 42,21). E questa confessione, con la sua umiltà, espiò non soltanto il grande peccato commesso nei confronti del fratello trattato da loro con crudeltà disumana, ma espiò anche il peccato davanti a Dio. È necessario ricordare Salomone? Egli, fin dal primo giudizio, manifestò il dono della sapienza ricevuta da Dio, per mezzo di una menzogna. Per far uscire la verità dalla menzogna di una donna, ricorse anche lui, molto astutamente, all’aiuto della menzogna: «Portatemi una spada — disse — e dividete il fanciullo in due parti; poi datene metà a una e metà all’altra delle due madri» (1 Re 3,24-25). Questa finta crudeltà commosse le viscere della madre vera, mentre la madre falsa applaudiva; e questo fu il segno atteso dalla mente saggia del re per conoscere la verità. Allora quello pronunciò la sentenza che tutti credono ispirata da Dio: «Date a costei il bambino vivo e non si uccida, poiché costei è la vera madre» (1 Re 3,27). Andiamo avanti. Noi non abbiamo né il dovere, né la possibilità di compiere tutto ciò che decidiamo, sia che la nostra decisione sia stata presa in un momento di collera, sia in un momento di commozione. Tutto questo ci è insegnato dalla sacra Scrittura con testimonianze molto abbondanti. Spesso infatti leggiamo che i santi, o gli angeli, o l’Onnipotente in persona, hanno cambiato una decisione precedentemente presa. Il beato David prende una decisione e s’impegna a mantenerla col giuramento: «Che Iddio faccia questo e peggio ai nemici di David, se di tutto quel che appartiene a Nabal lascerò fino a domani mattina, sia pure uno solo di sesso maschile» (1 Sam 25,22). Ma poi, per intercessione di Abigail, moglie di Nabal, David preferì apparire trasgressore dei suoi propositi piuttosto che mantenersi fedele al giuramento con un atto di crudeltà. «Sia ringraziato il Signore d’Israele — egli disse — se tu non fossi venuta così presto incontro a me, prima di domani a Nabal non sarebbe rimasto neppure uno di discendenza maschile» (1 Sam 25,34). Noi pensiamo che David non è da imitare nella facilità a fare giuramenti temerari in stato di turbamento mentale, ma siamo invece convinti che è bene seguirlo quando egli stabilisce di rivedere e correggere il primo proposito. Paolo, il vaso d’elezione, scrive ai Corinti e promette senza condizione che tornerà tra loro: «Io verrò tra voi quando avrò attraversato la Macedonia: perché traverserò la Macedonia, e da voi forse rimarrò e anche svernerò, affinché mi accompagniate dovunque avrò da andare. Non voglio vedervi solo di passaggio; spero anzi di passare qualche tempo con voi se il Signore me lo permette» (2 Cor 16, 5-7). Di questo suo viaggio l’Apostolo parla anche nella seconda lettera: «In questa fiducia volevo prima venir da voi, affinché aveste una seconda grazia: e attraverso il vostro paese poi passar nella Macedonia, e di nuovo di là tornar da voi, per far coi vostri auguri il viaggio verso la Giudea» (2 Cor 1,15-16). Ma poi sopravvenne un altro miglior consiglio e l’Apostolo non stette a discutere ciò che aveva promesso come egli stesso confessa nella maniera più chiara: «Avendo questa intenzione, ho forse agito con leggerezza? Forse che ciò che voglio lo voglio secondo la carne, in modo che sia in me il ”sì” e il ”no”»? Infine dichiara con giuramento perché ha preferito mancare alla parola piuttosto che esser causa di dolore con la sua visita: «Io chiamo Dio a testimone dell’anima mia che al fine di risparmiarvi non sono più venuto a Corinto. Ho deciso con me stesso di non venire di nuovo da voi in tristezza» (2 Cor 1,23; 2,1). Gli angeli rifiutarono di entrare in casa di Lot a Sodoma e dissero: «Non entreremo, ma passeremo la notte in piazza» (Gen 19,2). Ma subito, vinti dalle sue insistenze, cambiano parere; la sacra Scrittura aggiunge: «Egli li obbligò ad entrare in città prendendo stanza da lui» (Gen 19,3). Ora io osservo: o quei due angeli sapevano che avrebbero alloggiato presso Lot, e allora il rifiuto opposto all’invito era una finzione, oppure rifiutarono sinceramente; nel qual caso bisogna ammettere che mutarono parere. Secondo me lo Spirito Santo, inserendo questi versetti nei libri sacri, non ha avuto altro scopo che quello di istruirci, per mezzo di questi esempi, a non essere ostinati nelle nostre decisioni, ma a tenerle sotto il dominio della nostra libertà. Così il nostro giudizio, libero e sciolto da ogni obbligo, sarà ognora pronto a seguire quel partito che si manifesterà migliore, e ciò senza resistenza e senza timori. Sarà facile orientarsi in quella parte che il giudizio avrà riconosciuto come la migliore. E ora cerchiamo più in alto i nostri esempi. Il re Ezechia giace in letto gravemente ammalato. Il profeta Isaia gli si presenta nel nome del Signore e dice: «Ecco quel che dice il Signore: Metti ordine alle cose della tua casa, poiché tu morrai e non vivrai. Ezechia, rivolta la faccia verso la parete, pregò il Signore dicendo: ti supplico o Signore, ricordati come io ho camminato al tuo cospetto nella verità e con cuore perfetto, e ho sempre fatto ciò che è bene dinanzi a te. Poi Ezechia pianse dirottamente» (2 Re 20,1-3). Dopo ciò, dice il Signore allo stesso profeta: «Torna indietro e dì ad Ezechia capo del mio popolo: il Signore Dio di David tuo padre dice queste cose: ho udita la tua preghiera e ho viste le tue lacrime; ed ecco che ti ho guarito e fra tre giorni salirai alla casa del Signore. Prolungherò la tua vita di quindici anni; di più libererò te e questa città dalle mani del re d’Assiria, e proteggerò questa città per amor mio e per amor di David mio servo» (2 Re 20,5-6). Quale testimonianza potrebbe essere più eloquente di questa? col suo sguardo di misericordia e di bontà, il Signore sceglie di render vana la sua parola, di prolungare per quindici anni al di là del termine stabilito la vita di colui che lo prega, piuttosto che esser ritenuto inesorabile nel mantenere immutato il suo decreto. Anche contro Ninive risuona la minaccia della condanna divina: «Ancora tre giorni, e poi Ninive sarà distrutta!» (Gn 3,4). Ma poi la penitenza e il digiuno dei niniviti piegano una sentenza così dura e assoluta e il Signore s’inchina verso la misericordia e il perdono. Si potrà obiettare: il Signore prevedendo la conversione dei niniviti, e proprio per condurli a penitenza minacciò di rovina la loro città. Da questo seguirebbe che i superiori possono minacciare ai loro sudditi — quando ve ne sia il bisogno — pene più gravi di quelle che sarebbero intenzionati d’infliggere, e questo senza cadere nella colpa di menzogna. Se invece si dirà che Dio ha revocato questa severa condanna in considerazione della loro penitenza, secondo quelle parole d’Ezechiele: «Se avessi detto all’empio: ”tu morrai”; se poi si pentisse del suo peccato e praticasse i suoi doveri e la giustizia e restituisse il mal tolto, e si diportasse secondo i comandamenti di vita e niente sperasse di men che giusto, certo vivrà e non morrà» (Ez 33,14-15), anche in questo caso saremmo ammaestrati a non ostinarci nelle decisioni prese, ma a far succedere misericordia e clemenza alle minacce che ci aveva suggerito la necessità. Affinché non si creda che questa grazia è stata concessa ai niniviti per un privilegio particolare, il Signore protesta, per bocca di Isaia che agirà allo stesso modo sempre e con tutti; promette insomma di cambiare senza indugio la sua sentenza, tutte le volte che i nostri meriti lo richiederanno: «Io posso a un tratto dire una parola contro una nazione o contro un regno per sradicarlo, rovesciarlo e disperderlo. Ma se quella nazione si sarà pentita del suo malfatto, per cui ho pronunciato la mia parola contro di essa, anch’io mi pentirò del male che avevo deciso di farle. E posso ad un tratto dire una parola sopra una nazione e sopra un regno per edificarlo e stabilirlo. Ma se quella nazione avrà fatto ciò che è male agli occhi miei, non volendo ascoltare la mia voce, io mi pentirò del bene che avevo detto di farle» (Ger 18,7-10). E al profeta Ezechiele [6] così parla il Signore: «Non tacere alcuna parola. Potrebbe darsi che ascoltassero e si convertisse ciascuno dalla sua mala via, e che io mi penta del male che penso di far loro per la malvagità dei loro intendimenti» (Ger 26,2-3). Questi testi sacri dicono chiaramente che non bisogna fissarsi ostinatamente sulle risoluzioni prese, ma bisogna sottometterle al governo della ragione e del giudizio, per cercare continuamente quel che è meglio e passare senza esitazione dalla parte giudicata più utile. I giudizi di Dio, che stanno al disopra di ogni cosa, c’insegnano che la Provvidenza divina, pur prevedendo la fine di tutte le cose fin dalla loro origine, si conforma tuttavia all’ordine e alla ragione comune e in certo modo ai sentimenti umani. Perciò Dio non si fa guidare dalla sua onnipotenza o dalle idee ineffabili della sua prescienza quando giudica su tutte le cose, quando allontana o attira qualcuno, quando dona o ritrae la sua grazia; no: egli giudica secondo le azioni presenti degli uomini. L’elezione di Saul è la riprova di quanto abbiamo detto. Dio, che per la sua prescienza non poteva ignorare la sua fine deplorevole, lo scelse fra tante migliaia d’israeliti e gli dette l’unzione regale; ricompensò i meriti della sua vita presente, senza guardare al demerito della sua prevaricazione futura. Dopo che Saul ebbe peccato, quasi si pentisse di averlo scelto, Dio si lamentò di lui con parole e sentimenti alla maniera umana: «Io mi pento di aver costituito re Saul, perché mi ha abbandonato e non ha eseguito i miei ordini» (1 Sam 15,11). E ancora: «Samuele piangeva per Saul, perché il Signore s’era pentito d’averlo costituito re sopra Israele» (1 Sam 15,35). La condotta tenuta con Saul, Dio protesta per bocca del profeta Ezechiele, di volerla tenere con tutti gli uomini e in ogni giorno: «Quand’anche avessi detto al giusto che viva, ed egli fidandosi nella sua giustizia commettesse l’iniquità, tutte le sue opere di giustizia saranno messe in dimenticanza, e nell’iniquità che ha commesso, in essa morrà. E se avessi detto all’empio: tu morrai; se poi si pentisse del suo peccato e praticasse i suoi doveri e la giustizia e restituisse, quell’empio, il pegno e il mal tolto, e si diportasse secondo i comandamenti di vita, e niente operasse di men che giusto, certo vivrà e non morrà. Tutti i peccati che avrà commesso non gli saranno imputati» (Ez 33,13-16). Ancora un esempio. Il Signore ritrae il suo sguardo da quel popolo che ha fatto suo fra tutte le nazioni; se n’è allontanato a causa di una improvvisa prevaricazione. Ma in favore del popolo interviene Mosè e grida: «Ti supplico: questo popolo ha commesso un peccato enorme, facendosi degli Dei d’oro; o perdona loro questo peccato, o, se non vuoi farlo, cancella me dal libro da te scritto. Rispose Dio: Io cancellerò dal mio libro chi avrà peccato contro di me» (Es 32,31-33). Anche David, parlando in spirito profetico, chiede che Giuda e i persecutori di Cristo siano cancellati dal libro dei viventi (Sal 69 (68), 29). In Giuda, poi, la maledizione profetica si compì; infatti, dopo aver commesso il delitto del tradimento, s’impiccò, affinché non gli fosse possibile — dopo che ne era stato cancellato per la sua colpa — esser nuovamente scritto in cielo, nel numero dei giusti. Non è infatti da mettere in dubbio che al momento in cui fu chiamato da Cristo e ricevette l’onore dell’apostolato, anche il nome di Giuda era scritto in cielo; non si può neppure negare che anche a lui, come agli altri apostoli, erano indirizzate le parole di Cristo: «Non vi rallegrate perché vi stanno soggetti gli spiriti; ma rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nel cielo» (Lc 10,20). Ma la peste dell’avarizia lo corruppe, e dal cielo — dove era scritto — lo precipitò a terra. Giustamente il profeta dice di lui e dei suoi simili: «Tutti quelli che ti abbandonano saranno confusi, coloro che si ritirano da te saranno scritti sulla terra, perché hanno abbandonato la vena delle vive sorgenti, il Signore» (Ger 17,13). E ancora: «Nell’adunanza del popolo mio non compariranno e nell’albo della casa d’Israele non saranno scritti, e non entreranno nella terra d’Israele» (Ez 13,9). XXVI – I santi non possono essere né ostinati né duri Non dobbiamo neppur tacere un comando assai utile, che è questo: allorché, sotto lo stimolo dell’ira o di qualche altra passione, ci siamo legati con qualche giuramento — la qual cosa non dovrebbe mai capitare ad un monaco — bisogna considerare con giudizio spassionato le due possibilità che ci stanno dinanzi: paragonare quel che abbiamo stabilito, con quel che le circostanze ci spingono a fare e poi fare quella scelta che un esame più conforme alla ragione illuminata ci avrà mostrato conveniente. È meglio mancare alle parole che perdere qualcosa di buono e di grandemente vantaggioso alla nostra salute spirituale. Per parte mia, io non ricordo alcuno dei nostri Padri, così prudenti e sperimentati, il quale si sia mostrato irremovibile in questa sorta d’impegni. Come la cera si ammorbidisce al fuoco, così quelli cedevano alla ragione, e quando si apriva una via più salutare davanti a loro, la imboccavano senza timore. Quanto poi a coloro che vediamo ostinarsi nelle loro decisioni, abbiamo sempre visto che scarseggiavano di giudizio e di discrezione. XXVII – Domanda: la parola del Salmo: “Ho giurato e stabilito”, è contraria alla sentenza riferita sopra? Germano — Se si accetta la dottrina da te esposta con tanta chiarezza ed eloquenza, il monaco non deve mai impegnarsi in nulla per non correre pericolo di esser giudicato infedele o cocciuto. E allora che ne faremo di quel versetto del Salmo che dice: «Ho giurato ed ho stabilito di osservare i giudizi della tua giustizia?» (Sal 119 (118), 106). Che cos’altro significa questo «giurare» e «stabilire», se non la volontà di rimanere irremovibili nei propri impegni? XXVIII – Risposta: ci son casi nei quali è necessario conservare immutata la decisione presa; ce ne sono altri nei quali conviene rinunciarci, se c’è necessità di farlo Giuseppe — Io non intendo parlare dei comandamenti principali, senza i quali è impossibile la salvezza eterna; mi riferisco a quelle situazioni che noi possiamo scegliere o lasciare senza pericolo per il nostro stato. Si tratta — per fare qualche esempio — del rigore ininterrotto del digiuno, dell’astinenza perpetua dal vino e dall’olio, del proposito di non uscir mai dalla cella, della lettura e della meditazione incessante. Tutti questi sono esercizi che un monaco può osservare a suo piacimento o anche tralasciare, senza che ne soffrano la nostra professione e il nostro ideale di vita. Per quanto riguarda l’osservanza dei comandamenti principali è necessaria una fedeltà a tutta prova, quando ciò fosse necessario: a proposito di tali comandamenti è giusto dire: «ho giurato e ho stabilito». Tale è il nostro dovere quando si tratta di conservare la carità. Per essa dobbiamo esser pronti a disprezzare qualsiasi cosa, affinché rimanga intatta nella sua tranquillità e nella sua perfezione. Allo stesso modo è utile giurare per mantenere illibata la castità; non altrimenti conviene fare per la fede, per la sobrietà, per la giustizia. Queste virtù debbono esser conservate con una perseveranza che non viene mai meno. Allontanarsene, anche se per poco, è dannoso. Ma per quanto riguarda gli esercizi corporali, dei quali è detto che sono utili fino a un certo punto (Cfr. 1 Tm 4,8), il nostro impegno non deve essere assoluto. Se sopraggiunge un’occasione la quale dimostri che a lasciarli c’è un frutto di maggior pietà, non dobbiamo ritenerci obbligati a seguirli, ma dobbiamo lasciarli tranquillamente, per rivolgerci a cose di maggior profitto. Lasciare quegli esercizi per qualche tempo non importa alcun pericolo, mentre invece è colpa mortale allontanarsi dai comandamenti più gravi, anche per un solo momento. XXIX – Come si devono rivelare i segreti C’è un’altra cosa dalla quale bisogna stare in guardia con molta cautela. Facciamo il caso che vi sfugga una parola che desiderate tener nascosta: non inquietate colui che l’ha udita con tante raccomandazioni di tacere. Il segreto sarà custodito meglio se andrete avanti con semplicità senza dare molta importanza. Il fratello stimerà che quella cosa sia di poco conto, una parola buttata là a caso durante la conversazione, e tanto meno degna di considerazione per il fatto che colui il quale l’ha pronunciata non s’è preso la briga di raccomandare il silenzio. Così l’ascoltatore non sarà tentato di parlarne con altri. Se invece voi vi farete promettere il silenzio con giuramento, potete esser sicuri che il vostro ascoltatore sarà più che mai pronto a parlare. Il demonio si scatenerà contro di lui con più grande violenza, allo scopo di rattristare e spogliare voi, allo scopo di indurre lui a mancare al giuramento. XXX – Non bisogna per nulla impegnarci su ciò che riguarda l’uso ordinario della vita Il monaco dunque non deve prendere impegni assoluti per ciò che riguarda gli esercizi corporali, ciò per non eccitare il nemico ad attaccarlo su quel punto del quale si sarà fatto come una legge, e per non esser così indotto a cadere più presto. Colui che, trovandosi a vivere nel clima di libertà instaurato dalla grazia, si dà da se stesso una legge, si mette nelle catene di una schiavitù pericolosa. Ciò che avrebbe potuto prendere lecitamente e con azioni di grazie, anzi ciò che avrebbe potuto permettersi onoratamente, gli diventa proibito, e se la necessità l’obbligherà a prendere, non potrà farlo senza mostrarsi trasgressore e senza cadere in peccato, «poiché dove non è legge non vi è neppure trasgressione» (Rm 4,15). ★ I consigli e la dottrina del beato Giuseppe ci parvero un oracolo di Dio e noi, rassicurati dalle sue parole, decidemmo di rimanere in Egitto. Ma benché la nostra promessa non ci desse più scrupolo non mancammo di mantenerla sette anni dopo. Facemmo allora un rapido ritorno al nostro monastero, perché avevamo la persuasione di ottenere il permesso per tornare nel deserto. Questa visita ci consentì di rendere ai nostri superiori l’onore ad essi dovuto. In più c’è da dire che l’affetto dei nostri superiori per noi era tanto ardente da non poter esser colmato dalle molte lettere di scusa che noi mandammo. Col ritorno facemmo completamente rifiorire l’antica carità. Finalmente, liberati in pieno dallo scrupolo che ci aveva lasciato l’impegno preso e non mantenuto, riprendemmo la via verso il deserto di Scito e i nostri stessi superiori ci furono di guida in questo secondo viaggio. ★ Eccovi qui, o santi fratelli [7], la scienza e la dottrina di quei Padri illustri, così come la mia ignoranza è riuscita a presentarvela. Se il mio rozzo modo d’esprimermi ci ha messo più confusione che chiarezza, vi chiedo che il mio malgarbo non diminuisca la lode dovuta ad uomini così insigni. Davanti a Dio nostro giudice io ho ritenuto più opportuno divulgare la loro dottrina — anche se con questa lingua molto pedestre — anziché tacerla. Voglio sperare che il lettore, se guarderà alla sublimità dei pensieri, non sarà ritardato dal progresso spirituale, nonostante che quei pensieri siano espressi in una forma inelegante. Quanto a me dirò che desidero più di essere utile che di esser lodato. Avverto tutti coloro che prenderanno tra le mani questi miei opuscoli di volersi ricordare che quanto in essi si trova di piacevole appartiene ai Padri, quanto vi si trova di spiacevole appartiene a me. [1] L’opinione dell’abate Giuseppe può esser sostenuta se si ammette che i due monaci, al momento in cui fecero la promessa, ignoravano una condizione essenziale; perché è noto a tutti che una tale ignoranza rende invalide le promesse. È la difesa che fa di questo capitolo della Conferenza L. Cristiani in « Cassien », Editions de Fontanelle, 1946, t. 2°, pp. 289 e ss. Noi però notiamo che tutti i ragionamenti del nostro Autore, per ammettere la liceità di qualche menzogna, sono impacciati e inaccettabili. A proposito di tale questione rimandiamo a sant’Agostino « De mendacio » e san Tommaso 2a ae q. 11 a. 3. [2] II nostro bravo monaco si è imbarcato in una impresa sproporzionata alle sue forze. Invece di darci una pagina di teologia, ci ha dato un monumento d’ipocrisia. Noi rimandiamo ancora una volta a sant’Agostino e a san Tommaso per la delicata questione qui… mal trattata. Facciamo poi notare che Raab non fu giustificata per la sua menzogna, ma per la sua fede (Eb 11,31) e per l’ospitalità data agli esploratori (Gc. 2,25). Dalila non si dannò perché disse la verità, ma perché tradì suo marito e lo consegnò ai Filistei. [3] Quanto vien detto sulle finzioni di san Paolo risponde alla tesi di Cassiano, non corrisponde però alla storia. Le lettere dell’Apostolo e il libro degli Atti dimostrano che san Paolo voleva soltanto che fosse affermata la non obbligatorietà delle prescrizioni giudaiche per i convertiti dal paganesimo. Quand’ebbe ottenuto questo risultato, non trovò difficile giudaizzare coi giudaizzanti; questo anzi apparteneva al suo programma: farsi tutto a tutti; giudeo con i giudei e gentile coi gentili, quando fossero salvi i principi della fede. [4] Per il caso di Raab abbiamo già parlato sopra; quanto a Doeg, non è condannato per aver detto la verità, ma perché perseguitava l’innocente. [5] 2 Cor 12,2-4 – L’esempio è scelto male, in quanto dal contesto della lettera si intende perfettamente che l’uomo di cui parla è l’Apostolo e non può essere altri che lui. [6] Non Ezechiele, come dice erroneamente Cassiano, ma Geremia. [7] Sono Onorato ed Eusebio, ai quali, come sappiamo dalla prefazione, è dedicata la seconda raccolta delle Conferenze. PREFAZIONE ALLA TERZA PARTE A GIOVINIANO, MINERVIO, LEONZIO E TEODORO Dopo aver composto con la grazia di Dio, su richiesta dei beatissimi vescovi Elladio e Leonzio, così come, da parte mia, mi è riuscito, dieci Conferenze, ne dedicai altre sette al beato Onorato, tale per nome e per merito, e al santo servo di Dio Eucherio. Altrettante Conferenze io ora ho creduto mio dovere dedicare pure a voi, o santi fratelli Gioviniano, Minervio, Leonzio e Teodoro. L’ultimo di voi ha fondato, con l’osservanza delle antiche virtù, nelle province della Gallia, una casa per cenobiti, con tutta la santa ed egregia disciplina richiesta. Gli altri di voi hanno indotto, con i loro insegnamenti, i monaci non solo ad abbracciare la professione della vita cenobitica, ma anche a desiderare ardentemente la vita anacoretica, certamente più elevata. Di fatto, queste Conferenze sono state congegnate sotto la guida di quei celeberrimi Padri, e sono state adattate in tal modo, in tutte le loro parti, all’una e all’altra professione, per merito delle quali voi avete fatto rifiorire non soltanto le regioni dell’Occidente, ma anche le isole, con il concorso d’innumerevoli torme di fratelli, e questo in modo che vengono ammaestrati non solo coloro che perseverano, con la loro lodevole obbedienza, nella vita cenobitica, ma anche quanti, separatisi dalle vicine dimore cenobitiche da voi istituite, si sono decisi per la vita anacoretica, e così possano dedicarvisi più pienamente secondo le condizioni dei luoghi e la misura del loro stato. A questi ultimi il risultato delle vostre fatiche ha procurato questo vantaggio singolare: essi, già preparati come sono e dedicati ai medesimi esercizi, gradiranno più facilmente i precetti e i consigli di quei vegliardi fino ad accogliere gli stessi autori delle Conferenze nelle stesse loro celle assieme ai volumi delle Conferenze, e così, come parlando con essi, in un certo modo, con quotidiane conversazioni, fatte di interrogazioni e di risposte, saranno in grado di affrontare, al di fuori dei propri personali divisamenti, quell’arduo cammino pressoché ignoto in questa regione e perfino pericoloso: là invece, dove non mancano né sentieri molto battuti né innumerevoli esempi di quanti li hanno preceduti, essi si abitueranno ad apprendere la disciplina anacoretica con maggior profitto proprio per effetto dei precetti dettati da coloro che in tutto e per tutto li istruì un’antica tradizione e la pratica di una lunga esperienza. CONFERENZA DELL’ABATE PIAMO SULLE TRE SPECIE DI MONACI Indice dei capitoli I. Come fummo ricevuti dall’abate Piamo al nostro arrivo a Diolcos. II. Discorso dell’abate Piamo, nel quale si spiega come i monaci novizi devono essere istruiti dall’esempio degli anziani. III. I monaci giovani non devono discutere i precetti degli anziani. IV. Le tre specie di monaci che si trovano in Egitto. V. Da chi sia stata istituita la professione cenobitica. VI. Origine e inizio degli anacoreti. VII. Origine e costumi dei sarabaiti. VIII. Una quarta specie di monaci. IX. Domanda: quale differenza passa tra una casa di cenobiti e un monastero. X. Risposta. XI. La vera umiltà; e come l’abate Serapione smascherò la falsa umiltà di un monaco. XII. Domanda sul modo di acquistare la vera pazienza. XIII. Risposta. XIV. Esempio di pazienza dato da una donna devota. XV. Esempio di pazienza dell’abate Pafnuzio. XVI. La perfezione della pazienza. I – Come fummo ricevuti dall’abate Piamo al nostro arrivo a Diolcos Dopo aver goduto la vista e la conversazione di quei tre celebri abati dei quali, bene o male, ho riferito le Conferenze spirituali, secondo la richiesta del venerabile fratello Eucherio, devo dire che in me e in Germano si fece sempre più vivo il desiderio di visitare le più remote province dell’Egitto, dove i santi monaci sono più numerosi e più famosi. Così ci dirigemmo al paese chiamato Diolcos, posto sopra una delle sette bocche del Nilo. Non fummo portati colà dalla strada che dovevamo necessariamente percorrere, ma piuttosto dal desiderio di vedere i santi monaci che dimoravano in quella zona. Sapevamo che là esistevano numerosi gruppi di cenobiti, fondati dai Padri più antichi; perciò a somiglianza di mercanti desiderosissimi d’arricchirsi, ci lasciammo persuadere dalla speranza di un guadagno più alto e dirigemmo in quella parte la nostra navigazione e la nostra ricerca. Dopo aver navigato a lungo, e dopo essere stati trasportati di qua e di là, mentre gli occhi nostri cercavano avidamente quei luminari della virtù, il nostro sguardo scoprì l’abate Piamo, emergente tra tutti a somiglianza di un faro. Fra gli anacoreti che abitavano in quella regione egli era l’Anziano e il Sacerdote. Posto, come la città di cui parla il Vangelo, sulla cima del monte, non fa meraviglia che brillasse immediatamente ai nostri occhi. Penso opportuno non riferire qui i miracoli e i prodigi con i quali la divina grazia testimoniò anche dinanzi a noi i meriti di quel servo di Dio, diversamente mi allontanerei dal mio primo proposito e oltrepasserei i giusti limiti di questo volume. Io infatti non ho promesso di tramandare alla memoria dei posteri le opere miracolose del Signore, ma le istituzioni e le pratiche di quegli uomini santi, secondo la mia capacità di ricordare. Mi sono proposto soltanto d’istruire il lettore sulla vita perfetta, non di alimentare la curiosità, senza alcun risultato per la correzione dei suoi difetti. Il beato Piamo ci accolse con grandi segni di contentezza e ci ristorò con una cordialità degna di lui. Poi, accorgendosi che eravamo forestieri, si interessò di conoscere la nostra provenienza e il motivo per cui ci eravamo recati in Egitto Quando ebbe saputo che venivamo da una casa di cenobiti della Siria, e che il desiderio della perfezione ci aveva fatto intraprendere quel viaggio, ci rivolse questo discorso. II – Discorso dell’abate Piamo, nel quale si spiega come i monaci novizi devono essere istruiti dall’esempio degli anziani Figlioli miei, chiunque vuole acquistare perizia in una qualsivoglia arte, deve applicarsi, con tutta l’attenzione e con tutta la vigilanza di cui è capace, agli esercizi della professione che desidera conoscere; deve osservare i comandi e i consigli dei maestri di una determinata arte o scienza. Se non fa così si pasce di vani desideri e inutilmente spera di raggiungere la valentia di quegli artisti dei quali non si adatta ad imitare lo studio e la diligenza. Noi abbiamo conosciuto alcuni che venivano dalle vostre regioni a queste e percorrevano i monasteri dei fratelli allo scopo di imparare. Ma era gente che non si decideva ad abbracciare con la sua condotta le regole e gli usi che costituivano l’oggetto del viaggio intrapreso; gente che non se la sentiva di ritirarsi in qualche cella per veder di mettere in pratica ciò che aveva visto o udito. Costoro ritenevano ancora gli usi e i costumi nei quali erano stati prima ammaestrati e davano motivo a pensare — come qualcuno diceva in tono di condanna — d’aver lasciato le loro province allo scopo di fuggire la povertà, non già per amore del progresso spirituale. Di conseguenza, oltre a non acquistare una briciola d’istruzione, non trovavano neppure la forza di rimanere a lungo in questi luoghi, a causa della loro inflessibile ostinazione. Non vollero cambiare né l’osservanza dei digiuni, né l’ordine della salmodia, né l’abito che indossavano; e allora come si poteva evitar di pensare, che, nel venire tra noi, avevano un solo scopo, quello cioè di trovar da mangiare? III. – I monaci giovani non devono discutere i precetti degli anziani Ma se voi, come io credo, venite a studiare il nostro metodo di vita unicamente per meglio servire il Signore, è necessario che vi liberiate completamente da tutti quei metodi che vi furono insegnati all’inizio della vostra vita religiosa, per abbracciare in perfetta umiltà gli insegnamenti che vi daranno i nostri Anziani. Potrà accadere talvolta che il motivo ispiratore di certi detti e di certi fatti, lì per lì vi sfugga, ma ciò non deve trattenervi o ritrarvi dall’imitazione. La scienza più perfetta è il premio di coloro che giudicano rettamente e semplicemente su tutte le cose, e son più pronti ad imitare che a discutere quanto odono o vedono fare dagli Anziani. Colui, invece, che comincia con le dispute la sua istruzione, non penetrerà mai nel regno della verità. Il nemico, vedendo che quello si fida più del proprio giudizio che di quello degli Anziani, lo indurrà facilmente a giudicare superflue e pericolose le cose più utili e salutari. Il demonio, maestro d’inganni, lo giocherà così bene che quello, sempre più attaccandosi alle sue idee irragionevoli, arriverà a persuadersi che è cosa buona e santa soltanto quella che appare tale alla sua cieca caparbietà. IV – Le tre specie di monaci che si trovano in Egitto Prima di tutto dovete imparare quale sia l’esordio e l’origine della nostra professione; cioè com’essa è nata e da quale sorgente è derivata. È vero infatti che è facile penetrare i principi dell’arte a cui si ispira ed è pur facile infervorarsi ed esercitarla, quando ci è conosciuta la dignità di coloro che ne furono gli inventori e i fondatori. In Egitto esistono tre specie di monaci: due sono ottime; la terza è biasimevole e da evitarsi in modo assoluto. La prima è la specie dei cenobiti, vale a dire di quei monaci che vivono raggruppati in una comunità, sotto la guida e la direzione di un Anziano. Costoro sono sparsi in tutto l’Egitto e il loro numero è molto elevato. La seconda specie è quella degli anacoreti. Questi, dopo essersi formati nelle case dei cenobiti, dove son diventati perfetti nella vita ascetica, hanno scelto il segreto della solitudine. Di questa forma di vita anche noi desideriamo fare esperienza. La terza specie — quella che merita la nostra condanna — è dei Sarabaiti. Intendiamo parlare di queste tre forme separatamente e per ordine. Prima di tutto, dunque, voi dovete imparare a conoscere i fondatori di queste tre professioni monastiche. Tale conoscenza servirà ad ispirarvi avversione verso la forma che dev’essere fuggita e desiderio delle due forme che son da seguire, perché ognuna di queste due vie conduce necessariamente colui che la segue, al fine raggiunto da chi la scoprì e la seguì per primo. V – Da chi sia stata istituita la professione cenobitica La vita cenobitica nacque al tempo della predicazione apostolica. È proprio questa la forma di vita che vediamo sorgere a Gerusalemme, in quella moltitudine di credenti di cui il libro degli Atti così ci parla: «La moltitudine dei credenti aveva un cuor solo e un’anima sola: né vi era chi dicesse suo quello che possedeva, ma tutto era tra loro comune (At 4,32). Vendevano i loro beni e ne distribuivano il prezzo fra tutti, secondo il bisogno di ciascuno» (At 2,45). E ancora: «Non vi era alcun bisognoso tra loro. Perché quanti possedevano terreni o case, li vendevano; poi, preso il prezzo delle cose vendute, lo deponevano ai piedi degli Apostoli, e si distribuiva a ciascuno secondo il suo bisogno» (At 4,34-35). Tutta la Chiesa presentava allora uno spettacolo che oggi è possibile vedere soltanto (ohimè raramente!) presso un numero ristretto di cristiani, cioè nelle case cenobitiche. Ma dopo la morte degli Apostoli la moltitudine dei cristiani — specialmente quella che veniva dai popoli idolatri — incominciò a intiepidirsi. Ai convertiti dal gentilismo, per riguardo alla loro fede ancora rudimentale, e in considerazione dei loro inveterati costumi, gli Apostoli domandarono soltanto di astenersi «dalle carni immolate agli idoli, dal sangue, dagli animali soffocati e dalla fornicazione» (At 15,29). La libertà concessa ai convertiti dal gentilesimo, in considerazione della debolezza della loro fede incipiente, non mancò di contaminare a poco a poco la perfezione della Chiesa di Gerusalemme. Ogni giorno aumentava il numero dei convertiti, sia dal giudaismo che dal paganesimo, ma il fervore della primitiva fede diminuiva ogni giorno di più. E non fu soltanto la massa dei neo-convertiti a raffreddarsi e allontanarsi dall’antica austerità: i capi della Chiesa fecero altrettanto. Molti, ritenendo lecite anche per se stessi le concessioni fatte alla debolezza dei gentili, si persuasero che non c’era niente di male a conservare i loro beni patrimoniali, pur professando la fede in Cristo. Ma quelli che sentivano ancora il fervore dei tempi apostolici e volevano restare fedeli al ricordo della primitiva perfezione, lasciarono le città e la compagnia di coloro che ritenevano lecita, a se stessi e a tutta la Chiesa di Dio, la negligenza di una vita più comoda. Si stabilirono nei dintorni delle città, in luoghi appartati, e s’impegnarono a seguire per proprio conto quelle regole di vita che sapevano dettate dagli Apostoli per tutto il corpo della Chiesa. Nacque così il metodo di vita del quale stiamo parlando, cioè di quei seguaci del Signore che si erano ritirati nella solitudine per non contagiarsi nella tiepidezza dei più [1]. Con l’andare del tempo questi solitari si costituirono in una categoria distinta da tutte le altre. Dato che rinunciavano al matrimonio e si tenevano lontani dai parenti e dalla vita del mondo, furono chiamati monaci o monazontes, a causa della loro vita senza famiglia e solitaria. Le comunità che formarono in seguito, meritarono a loro il nome di cenobiti, mentre alle celle e ai luoghi nei quali si raggruppavano fu dato il nome di cenobi. Questa è la sola specie di monaci dei tempi più antichi: essa è la prima nel tempo e la prima per grazia. Si conservò per molti anni in tutto il suo splendore e in tutta la sua integrità, fino all’epoca degli abati Paolo e Antonio. Ai nostri giorni possiamo vederne i vestigi nei monasteri dei cenobiti. VI – Origine e inizio degli anacoreti Dal numero di questi uomini perfetti o, se così m’è permesso dire, dalla loro fecondissima radice, nacquero quei fiori e quei frutti che sono i santi anacoreti. S. Paolo e s. Antonio, che ho poco fa nominati, sono ritenuti gli iniziatori di questa forma di vita. Non furono né la pusillanimità, né il vizio dell’impazienza (come avviene per certuni) a spingerli nel segreto della solitudine. Furono guidati soltanto dal desiderio di un progresso più sublime e dal gusto della divina contemplazione; ciò resta vero anche se il primo di loro pare che abbia cercato il deserto in tempo di persecuzione, per sfuggire alle insidie dei suoi stessi congiunti. Ecco che dalla prima professione monastica, della quale abbiamo parlato, ne è nata un’altra, e veramente perfetta. Coloro che l’abbracciano si chiamano giustamente anacoreti, cioè uomini che vivono ritirati. Non contenti di quella vittoria ottenuta tra gli uomini, quando calpestarono gli assalti occulti del demonio, bramano ora combattere contro i demoni a viso aperto, in una lotta da pari a pari; per questo non temono di inoltrarsi nella solitudine del deserto. Assomigliano a Giovanni Battista, che passò nel deserto tutta la sua vita; assomigliano a Elia, ad Eliseo e a tutti gli altri di cui parla l’Apostolo quando dice: «Andarono raminghi, coperti di pelli di pecora o di capra, privi di tutto, angustiati, maltrattati; personaggi di cui il mondo non era degno, costretti a vagar pei deserti e per le montagne, o a rifugiarsi nelle spelonche e nelle caverne della terra» (Eb 11,37-38). Di costoro, cosi parla figuratamente il Signore con Giobbe: «Chi ha dato la libertà all’onagro? e i legami dell’asino selvatico chi li sciolse? A questo io assegnai il deserto per abitazione e qual sua dimora una terra salmastra. Se la ride dello strepito della città e il gridare del mandriano non ode; va attorno per i monti del suo pascolo, ed ogni verde zolla egli ricerca» (Gb 39,5-8). Nei salmi si legge: «Lo dicano ora coloro che furono riscattati dal Signore, che furono strappati dalle mani del nemico» (Sal 107 (106), 2). E poco dopo lo stesso salmo aggiunge: «E vagarono per il deserto, in una solitudine senz’acqua e non trovarono la via di una città per dimorarvi. Assaliti dalla fame e dalla sete, sentivano la loro vita venir meno. Nella tribolazione levarono la loro voce al Signore ed egli li liberò dalle loro strettezze» (Sal 107 (106), 4-6). Geremia ci dà di questi solitari il quadro che segue: «È bene che l’uomo porti il giogo fin dalla sua giovinezza, e se ne stia solitario, in silenzio, quando il Signore porrà quel giogo su di lui» (Lam 3,27-28). I solitari, con le disposizioni interiori e con le opere che compiono, cantano quei versi del salmo: «Somiglio a un pellicano del deserto, son pari a un gufo in mezzo alle macerie. Io veglio insonne, divenuto eguale a un passero solingo sopra il tetto» (Sal 102 (101), 7-8). VII – Origine e costumi dei sarabaiti Mentre queste due forme di monachesimo rallegravano la religione cristiana, anzi, quando le due forme descritte avevano incominciato adagio adagio a decadere, nacque una genia di monaci malvagi e infedeli. Forse è meglio dire che rispuntò e crebbe la mala pianta che nacque agli inizi della Chiesa, per opera di Anania e Saffira, quella pianta che la maledizione dell’apostolo Pietro aveva reciso. Giudicata detestabile e maledetta da tutti i monaci, quella mal erba non s’era più vista germogliare al mondo finché durò la paura d’un castigo tanto severo. Il santo Apostolo non aveva lasciato agli autori di una colpa così mostruosa né il tempo di pentirsi né di ripararla: con una morte repentina aveva stroncato il germe maledetto. Ma a poco a poco una certa negligenza e la lunga usura del tempo, cancellarono dalla mente degli uomini l’esempio che era stato punito severamente dall’Apostolo nel caso di Anania e Saffira. Per questo si vide nascere la genia dei sarabaiti, così chiamati, con nome di derivazione egiziana, perché si separavano dalle comunità cenobitiche e provvedevano alle loro necessità ciascuno per proprio conto. Essi discendevano direttamente da Anania e Saffira, i quali preferivano simulare la perfezione evangelica, anziché abbracciarla realmente, ed erano spinti a quella finzione dal desiderio di guadagnarsi le lodi con le quali erano onorati coloro che avevan preferito a tutte le ricchezze la perfetta povertà di Cristo. Costoro pretendono di compiere un’impresa che richiede una virtù insolita, con animo meschino; o forse sono stati sospinti alla professione monastica dalla necessità; perciò si affrettano tanto a fregiarsi del nome di monaco quanto s’ingegnano di fuggirne la vita. Non si curano della disciplina cenobitica, né di sottomettersi all’autorità degli Anziani, né d’imparare da loro a vincere la propria volontà. Non hanno una formazione sistematica, non hanno una regola dettata dalla discrezione. La loro rinuncia è per uso esterno, fatta per esser conosciuta dagli uomini. Talvolta rimangono nelle loro abitazioni private e, dopo essersi ammantati col nome di monaco, continuano ad occuparsi degli stessi affari di prima. Tal altra si costruiscono delle celle, le ornano col nome di monastero, ma vivono là dentro a loro talento e in piena libertà. Il Vangelo comanda: non vi date premura del vitto quotidiano, né dei beni di fortuna, ma quelli non se la sentono di curvare il collo a quel giogo. Il precetto del Signore lo possono osservare soltanto coloro che senza esitazione e con piena fedeltà si staccano completamente dai beni di questo mondo e si sottomettono ai superiori delle comunità cenobitiche, fino al punto di poter dire che non appartengono più neppure a se stessi. Di tutt’altro stampo sono i sarabaiti. Fuggono, come si è detto, l’austerità cenobitica e abitano a gruppi di due o tre nelle celle. Non vogliono esser governati dall’autorità di un abate, anzi mettono tutto l’impegno a conservarsi liberi dal giogo degli Anziani, per conservare la facoltà di soddisfare tutti i loro capricci: vagare qua e là, fare tutto quello che vogliono. Può capitare che essi lavorino di più degli stessi cenobiti: non contenti di lavorare durante il giorno possono applicarvisi anche nella notte, ma non agiscono con la stessa fede e con lo stesso scopo dei cenobiti. Si danno da fare tanto, non già per consegnare il frutto della loro fatica nelle mani dell’economo, ma per guadagnare denari e metterli da parte. Osservate ora quanta differenza intercorre fra queste due specie di monaci. I cenobiti, per nulla preoccupati del domani, offrono a Dio il frutto dei loro sudori come un’ostia gradita; i sarabaiti estendono le loro preoccupazioni materiali non solo al giorno vicino, ma agli anni lontani, e si figurano Dio come se fosse bugiardo o impotente: quasi che non volesse o non potesse mantener la promessa di dare ad ognuno di che mangiare ogni giorno e di che vestirsi. I cenobiti cercano con tutte le loro forze la actemosune, cioè la rinuncia totale e la povertà perpetua, i sarabaiti cercano l’abbondanza di tutti i beni. I primi si sforzano di superare la misura prescritta del lavoro quotidiano, ma lo fanno con l’intenzione che il loro guadagno, dopo aver provveduto alle necessità del monastero, sia dispensato, a giudizio dell’abate, alle carceri, agli ospizi per pellegrini, agli ospedali, ai poveri; gli altri vogliono che quanto avanza al quotidiano sostentamento vada a soddisfare la loro volontà spendereccia, o sia conservato ad alimentare l’avarizia. Posso anche concedere che i sarabaiti usano bene del denaro male ammassato, ma anche in questo caso non tendono ad imitare la virtù e la perfezione dei cenobiti. Questi ultimi infatti, procurano al monastero grandi guadagni e rinunciano ad essi ogni giorno, per rimanere nella umiltà e nella sottomissione più profonda. Così, dopo aver rinunciato al dominio su se stessi, rinunciano anche al dominio sulle cose che guadagnano col sudore della loro fronte; e con questo spogliamento quotidiano, che li distacca anche dal frutto del loro lavoro, rinnovano continuamente il fervore della prima rinuncia. I sarabaiti invece, anche quando fanno una elemosina ai poveri, si insuperbiscono, e così cadono ogni giorno nel precipizio. La pazienza e la fedeltà rigorosa con cui i cenobiti perseverano devotamente nella professione intrapresa, fa ogni giorno di loro dei crocifissi al mondo e dei martiri viventi; la tiepidezza e il capriccio precipitano i sarabaiti nell’inferno. Le due prime specie di monaci, vale a dire i cenobiti e gli anacoreti, si trovano in numero pressoché uguale in questa nostra provincia, ma nelle altre terre che le necessità della fede cattolica mi hanno obbligato a percorrere, prevale la terza specie, quella dei sarabaiti, anzi è quasi sola a tenere il campo. Ai tempi di Lucio, che era un vescovo passato all’eresia ariana negli anni in cui l’imperatore Valente governava il mondo, io fui incaricato di portare i frutti di una colletta ai fratelli che, dall’Egitto e dalla Tebaide, erano stati esiliati e condannati alle miniere nel Ponto e nell’Armenia, per punirli della loro irremovibilità nella fede cattolica. In quell’occasione potei vedere in qualche città rarissimi segni di vita cenobitica; quanto ad anacoreti, dovetti accorgermi che in quelle regioni non se ne conosceva neppure il nome. VIII – Una quarta specie di monaci Esiste una quarta specie di monaci che abbiamo visto sorgere da poco tempo: è la categoria di coloro che tentano d’ingannare se stessi con la vana apparenza della vita anacoretica. All’inizio questi monaci, presi da passeggero fervore, lasciano sperare di voler ricercare la perfezione cenobitica. Ma si raffreddano presto, e siccome non vogliono saperne di estirpare i loro vizi e le loro abitudini del passato, non sopportano di sostenere il giogo dell’umiltà e della pazienza, né si adattano a star sottomessi alla disciplina degli Anziani. Cercano perciò qualche cella separata e desiderano di vivere là in assoluta solitudine; così — non essendo più messi alla prova da qualche confratello — possono apparire pazienti, mansueti, umili. Ma questa nuova forma di vita eremitica, o per dir meglio, questa forma di tiepidezza spirituale, non permette mai a coloro che ha assaliti, di arrivare alla perfezione. Né basta dire che in tal modo i loro vizi non scompaiono, bisogna aggiungere che s’ingrandiscono, proprio per il fatto che non sono stuzzicati da alcuno. I vizi sono come un veleno nascosto e mortale, quanto più quel veleno si cela, tanto più penetra in profondità e produce mali insanabili. Per rispettarne la solitudine, nessuno ardisce rimproverare ad un tal monaco i vizi che egli stesso ha voluto ignorare. Le virtù — sia ben chiaro — non si acquistano con il nascondere i propri vizi, ma col liberarsene. IX – Domanda: quale differenza passa tra una casa di cenobiti e un monastero Germano. C’è differenza tra «cenobio» e «monastero»; oppure i due nomi dicono la stessa cosa? X – Risposta Riamo. Molti usano promiscuamente i termini «monastero» e «cenobio»; una differenza tuttavia c’è e consiste in questo: il termine monastero si addice all’abitazione e non indica altro che il luogo di raccolta; cenobio invece indica anche la forma di vita e il genere di disciplina che vi si osserva. Si potrebbe chiamar monastero anche l’abitazione di un solo monaco, mentre l’appellativo di cenobio si addice soltanto al luogo in cui molte persone coabitano e formano una comunità. Si chiamano monasteri anche i luoghi in cui vivono le associazioni dei sarabaiti. XI. – La vera umiltà e come l’abate Serapione smascherò la falsa umiltà di un monaco Voi che, a quanto posso vedere, siete venuti a bussare alla nostra porta partendo da un’esperienza di ottima vita monastica; voi che siete venuti dalla palestra onorata della vita cenobitica, per tendere alle altezze della disciplina anacoretica, esercitatevi più a fondo nelle virtù dell’umiltà e della pazienza, che avete certamente coltivate nel vostro primo genere di vita. Non dovete contentarvi, come fanno alcuni, di rivestirvi di quelle virtù soltanto all’esterno, fingendovi umili nelle parole, o affettando una falsa bassezza nel portamento del corpo. Questa maschera di umiltà fu una volta elegantemente messa in ridicolo dall’abate Serapione. Un giorno si presentò a lui un tale che nel comportamento esteriore e nelle parole mostrava la più profonda umiltà. Il vecchio abate lo invitò, com’è d’uso, a pregare insieme, ma per quanto insistesse non riuscì a convincerlo. Quello protestava di essere gravato da tanti e tali delitti da non meritare neppure di respirare l’aria che respirano tutti gli uomini. Non voleva neppure sedersi sulla stuoia e stava piuttosto accovacciato per terra. Inutile dire che non si lasciò lavare i piedi… Finito che ebbero di mangiare, l’abate Serapione approfittò della conferenza spirituale che doveva tenere, per ammonirlo benevolmente e cortesemente a non andar vagando oziosamente qua e là. Sei giovane e robusto — disse — non andare a zonzo senza far nulla; stattene in cella, come vuole la regola degli Anziani, e guadagnati la vita col tuo lavoro, invece di farti mantenere dal lavoro e dalla generosità degli altri. Fu questo il rimprovero temuto dall’apostolo Paolo. Pur avendo diritto al sostentamento da parte dei fedeli, perché era operaio del Vangelo, volle l’Apostolo lavorare giorno e notte per procurare il pane quotidiano a sé e a coloro che, impegnati a lavorare con lui, non avevano la possibilità di dedicarsi a qualche altro lavoro. A queste parole il nostro monaco fu preso da tanta tristezza e da tale dolore che il volto non riuscì a dissimulare la contrarietà del cuore. Gli disse allora il vecchio abate: «Figliolo mio, poco fa ti accusavi dei delitti più atroci e te ne caricavi il peso senza punto temere di perdere la mia stima; ecco che ora io ti dò un piccolo avvertimento il quale oltre a non aver nulla d’ingiurioso ti dimostra invece il mio affetto, il mio desiderio di aiutarti, e ti vedo talmente inquieto che non riesci a nascondere lo sdegno e a conservare un volto sereno. Che forse, mentre facevi mostra di quella tua umiltà, ti aspettavi che io ti dicessi: «Il giusto accusa se stesso fin dal principio delle sue parole»? (Pr 18,7: LXX). Caro il mio ragazzo, bisogna possedere la vera umiltà di cuore, che non consiste in gesti e parole affettate, ma nasce dall’intima umiltà dell’anima. Quella si rivelerà poi nella pazienza, che ne è il segno più sicuro. È inutile accusarsi di delitti ai quali nessuno crede; è molto meglio restare calmi di fronte alle ingiurie arroganti che uno ti rivolge e sopportare con mansuetudine e serenità d’animo i torti che ti son fatti. XII. – Domanda sul modo di acquistare la vera pazienza Germano. Desideriamo sapere come si acquista e come si conserva la tranquillità della quale tu ci parli. Ottima cosa è imporsi il silenzio, tener chiusa la bocca, tener a freno ogni parola ardita, ma bisogna anche conservare la tranquillità del cuore, la qual cosa non sempre avviene. Talvolta, anche se la lingua sta a segno, all’interno non regna la pace. Ed è proprio per questo che ci pare impossibile mantenere la virtù della mansuetudine se non si vive in una cella solitaria e nascosta. XIII. – Risposta La vera pazienza e la vera tranquillità non si acquistano e non si conservano senza una profonda umiltà di cuore. Quando una virtù nasce da questa fonte non ha bisogno né dell’aiuto d’una cella, né del rifugio nella solitudine. Non abbisogna infatti d’un sostegno esteriore la virtù che sia interiormente sostenuta dall’umiltà, sua madre e sua custode. Del resto, se abbiamo moti di ribellione, quando qualcuno ci provoca, è segno che i fondamenti dell’umiltà non sono ben consolidati in noi. Per questo, al sopraggiungere della più piccola burrasca, il nostro edificio spirituale si scuote fin dalle fondamenta e minaccia di crollare. La pazienza che rimane tranquilla perché non ha alcun nemico pronto ad assalirla coi suoi dardi, non merita lode né ammirazione. È illustre e gloriosa quella pazienza che sa restare immobile quando la tempesta della tentazione le cade sopra. La vera virtù, lungi dal tremare o infrangersi nelle avversità, in esse si rafforza, e si fa più acuta quando sembrerebbe che dovesse spuntarsi. Nessuno ignora che «pazienza» deriva da patire e sopportare; dunque è chiaro che merita di esser chiamato paziente soltanto colui che sopporta senza ribellarsi tutte le offese che gli si potranno arrecare. Di quest’uomo paziente tesse il meritato elogio Salomone quando dice: «L’uomo paziente val più del forte, e chi sa frenare l’ira è preferibile a colui che espugna le città» (Pr 16,32: LXX). E ancora: «L’uomo longanime è ricco di prudenza, ma il pusillanime è molto sciocco» (Pr 14,29). Perciò quando un uomo offeso si infiamma e si adira, non si deve credere che la gravità dell’offesa sia la causa del suo peccato. No: l’offesa non fa altro che mettere in chiaro una debolezza prima nascosta. In questo caso si vede avverata la parabola del Signore e Salvatore nostro riguardante le due case; delle quali, una era fondata sulla pietra e l’altra sulla sabbia. Piogge, fiumi, venti tempestosi si abbatterono sull’una e sull’altra, ma quella che era fondata sulla dura pietra non riportò alcun danno da un colpo tanto violento, mentre quella che era costruita sulla sabbia instabile, andò subito in rovina. Ed è facile capire che questa rovinò, non già perché fu assalita dalle piogge e dai torrenti, ma per l’imprudenza di colui che l’aveva costruita sulla sabbia. Il santo e il peccatore non si distinguono tra loro per il fatto che il primo è tentato e il secondo no. Entrambi sono tentati, ma il primo non si lascia sopraffare neppur dagli assalti più violenti, il secondo cede all’impeto più leggero. La fortezza del santo — lo abbiamo già detto — non sarebbe meritevole di lode se perdurasse solo quando non è messa alla prova: la vittoria non si dà senza combattere contro qualche avversario. «Felice l’uomo che sopporta pazientemente la prova, perché dopo essere stato provato, riceverà la corona di vita che il Signore ha promesso a coloro che lo amano» (Gc 1,12). Anche a giudizio dell’apostolo Paolo la virtù non si tempra nell’ozio e nelle delizie, ma nella infermità (Cfr. 2 Cor 12,9). Dice ancora il Signore: «Ecco, in questo giorno, io ti stabilisco come una città forte, come colonna di ferro, come muro di bronzo, contro tutta la terra, contro il re di Giuda e i suoi principi, i suoi sacerdoti ed il popolo del paese. Se vorranno farti guerra non avranno il sopravvento, perché io sono con te per liberarti» (Is 1,18-19). XIV. – Esempio di pazienza dato da una donna devota Ora voglio presentarvi almeno due esempi di pazienza. Il primo riguarderà una donna devota, la quale praticò la pazienza con tanto fervore che invece di fuggire le occasioni di tentazione le andò a cercare con grande avidità, per meglio abituarsi a vincerle, data la loro frequenza. Costei era nata ad Alessandria, ed era discendente da nobile famiglia. Serviva il Signore nella casa che i suoi antenati le avevano lasciata. Un giorno si presentò al vescovo Atanasio, di felice memoria, e lo pregò di consegnarle in custodia una delle vedove che venivano mantenute a spese della Chiesa. E per dir la cosa con le stesse sue parole: «Dammi — disse — una di queste sorelle e io penserò a mantenerla». Il vescovo lodò il proposito della buona donna e, vistala così pronta alle opere di misericordia, ordinò che le fosse consegnata una donna distinta fra tutte, a motivo dei suoi costumi e della sua condotta. Non voleva, il santo vescovo, che il generoso desiderio della benefattrice fosse vinto dalla cattiveria della beneficata, o che la benefattrice, cercando di farsi meriti nell’aiutare una bisognosa, avesse a patir pericolo nella fede a causa dei cattivi costumi di quella. Mentre la pia signora serviva con ogni riguardo la sua ospite, questa non faceva altro che dimostrare modestia, dolcezza, e rendere grazie per le attenzioni di carità di cui era oggetto. Dopo qualche tempo la pia benefattrice ritornò dal vescovo e gli disse: «Io avevo chiesto che mi fosse assegnata una vedova da sostentare e da servire docilmente nelle sue necessità». Il vescovo allora, non conoscendo il proposito e il desiderio della donna, pensò che la persona incaricata di soddisfarla non avesse adempiuto il suo compito, e domandò con una certa animosità la ragione dell’indugio. Venne così a sapere che per quella pia donna era stata scelta la vedova più buona che si potesse trovare. Allora il vescovo comandò che le fosse assegnata la peggiore di tutte: irosa, rissosa, bevitrice, chiacchierona, quant’altre mai. La buona donna se la prese in casa e incominciò a servirla con la stessa diligenza, e forse con maggior amore di quello mostrato con la precedente. Ma in cambio di tanti servigi ne ricavava come compenso offese, imprecazioni, sgarbi a non finire. Talvolta la vedova insultava la sua benefattrice rimproverandole di averla chiesta al vescovo, non già per prestarle assistenza, ma per tormentarla e offenderla. Affermava infine che invece di passare dalla fatica al riposo, era passata dal riposo alla fatica. La frequenza dei litigi arrivò a tal segno che qualche volta la pessima vedova non si trattenne dal colpire con le mani la sua benefattrice. Questa, da parte sua, cercava di vincerla non con opporre violenza a violenza, ma sottomettendosi con crescente umiltà. Sperava cosi di calmare, con la mansuetudine della sua carità, l’ira scatenata di quella furia. Quando, con simile esercizio, si fu fortificata e perfezionata nella pazienza — come aveva sempre ardentemente desiderato — tornò dal vescovo e lo ringraziò della scelta felice, nonché del bene che le aveva procurato. Il vescovo, com’è chiaro, le aveva procurato un’ottima maestra di pazienza, che per mezzo delle sue interminabili offese l’aveva ogni giorno fortificata — proprio come l’olio fortifica gli atleti — e l’aveva finalmente condotta alla vetta della pazienza. «Ora sì, disse la donna al vescovo, che mi è stata data una vedova da assistere. La prima non era da assistere, perché mi onorava e mi consolava con le sue gentilezze». E di esempi femminili basti questo. Il racconto valga non solo a edificarci, ma anche a farci vergognare, visto che noi non sappiamo conservare la pazienza se non ci chiudiamo in una tana, alla maniera delle fiere. XV — Esempio di pazienza dell’abate Pafnuzio Ora passiamo al secondo esempio, che è quello dell’abate Pafnuzio. Costui abita tuttora nel deserto di Scito, del quale è sacerdote. È quello un eremo glorioso, degno di essere lodato su tutta la terra. Pafnuzio si compiace tanto di vivere ritirato, che gli altri eremiti lo hanno chiamato Bufalo, o bove selvatico, proprio in ragione del profondissimo desiderio di solitudine che vedono in lui, nonché per la sua aspirazione a stare sempre nascosto. Fin dalla più giovane età il monaco Pafnuzio possedeva tanta virtù e tanta grazia che i monaci più santi ed illustri di quel tempo ammiravano la sua gravità e la sua incrollabile costanza. Nonostante la sua giovane età, molti lo equiparavano agli anziani in fatto di merito e di virtù, e lo giudicavano degno di appartenere al gruppo degli Anziani. Per questo avvenne che quello stesso fuoco, che una volta accese il cuore dei fratelli contro il patriarca Giuseppe, accendesse con la fiamma della gelosia l’animo di un fratello contro di lui. Il monaco geloso, volendo deturpare una sì grande bellezza, con qualche neo o qualche macchia, preparò un piano maligno e si propose di condurlo ad effetto una domenica, quando Pafnuzio avesse abbandonato la sua cella per recarsi alla Chiesa. Così fu. Corse alla cella vuota e furtivamente nascose il suo libro fra la carta che il giovane monaco andava fabbricando con le foglie di palma. Poi, fiducioso che nessuno lo avesse scoperto, come uno che è sicuro del fatto suo, se n’andò anche lui alla Chiesa. Quando il sacro rito giunse al termine, il monaco geloso andò a lamentarsi, in presenza di tutti i fratelli, di essere stato derubato del suo libro. Il lamento era rivolto a s. Isidoro, che fu il sacerdote del deserto di Scito prima che lo fosse l’abate Pafnuzio. La notizia turbò moltissimo l’animo di tutti i fratelli, specialmente quello di Isidoro. Nessuno sapeva che cosa fare o pensare, di fronte a un avvenimento così nuovo e mai prima verificatosi. Non c’era monaco che ricordasse qualcosa di simile in quell’eremo, e neppure dopo se ne ebbe un altro esempio. Ma il derubato insisteva a chiedere che si facessero trattenere tutti i monaci in chiesa e nel frattempo si mandasse una delegazione di monaci scelti, per rovistare in tutte le celle. Il prete Isidoro comandò a tre monaci dei più anziani di fare l’ispezione, cella per cella. Quelli andarono, misero sottosopra ogni cosa, e finalmente nella cella di Pafnuzio, tra quelle carte di palma che nel gergo monastico si chiamano «sira», proprio là, dunque, dove lo aveva nascosto il monaco geloso, trovarono il corpo del reato. I monaci persecutori portarono il libro alla chiesa, dove stavano riuniti i loro confratelli. Allora Pafnuzio, che era sicurissimo della sua innocenza, accettando di essere reo di furto, si mostrò disposto a far la penitenza e domandò in quale luogo dovesse recarsi ad espiare. In tal modo egli intendeva difendere la sua modestia e il suo onore. Infatti, se avesse tentato di scagionarsi a parole dalla colpa di furto, avrebbe aggiunto alla prima anche quella di menzogna, in quanto nessuno dei monaci presenti poteva sospettare qualcosa di diverso da quanto il corpo del reato attestava. S’allontanò dunque dalla chiesa, più fiducioso nel giudizio di Dio che atterrito del triste caso capitatogli. Pregò senza interruzione, pianse, triplicò i digiuni e si umiliò anche davanti agli uomini con la sincerità più profonda. Per due settimane si abbassò dinanzi a tutti nella più grande contrizione dell’anima e del corpo: arrivò a tal punto che il sabato e la domenica si recava alla chiesa il mattino prestissimo, non già per ricevere la comunione, ma per inginocchiarsi sulla porta e supplicare, gemendo, il perdono. Colui che vede i pensieri occulti degli uomini non permise che il buon monaco tormentasse più a lungo se stesso, o che gli altri lo stimassero ancora colpevole. L’inventore del furto, colui che aveva rubato il suo proprio libro, colui che aveva imbrattato l’onore di Pafnuzio, alla fine rivelò ciò che aveva fatto nascostamente. La confessione avvenne per impulso del diavolo, che era stato anche istigatore della colpa. Caduto in potere di un demonio tra i più crudeli, il monaco geloso svelò il piano nascosto del suo delitto: così, colui che aveva inventato l’orribile calunnia se ne fece anche denunciatore. Lo spirito maligno tormentò poi a lungo il monaco geloso, senza che le preghiere dei santi monaci, presenti in quell’eremo e muniti della virtù di comandare agli spiriti immondi, riuscissero a liberarlo. Neppure il prete Isidoro riuscì nell’impresa, nonostante la virtù speciale che possedeva. Egli infatti aveva ricevuto dalla divina benignità una potenza tanto grande, che mai un ossesso veniva condotto a lui, senza che si trovasse guarito prima ancora di toccar la soglia della sua cella. La gloria di questa liberazione, il Signore l’aveva riservata al giovane Pafnuzio. Il colpevole doveva essere liberato soltanto dalle preghiere di colui che era stato ingiustamente accusato. Soltanto invocando il nome di colui che sotto gli stimoli dell’invidia avrebbe voluto infamare, poteva ottenere il perdono della sua colpa e porre fine all’ossessione diabolica. Così, fin dalla prima giovinezza, Pafnuzio dette qualche segno rivelatore di ciò che sarebbe stato in seguito. Fin dagli anni dell’infanzia egli lasciava intendere quell’alta perfezione che, col progredire degli anni, avrebbe avuto altri accrescimenti. Anche noi, se vogliamo arrivare come lui a queste altezze di virtù, dobbiamo fondare l’edificio della nostra perfezione sopra un fondamento non diverso dal suo. XVI – La perfezione della pazienza Due ragioni mi hanno spinto a riferire questo esempio. La prima è che noi, considerando la calma imperturbabile e la costanza del beato Pafnuzio, ci sentiamo mossi a sentimenti di pace e di pazienza, specialmente in considerazione del fatto che gli assalti sferrati dal nemico contro di noi sono una cosa da nulla in confronto con quelli toccati a quel monaco. La seconda ragione è di convincerci che non potremo esser sicuri contro gli assalti e le tentazioni del demonio, se poniamo la difesa e la speranza della nostra pazienza nella clausura della nostra cella, nella separazione dagli altri, nella compagnia dei santi, o in altre difese esteriori, anziché nella robustezza della nostra vita interiore. Se colui che ha detto nel Vangelo: «Il regno di Dio è dentro di voi» (Lc 17,21), non fortifica l’anima nostra con la virtù della sua protezione, inutilmente noi spereremo di vincere gli assalti degli spiriti maligni, o anche solo di evitarli, con la distanza dai luoghi abitati, o con l’angustia di una cella. Tutte queste protezioni non mancavano davvero al beato Pafnuzio, eppure il tentatore trovò ugualmente la via per tentarlo. Il maligno non si lasciò scoraggiare né dalle mura del chiostro, né dai meriti di tanti santi radunati in quei luoghi. Ma siccome il monaco tentato non aveva poggiato la sua speranza nei soccorsi esteriori, ma in Colui che giudica i più riposti segreti del cuore, per questo non potè esser mosso dalla potenza di un assalto tanto violento. Considerate ora il monaco che per invidia ordì la calunnia. Non è vero che godeva anche lui il beneficio della solitudine? La protezione di una cella appartata? La compagnia dell’abate e prete Isidoro, nonché degli altri santi monaci? Ma la tempesta suscitata dal demonio trovò la casa fondata sulla sabbia, e cosi — oltre ad assalirla — la fece completamente rovinare. Non cerchiamo dunque la nostra pace fuori di noi, né pensiamo che la pazienza degli altri possa liberarci dalla nostra impazienza. Come è vero che il regno di Dio è dentro di noi, altrettanto è vero che i peggiori nemici dell’uomo sono nella sua stessa casa (Cfr. Mt 10,36). Nessuno mi è più vicino del mio cuore; eppure, nessuno mi è più di lui nemico. Cerchiamo dunque di stare all’erta, e i nemici interni non potranno ferirci. Quando i nemici interni cessano di assalirci, la nostra anima comincia a possedere in pace il regno di Dio. A voler essere sinceri si deve dire che nessun estraneo, per quanto mal disposto possa essere, è capace di recarci del male, se noi non ci rivolgiamo contro noi stessi con cuore nemico. Se io son ferito, non è per colpa d’un estraneo che mi ha assalito: è la colpa della mia impazienza. Avviene in questo caso quel che si verifica per un forte cibo: per un sano è utile, per il malato è nocivo; non può cioè far male a chi lo mangia se non trova nella sua debolezza la forza di nuocergli. Se tentazioni del genere di quelle descritte sorgeranno tra i fratelli, non perdiamo la calma, non apriamo il varco alle critiche, alle parole d’ira, che risuonano sulle labbra dei mondani. Tutt’al più potremo meravigliarci che uomini cattivi e detestabili si siano nascosti in mezzo ai santi. Finché saremo calpestati e battuti nell’aia, che è il mondo, sarà necessario che la paglia destinata al fuoco eterno, si trovi mescolata al buon grano. Non dimentichiamo che si trovò un Satana fra gli Angeli, un Giuda fra gli Apostoli, un Nicolao, autore d’una pessima eresia, in mezzo ai sette diaconi [2]. Non deve dunque meravigliarci che in mezzo a uomini santissimi se ne trovi qualcuno malvagio. Qualcuno, lo so, nega che il Nicolao dei Nicolaiti sia da identificare con quello scelto dagli Apostoli e annoverato tra i primi diaconi. Nessuno però può negare che il Nicolao eretico apparteneva al numero dei Discepoli, i quali praticavano, a quei tempi, una perfezione così alta, da poter essere raramente equiparata con quella che praticano oggi i migliori cenobiti. Ma non ci fermiamo a considerare la caduta del monaco che in quell’eremo famoso precipitò in una colpa tanto grave; non è bello considerare un disonore che peraltro il colpevole seppe lavare con le lacrime della penitenza. Meglio è proporre a noi stessi l’esempio del venerabile Pafnuzio. Invece di scandalizzarci per il peccato del calunniatore, nel quale il vizio dell’invidia volse al peggio la non sincera virtù della religione, imitiamo con tutte le forze l’umiltà di Pafnuzio. E ricordiamoci che quella virtù non fu un frutto del deserto, ma fu acquistata in mezzo agli uomini: nel deserto, poi, si sviluppò e raggiunse la sua pienezza. Bisogna anche dire che l’invidia è il più ribelle di tutti i vizi: quando si è attaccata ad un’anima col suo veleno, direi quasi che non c’è più rimedio. L’invidia è quella peste di cui parla figuratamente il profeta quando dice: «Ecco, io vi manderò dei serpenti velenosi che non si possono incatenare; essi vi morderanno» (Is 8,17). A buon diritto il profeta assomiglia al veleno mortale del basilisco il morso dell’invidia. Da quel morso fu colpito anche il principe e autore di tutti i mali: egli per invidia cadde, e per invidia fa cadere. È chiaro infatti che egli fu uccisore di se stesso prima di diventare uccisore dell’uomo, verso il quale sentiva gelosia, e nel quale versò il veleno della morte. Sta scritto: «La morte entrò nel mondo per l’invidia del demonio; e quelli che lo seguono, ne fanno l’esperienza» (Sap 2, 24-25). Come il demonio, che fu infetto per primo dal veleno dell’invidia, rimane incurabile ai rimedi della penitenza e ad ogni altro medicamento capace di alleviare quel male, così coloro che si abbandonano a quei morsi velenosi, escludono da sé ogni rimedio del celeste Incantatore. E la ragione è che il loro interno rodimento non nasce dalla colpa di colui che invidiano, ma piuttosto dalla felicità di lui. Per questo si vergognano a manifestare la verità del loro sentimento e cercano vani pretesti per spiegare la loro malevolenza. Siccome le cause che adducono sono falsissime, e il veleno mortale che non vogliono manifestare resta nascosto nel loro interno, ecco che ogni cura diventa naturalmente inutile. Di loro dice giustamente la divina sapienza: «Se il serpente morde prima di essere incantato, non c’è niente da fare per l’incantatore» (Qo 10,11). Questi sono i morsi segreti contro i quali le medicine dei sapienti non valgono a nulla. Questo male fino ad ora s’è mostrato inguaribile; le buone maniere lo irritano, gli ossequi lo gonfiano, i doni lo provocano a furore: «L’invidia — dice Salomone — non sopporta niente» (Pr 27,4). Quanto più il fratello si arricchisce con le prove di umiltà, con la virtù della pazienza o con la gloria della munificenza, tanto più l’invidioso si sente pungere dagli stimoli della sua passione; egli vuole la rovina del fratello, la sua morte: niente altro. Basta osservare i figli di Giacobbe. L’amabilità dell’innocente Giuseppe non bastava a superare la gelosia dei suoi undici fratelli. Sul loro conto ci assicura la Scrittura: «I suoi fratelli, vedendo che il padre loro lo amava più di tutti gli altri, lo presero in tale avversione, che non gli potevano dire una parola in pace» (Gen 37,4). La loro gelosia, sorda a tutte le obbedienze e le sottomissioni del fratello innocente [3], ne voleva la morte, e si adattò di malavoglia a sostituire alla morte una vendita da schiavi. È dunque vero che, fra tutti i vizi, l’invidia è il più dannoso e il più difficile a guarire, perché i rimedi che curano gli altri vizi servono a incrementare l’invidia. Facciamo qualche esempio: uno si lamenta di una offesa patita: se fa un atto di generosità, con questo guarisce il suo male; un altro ha ricevuto un affronto: un’umile soddisfazione basterà a placarlo. Ma come calmare un uomo che si ritiene offeso proprio quando ti vede più umile e più benevolo? Se fosse il desiderio di possedere, a farlo andare in collera, un dono potrebbe soddisfarlo; se fosse una puntura d’amor proprio, o il desiderio di vendetta, le carezze potrebbero soddisfarlo, ma è solo la felicità degli altri a irritarlo, e non si può farci niente. Chi infatti sarebbe disposto a perdere i suoi beni; ad abbandonare la prosperità, a cacciarsi in qualche guaio, per far piacere a un invidioso? Bisogna dunque implorare continuamente il soccorso di Dio onnipotente, se vogliamo che questo basilisco non uccida, con uno dei suoi morsi avvelenati, tutto ciò che è in noi vivo e animato dal soffio dello Spirito Santo. Il veleno degli altri serpenti — cioè i peccati o vizi carnali — come è facile a penetrare nella natura umana, altrettanto è facile ad esserne estromesso. Le ferite di quel veleno si riconoscono anche da certi segni esteriori; e per quanto pericolose possano essere le enfiagioni, un incantatore esperto nell’uso magico delle formule della Sacra Scrittura, saprà applicare il rimedio delle parole salutari, cosicché il veleno non arrivi a produrre la morte dell’anima. L’invidia, invece, a somiglianza del veleno iniettato dal basilisco, distrugge la religione e la fedeltà fin dalle radici, prima ancora che il colpito ne senta le ferite nel corpo. L’invidioso non pecca contro il fratello, ma pecca contro Dio, perché non trovando nulla da condannare nel fratello, all’infuori della felicità di cui quello gode, non condanna la colpa di un uomo, ma condanna e bestemmia i giudizi stessi di Dio. L’invidia dunque è quella «radice d’amarezza» che spunta fuori a produrre infezione (Eb 12,15); essa si leva verso l’alto per offendere il Creatore stesso, dal quale derivano all’uomo tutti i beni. Del resto non conviene impressionarsi che Dio minacci di mandare i basilischi a mordere gli empi che l’offendono. Sappiamo bene che Dio non è l’autore dell’invidia; ma siccome i doni della grazia sono concessi agli umili e rifiutati ai superbi, è cosa degna dei divini giudizi che l’invidia sembri un castigo mandato da Dio per colpire e consumare coloro che, secondo l’apostolo Paolo «abbandonò a perversi pensieri» (Rm 1,28). E dice ancora la Scrittura: «Essi mi hanno reso geloso contro uno che non è Dio, mi hanno irritato coi loro idoli vani; io susciterò la loro gelosia verso uno che non è popolo, li irriterò con gente insensata» (Dt 32,21). ★ Con questi ragionamenti l’abate Piamo infiammò ancor più il nostro desiderio di lasciare la scuola rudimentale della vita cenobitica per tendere al grado superiore della vita anacoretica. Alla sua scuola imparammo i primi elementi della pratica eremitica, nella quale diventammo poi molto versati, al tempo della nostra dimora nel deserto di Scito. [1] Cassiano riprende la tesi, cara a tanti altri autori contemporanei e anteriori a lui, secondo la quale la vita cenobitica sarebbe nata all’età apostolica. (Cfr. Socrate: Historia Ecclesiastica. P. G. 67, 512). In realtà il monachesimo nasce soltanto agli inizi del IV secolo, con Antonio e Pacomio. [2] Cassiano pensa – con s. Ireneo, Tertulliano ed altri – che il diacono Nicolao sia l’inventore dell’eresia detta dei Nicolaiti. La derivazione non è sicura. Eusebio, nella Storia Ecclesiastica, dice che i Nicolaiti usurparono il nome del diacono per camuffare i loro errori. [3] Nota del redattore del sito: il testo originale del libro è questo: ” sorda a tutti gli ossequi e i complimenti del fratello innocente”. Questo è il testo latino: “donec zelus eorum qui nulla germani obsequentis atque subjecti sustinuit blandimenta“. CONFERENZA DELL’ABATE GIOVANNI SUL FINE DELLA VITA CENOBITICA ED EREMITICA Indice dei capitoli III. L’abate Giovanni spiega perché ha lasciato il deserto. VII. Domande sui frutti prodotti dalla vita comune e da quella solitaria. VIII. Risposta alle domande. XII. Risposta sul modo in cui il solitario può conoscere i suoi vizi. XIII. Domanda: come potrà guarire colui che è entrato nella vita eremitica prima di essersi purificato dai vizi. XIV. Risposta sul tema proposto. XVI. Risposta: da quali segni si può riconoscere la castità. Dopo pochissimi giorni, divorati dal desiderio di imparare, tornammo con grande alacrità al monastero dell’abate Paolo. Quel monastero accoglieva di solito più di duecento monaci, ma allora — per una solennità che vi si celebrava — ne aveva richiamati moltissimi anche da altri monasteri. La solennità a cui ho fatto cenno era l’anniversario della sepoltura dell’ultimo abate che aveva retto quel monastero. Ho voluto far menzione di questa circostanza perché vorrei raccontare l’esempio di pazienza dato da un fratello in presenza di tutti quei monaci. Lo so che questo episodio è fuori del mio tema. Io ho promesso di riferire gli insegnamenti dell’abate Giovanni, il quale aveva abbandonato la sua cella d’eremita per andare a vivere in quel monastero, sotto la disciplina cenobitica. Penso tuttavia di non fare cosa fuori proposito se molto brevemente riferisco un fatto capace di edificare grandemente chiunque possiede un amore sincero della virtù. Ecco il fatto. La turba dei monaci si era assisa per terra in gruppi di dodici, dentro un atrio immenso e senza tetto. I presenti stavano consumando il loro pasto, ma uno dei fratelli incaricati di servire i commensali arrivò con ritardo a portare il piatto. L’abate Paolo, che andava tra la schiera degli inservienti ad osservare e ad aiutare, allungò la mano e, alla presenza di tutti, lasciò andare al nostro monaco uno schiaffo così sonoro che ne sentirono il suono anche quelli che voltavano le spalle, o stavano molto distanti. Nonostante ciò, quel giovane monaco, degno davvero di essere ricordato, accettò la prova con tanta dolcezza che nessuna parola gli uscì di bocca, né gli si mossero le labbra ad un lamento, sia pure impercettibile. Anzi, il suo aspetto modesto e sereno, il colore del volto, non subirono alcun mutamento. Il fatto fu motivo di meraviglia a tutti, non solo per noi, che eravamo appena arrivati dal nostro monastero di Siria e non avevamo ancora imparato a conoscere, attraverso esempi così luminosi, la qualità di questa pazienza. Si meravigliarono molto anche coloro che erano abituati a simili esempi: perfino i monaci più provetti trovarono qualche cosa da imparare. Passi che la pazienza del monaco non si fosse lasciata turbare dalla correzione dell’abate, ma quel che veramente stupisce è che la vista di tutta quella moltitudine non imporporasse di vergogna le guance del poveretto. Torniamo al nostro tema. In quel cenobio trovammo un vecchio, carico d’anni, che si chiamava Giovanni e si sollevava al disopra di tutti per la sapienza delle parole e per gli esempi di umiltà. Non è possibile tacere di lui. Egli eccelleva nell’umiltà, che è la madre di tutte le virtù e il fondamento di tutto l’edificio spirituale. Questa virtù, ahimè, è come esiliata dai nostri monasteri, e ciò spiega perché non riusciamo a sollevarci alle altezze di perfezione cui giungevano quei santi uomini. Non dirò che noi — a differenza dell’abate Giovanni — siamo incapaci di rimanere per tutta la vita nella disciplina cenobitica; ma quando abbiamo portato per un paio d’anni il giogo di quella disciplina, subito prendiamo il via per correre verso una libertà presuntuosa e pericolosa. E fosse poi vero che nel breve intervallo della nostra esperienza cenobitica, ci sottomettiamo ad una vera obbedienza e non riprendiamo la nostra libertà sotto uno o altro pretesto! Quando noi vedemmo quel santo vecchio, là nel monastero dell’abate Paolo, prima di tutto ammirammo l’età e la grazia che lo circondava, poi, inchinandoci fino a terra, lo supplicammo di volerci spiegare le ragioni per le quali aveva rinunciato al deserto, alla libertà, alla professione sublime in cui si era tanto distinto, a una fama universale, per tornare al giogo della vita cenobitica. Egli rispose che la pratica eremitica era troppo alta per lui e che si sentiva indegno di una perfezione così elevata. Per questo era ritornato alla scuola in cui si formano i novizi, e si sentiva molto felice di poterne seguire le pratiche in modo confacente all’eccellenza di questo genere di vita. L’umiltà di questa risposta ci chiamò sulle labbra molte obiezioni. Allora il vecchio monaco prese a dire così. Quella vita eremitica che io con vostra grande meraviglia ho lasciato, non la respingo, né la condanno; anzi la rispetto e la stimo molto. Dopo aver passato trent’anni in un certo cenobio, io sono stato vent’anni eremita e mi rallegro di non essere mai stato accusato di poco impegno da coloro che in quella forma di vita erano maestri. Tuttavia, dopo aver goduto le gioie dell’eremo, a poco a poco le sentii diminuire soprattutto per il sopraggiungere delle necessità corporali che mi distraevano. Allora mi sembrò conveniente ritornare ad un monastero di cenobiti, per raggiungervi meglio il fine del mio proposito e per evitare il pericolo che presenta all’umiltà una professione troppo sublime. Preferisco il fervore in una forma di vita più bassa, alla tiepidezza in una forma di vita più sublime. Perciò, se mi ascolterete dire qualche parola un po’ troppo forte, o addirittura troppo libera, non vogliate pensare che provenga dal vizio della superbia, ma dal desiderio di farvi del bene. Se infatti mi tengo in dovere di nulla nascondere a uomini come voi, che sinceramente cercano la verità, è segno che non sono mosso da orgoglio ma da carità. Io credo che potrò in qualche modo istruirvi se metterò un po’ da parte l’umiltà e vi manifesterò semplicemente e sinceramente quello che fu il mio proposito. E confido che la mia sincerità non mi farà credere ammalato di vanità, mentre per altro lato, eviterò, di fronte alla mia coscienza, il rimprovero di aver mentito, o almeno di aver manipolato la verità. Se ci fu mai un monaco che si rallegrò nel segreto della solitudine e dimenticò completamente i rapporti col mondo, fino a poter dire col profeta Geremia: «ho desiderato il giorno dell’uomo» (Ger 17,16), quel monaco sono io. Sperai anche che il Signore mi facesse la grazia di rimanere sempre in questa disposizione. Mi ricordo di essere stato, per un dono della divina misericordia, rapito in estasi così sublimi da dimenticare completamente il peso di questo fragile corpo. La mia anima si liberava improvvisamente dal corpo e se ne andava così lontano dal mondo materiale che né gli occhi né le orecchie compivano più i loro normali uffici. Lo spirito era talmente ripieno di pensieri divini e di contemplazioni celesti, che spesso non ricordavo, giunto a sera, se in quel giorno avevo toccato cibo, e il giorno seguente non sapevo decidere se il giorno prima avessi o no rotto il digiuno. Per questo motivo si suol mettere al sabato, in un prochirio, che è una piccola sporta a mano, il cibo dell’intera settimana, cioè quattordici pagnotte. In tal modo, se l’eremita si è dimenticato di mangiare può accorgersene guardando la quantità della provvista. Ma questo uso ha un altro scopo, quello di far da calendario. Quando il pane è finito è segno che la settimana è trascorsa ed è giunta la domenica. Così l’eremita è avvertito di recarsi all’assemblea dei fratelli per celebrare la divina liturgia. Se poi l’intensità dell’estasi rende vano questo metodo di calcolo, il lavoro quotidiano offre un altro mezzo per contare i giorni ed evitare ogni errore. Passerò sotto silenzio gli altri pregi della vita eremitica, dato che il nostro scopo non è quello di considerare gl’innumerevoli pregi del deserto, ma quello di conoscere il fine del cenobio e della solitudine. Vi spiegherò tuttavia le ragioni per cui lasciai l’eremo (voi infatti mi avete interrogato al riguardo) e dirò pure in poche parole quali più alti meriti io abbia preferito a quei frutti del deserto, di cui ho parlato prima. Finché il piccolo stuolo di coloro che abitavano nel deserto ci lasciò liberi di vagare per immense solitudini; finché, immersi in vasto segreto, ci fu facile essere spesso rapiti in estasi; finché la frequenza delle visite non venne ad apportarci preoccupazioni e noie senza numero, con l’obbligo di soddisfare ai doveri dell’ospitalità, io abbracciai con tutto l’ardore dell’anima i segreti della tranquilla solitudine, che è vita somigliante alla beatitudine degli angeli. Ma venne un tempo nel quale — come ho detto — molti monaci si trasferirono nel deserto e le solitudini, che prima erano tanto vaste, diventarono all’improvviso strette. Per questo motivo, non solo si illanguidì il fuoco della divina contemplazione, ma le preoccupazioni della vita presente ci legarono con molteplici lacci. Fu così che io preferii seguire nel miglior modo possibile la vita cenobitica, invece che snervarmi in quella professione sublime, sotto gli assalti continui delle necessità della carne. È vero che così facendo non avrei più goduto la libertà e le estasi di un tempo, ma avrei avuto la consolazione di adempiere quel comando del Signore che dice di non darsi premura per il domani. La perdita di una contemplazione tanto elevata avrebbe avuto il suo compenso nell’umiltà dell’obbedienza. A me pare una cosa inammissibile fare professione di un’arte o di una disciplina senza rendersi perfetti in essa. Ora vi dirò brevemente quanti vantaggi io trovi nella vita cenobitica. Voi stessi, a narrazione finita, giudicherete se le bellezze della vita cenobitica valgano a compensare le meraviglie già dette, a proposito della solitudine. Dalle mie parole potrete anche intendere se è stato il disgusto o il disprezzo della solitudine a persuadermi di chiudermi nell’angustia di questo cenobio. Qui nella vita cenobitica, non c’è alcun bisogno di misurare il lavoro quotidiano, non ci son le noie del vendere e del comprare, non c’è il pensiero di procurarsi il pane per tutto l’anno, non esiste l’ansia delle cose temporali, per provvedere alle necessità proprie e a quelle dei visitatori che possono arrivare; finalmente qui non c’è alcuna ricerca di quella gloria umana che davanti a Dio è più sconveniente di tutto il resto, e talvolta rende vane tutte le grandi fatiche che si sopportano nel deserto. Ma lasciamo da parte le tempeste di superbia e i pericoli di vana gloria che tanta parte hanno nella vita eremitica: torniamo al peso comune a tutti, che è quello di provvedere il vitto quotidiano. In questo campo, non dirò che sono stati varcati i confini dell’antica disciplina, alla quale era ignoto l’uso dell’olio, ma non si è più contenti neppur della misura introdotta in tempi di recente rilassamento. Fin qui un orciolo d’olio e uno staio di lenticchie bastavano un anno intero per far onore agli ospiti; ora si è passati ad una misura doppia e tripla, e molti si lamentano perché trovano che la misura è scarsa. Alcuni poi sono andati molto al di là di questa funesta delicatezza. Ora non si accontentano più di quella goccia d’olio che i nostri antichi (tanto superiori a noi nel rigore dell’astinenza) mescolavano con l’aceto nella salsa, allo scopo unico di evitare la vanagloria. Ecco che per soddisfare la gola, ora si spezza in due parti la forma di cacio egiziano e ci si versa olio più del necessario. Così, due cibi, fra loro diversi e che potrebbero in due tempi soddisfare delicatamente la ghiottoneria del monaco, si uniscono in una volta a soddisfare la gola. Questa yliké ktésis, cioè questa caccia alle cose temporali, è cresciuta a tal segno che gli eremiti (lo dico arrossendo di vergogna) con la scusa dell’ospitalità e dell’accoglienza da fare ai visitatori, hanno incominciato a possedere nelle loro celle un abito di ricambio. Passerò sotto silenzio molte altre cose che son particolarmente nocive ad un’anima tutta attenta e intenta alla contemplazione spirituale: visite frequenti da parte dei confratelli, i doveri di accoglienza e di compagnia, la restituzione delle visite, il cicaleccio delle conversazioni, e il disbrigo di affari che, anche quando sono giunti a termine, continuano a distrarre l’anima con le preoccupazioni che vi lasciano. Avviene così che la libertà del deserto viene come imprigionata da queste catene. Il cuore non si innalza mai a quella gioia che abbiamo descritta, e non arriva più a godere il frutto della professione eremitica. Se quel frutto ora non è più concesso a me, che vivo in una comunità cenobitica, in mezzo ad una folla di confratelli, non mi mancano tuttavia la pace del cuore e la tranquillità di un’anima libera da qualsivoglia preoccupazione. Quelli che ora godo sono doni così preziosi che devono possederli anche coloro che vivono nel deserto; se non li avessero, praticherebbero la vita eremitica e tutti i suoi rigori, senza ricavarne alcun frutto. La solitudine giova solo quando sia accompagnata da una quiete imperturbabile dello spirito. Infine dirò che, sebbene nella vita del cenobio mi sia tolto qualcosa della purezza di cuore goduta nel deserto, trovo un compenso soddisfacente nella pratica dell’abbandono in Dio, che è grande comando del Vangelo. Tutti i vantaggi della solitudine non superano certamente quello di non aver preoccupazioni per il domani, e l’altro di potersi sottomettere continuamente alla guida di un abate, per imitare in qualche modo Colui del quale è scritto: «Si è umiliato e si è fatto obbediente fino alla morte» (Fil 2,8). Posso inoltre ripetere, nella mia umiltà, le parole stesse del Signore: «Non son venuto a fare la mia volontà, ma quella del Padre che mi ha mandato» (Gv 6,38). VII. – Domande sui frutti prodotti dalla vita comune e da quella solitaria Germano. È chiaro che tu, venerabile Giovanni, non hai soltanto sperimentato gli inizi di queste due forme di vita monastica, (cosa che fanno molti) ma hai raggiunto le vette, percorrendo ambedue le vie. Vorremmo ora che tu ci spiegassi qual è il fine del cenobita, quale quello dell’eremita. Nessuno certo è più indicato, per trattare in maniera chiara e completa questo tema, di colui che una lunga pratica e gli insegnamenti dell’esperienza hanno reso perfetto nell’una e nell’altra professione. Costui può insegnare con dottrina vera e sincera il merito e il fine delle due forme di vita. VIII. – Risposta alle domande Giovanni. Sarei tentato di affermare che una stessa persona non può essere perfetta nell’una e nell’altra professione, se non ci fossero alcuni esempi — anche se molto rari — ad impedirmelo. È già cosa meravigliosa trovare uno che sia perfetto nell’una o nell’altra forma di vita; quanto più sarà difficile — se non proprio impossibile — trovare chi sia eccellente nelle due forme allo stesso tempo! Quando poi il fatto si avvera, non se ne può subito trarre una regola generale. Una qualsiasi regola generale non si fonda sull’osservazione di pochi casi, né sull’esame di alcuni fatti; si fonda invece su ciò che è possibile a molti, o, meglio ancora, a tutti. Se certi risultati sono ottenuti molto raramente e da pochissimi, se superano le possibilità comuni e sembrano concessi come doni superiori alla natura e alla fragilità umana, questi risultati non possono essere imposti come comandi generali: vanno citati più come miracolo che come esempio. Per questo io risponderò brevemente, e secondo la mia debole capacità, alla domanda che mi avete rivolto. Il fine della vita cenobitica è quello di mortificare e crocifiggere la propria volontà; ciò senza preoccuparsi minimamente del domani, secondo il comando salutare della perfezione evangelica. Una tale perfezione non può essere raggiunta da alcuno che non sia un cenobita. Di questo monaco il profeta Isaia tesse il seguente elogio: «Se ti asterrai dal profanare il sabato e dal trattare i tuoi interessi in quel giorno santo, se chiamerai tua delizia il sabato, e venerabili le cose del Signore; se tu lo santificherai senza seguire le tue vie, i tuoi affari preferiti e i tuoi interessi, allora potrai riporre le tue delizie nel Signore e io ti condurrò trionfante fin sulle vette del paese, ti farò godere dell’eredità di tuo padre Giacobbe. Così ha parlato la bocca del Signore» (Is 58, 13-14). La perfezione dell’eremita, invece, consiste nell’avere l’anima sgombra da tutte le cose terresti e nell’unirsi a Cristo nella più alta misura concessa all’umana debolezza. Dell’eremita così parla il profeta Geremia: «È bene per l’uomo che porti il suo giogo fin dalla giovinezza, se ne stia solitario, in silenzio, quando il Signore lo porrà su di lui» (Lam 3, 27-28). E il salmista aggiunge: «Somiglio a un pellicano del deserto, son pari a un gufo in mezzo alle macerie. Io veglio insonne, divenuto eguale a un passero solitario sopra il tetto» (Sal 102 (101), 7-8). Se cenobita ed eremita non giungono al fine della loro professione, secondo i caratteri da noi descritti, invano hanno rispettivamente abbracciato la disciplina cenobitica e la vita solitaria. Né l’uno né l’altro adempierà in pieno la bellezza della sua vocazione. Ma quella descritta finora è una perfezione meriké, cioè non intera e non consumata: è una parte della perfezione. È dunque vero che la perfezione totale è rara e son pochissimi quelli ai quali, Dio la concede per suo dono gratuito. È veramente e integralmente perfetto colui che sa sopportare con eguale magnanimità l’orrore della solitudine nel deserto e le debolezze dei confratelli in un monastero. Ma quanto è difficile trovare uno che sia perfettamente consumato nell’una e nell’altra professione! L’eremita, di solito, non raggiunge la perfetta actemosìne, cioè il completo disprezzo, il vero spogliamento delle cose materiali; il cenobita non raggiunge la purezza della contemplazione. Io so però che gli abati Mosè, Pafnuzio e i due Macari (d’Egitto e d’Alessandria), hanno avuto in grado perfetto l’una e l’altra virtù. Essi erano perfetti nelle due professioni. Più di tutti gli altri abitanti del deserto stavano ritirati, e si pascevano insaziabilmente del segreto della solitudine; per quanto dipendeva da loro non cercavano mai contatti col resto degli uomini. Ma nello stesso tempo sopportavano mirabilmente la presenza e la debolezza di coloro che li andavano a cercare da ogni parte, fosse per una semplice visita, fosse per essere aiutati a progredire spiritualmente. Sopportavano il continuo incomodo di queste innumerevoli visite con pazienza inalterabile, cosicché si sarebbe detto che in tutta la loro vita non avevano imparato o esercitato altro ufficio all’infuori di quello di accogliere ospiti e fare ad essi gli onori consueti. A tutti era difficile stabilire in quale professione rifulgesse meglio il loro zelo, o se la loro grandezza d’animo si adattasse di più con la purità eremitica o con la vita cenobitica. Alcuni, dopo esser vissuti a lungo nel silenzio della solitudine, diventano talmente selvatici che hanno in orrore il consorzio umano. Quando, per la visita di qualche confratello, sono staccati momentaneamente al loro abituale silenzio, ne mostrano una contrarietà evidente e danno prova sicura di pusillanimità. E questo effetto capita soprattutto in coloro che passarono troppo presto alla vita eremitica, senza essersi prima ben formati nei monasteri dei cenobiti, e senza essersi liberati dai loro antichi vizi. Costoro rimangono imperfetti nell’uno e nell’altro stato: sempre fragili, sempre pronti a cadere là dove li spinge il soffio della commozione. Quando sono nel cenobio, la compagnia e la conversazione dei confratelli li fanno ribollire di impazienza; nella solitudine, invece, non sanno sopportare l’immensità del silenzio che prima desideravano. C’è di più: essi non sanno neppure per quale scopo la solitudine dev’essere desiderata e cercata. Credono che la virtù eremitica, il colmo di questa professione, consista unicamente nell’evitare la compagnia dei confratelli, nel detestare la vista degli uomini. Germano. Quale rimedio potresti consigliare a noi (e ad altri deboli e sventurati come noi) che abbiamo preso la via del deserto con una formazione cenobitica insufficiente, prima d’aver estirpato tutti i nostri vizi? Come potremo imparare la costanza imperturbabile della mente, la fermezza immobile della pazienza; noi che abbiamo troppo presto abbandonato i monasteri, i quali sono scuole e palestre di tali virtù? Era là — lo comprendiamo — che dovevamo incominciare e portare a termine la nostra prima educazione. Ma ora che siamo eremiti, in qual modo possiamo raggiungere la perfezione della longanimità e della pazienza? Come può fare la coscienza che esplora i movimenti interiori, a scoprire se noi possediamo o no queste virtù? Non c’è da temere che, per essere separati dal consorzio umano e per non aver mai da sopportare qualche molestia da parte degli uomini, finiamo col persuaderci e col credere scioccamente di esser arrivati ad una irremovibile tranquillità di spirito? XII. – Risposta sul modo in cui il solitario può conoscere i suoi vizi Giovanni. A coloro che cercano sinceramente la guarigione, non possono mancare i rimedi e le cure del vero Medico delle anime. Soprattutto non possono mancare i rimedi a coloro che non disprezzano i loro mali per scoraggiamento o negligenza, che non nascondono il pericolo delle loro ferite, che non disprezzano superbamente il medicamento della penitenza, ma ricorrono con cuore umile e vigilante al Medico divino, per curare i mali che hanno contratto per ignoranza, per errore, o per necessità. Dobbiamo tuttavia ben ricordare che se ci ritiriamo nel nostro deserto, o in altri luoghi segreti, prima d’avere estirpato i nostri vizi, riusciremo ad impedire gli effetti dei vizi stessi, ma non avremo estinto la passione da cui nascono. La radice dei peccati rimane nascosta dentro di noi, anzi va crescendo continuamente, finché non l’avremo completamente estirpata. E questi sono i segni da cui si potrà giudicare che quella radice non è morta. Ecco qualche esempio. Noi stiamo nel deserto e viene un fratello che si trattiene un poco. Se non siamo capaci di sopportarlo senza un certo nervosismo, è segno che c’è ancora in noi un focolaio assai pericoloso d’impazienza. Se invece attendiamo la visita di un confratello, e quello per un motivo qualunque ritarda, supposto che uno sdegno represso ci fomenti nel cuore, che tra noi condanniamo quel ritardo, che l’anima nostra si turbi per l’attesa non gradita: un attento esame di coscienza dovrà convincerci che le radici dell’ira e della tristezza rimangono ancora in noi. Un altro caso: un fratello ci chiede un libro per leggerlo, o qualche altra cosa per adoperarla; supposto che la sua domanda ci rattristi, o che neghiamo quanto ci è domandato, non c’è alcun dubbio che siamo legati dai lacci dell’avarizia. E ancora: un pensiero che ci sorge improvviso durante la lettura sacra porta alla memoria l’immagine di una donna; se noi proviamo qualche turbamento carnale, è segno che il fuoco della lussuria non è ancora spento nelle nostre carni. Se confrontiamo la nostra austerità con la vita facile degli altri, e un moto appena percettibile di compiacenza ci sorge nel cuore, è segno certo che siamo infetti dalla peste nefasta della superbia. Quando scopriamo nei nostri cuori i segni di questi vizi, dobbiamo ammettere che siamo immuni dall’effetto del peccato, non già dall’affetto al peccato. E queste passioni, se ci mescoliamo un poco alla vita degli altri uomini, improvvisamente erompono dalla caverna del nostro cuore. Ecco la prova che esse non nascono nel momento in cui erompono dal nostro cuore; no: esse si manifestano in quel momento, ma dopo essere rimaste lungamente allo stato latente. In tal modo ogni eremita può scoprire, per segni sicuri, se la radice di questo o di quel vizio esiste in fondo al suo cuore. Basta che egli non ostenti la sua purezza, davanti agli uomini, ma si studi di presentarla inviolata agli occhi di Colui che vede anche i segreti più riposti del cuore. XIII. – Domanda: Come potrà guarire colui che è entrato nella vita eremitica prima di essersi purificato dai vizi. Germano. I segni dai quali si possono indovinare le nostre infermità; i metodi per discernere le nostre malattie, in parole più chiare: i modi per scoprire i vizi nascosti nel nostro intimo, li conosciamo chiaramente e facilmente. L’esperienza quotidiana, i moti che sorgono ad ogni istante nell’anima nostra, ci fanno concludere che le cose stanno proprio come tu dici. Ora rimane, venerabile Giovanni, che dopo averci scoperto in modo così chiaro la causa dei nostri mali e il mezzo per riconoscerli, tu ci mostri anche il rimedio per guarirli. Nessuno dubita che il più indicato a parlare del rimedio dei mali è colui che prima ha scoperto le loro cause e le loro fonti, e le ha scoperte in modo così chiaro da convincere della sua diagnosi gli stessi ammalati. Il fatto che la tua beatitudine abbia scoperto le nostre più segrete magagne, ci lascia sperare che tu vorrai darci anche l’indicazione dei rimedi. Una diagnosi così chiara del male, fa sperare il suggerimento di un efficace rimedio. Tuttavia, siccome l’opera della nostra salute incomincia nella vita comune del cenobio — come hai detto prima — e le anime restano sane nel deserto, solo se la disciplina cenobitica le ha precedentemente sanate, noi siamo mortalmente feriti da un pensiero. Potremo noi, che siamo usciti dal cenobio ancora imperfetti, raggiungere la perfezione nel deserto? XIV. – Risposta sul tema proposto Giovanni. A chi desidera guarire dai suoi mali i rimedi non potranno mai mancare. Ecco: con lo stesso metodo col quale si scoprono i segni del vizio, si scoprono anche i rimedi da apportare. Abbiamo detto che gli eremiti non sono immuni dai vizi che colpiscono la vita ordinaria degli uomini; ora dobbiamo dire che anche per coloro che vivono segregati dal consorzio umano, non mancano i mezzi per esercitarsi nella virtù e per giungere alla sanità dello spirito. Appena un solitario, per i segni che abbiamo descritto qui sopra, si accorge di essere scosso dai fremiti dell’impazienza e dell’ira, prontamente si eserciti nei pensieri contrari. S’immagini di essere fatto bersaglio ad ogni genere d’ingiurie e di provocazioni, si abitui a sopportare con perfetta umiltà tutto ciò che l’umana malizia potrà escogitare contro di lui. Si ponga spesso dinanzi agli occhi le prove più crudeli e insopportabili; poi — tutto pervaso da pensieri di profonda contrizione — si metta a meditare quale grande dolcezza abbia il dovere di praticare la pazienza in simile circostanza. Col pensiero rivolto ai dolori tollerati dai santi e a quelli del Signor nostro Gesù Cristo, quel monaco riconoscerà che le offese e i castighi di ogni genere sono inferiori a ciò che meriterebbe. In tal modo si preparerà a sopportare qualsiasi prova. Supponiamo che il nostro eremita venga invitato un giorno ad un convegno di confratelli, la qual cosa, prima o poi, capita anche agli eremiti più rigorosi. Se l’invitato si accorge che il suo spirito si è turbato per questo avvenimento, (e si sarebbe evidentemente turbato per cause futili), diventi subito giudice severissimo dei suoi movimenti interiori. Si richiami immediatamente alla memoria le durissime ingiurie con la meditazione delle quali, nei giorni precedenti, si esercitava alla pazienza; condanni se stesso e, parlando a se medesimo in tono di rimprovero, dica così: sei tu quel brav’uomo che, mentre si esercitava nel deserto, s’illudeva di vincere tutti i mali con la sua costanza? Sei tu quel tale che poco fa, mentre andava immaginandosi tutte le più crudeli offese e persino i supplizi più atroci, si riteneva così forte da restare immobile tra le più furiose tempeste? Come va che la tua pazienza incrollabile ha tremato dalle fondamenta per il suono di una semplice parola? Come ha fatto un piccolo soffio di vento a far tremare la tua casa? Eppure tu eri convinto di averla costruita sopra una pietra solidissima, e di averla elevata in una mole ragguardevole. Dov’è andato quel coraggio che ti faceva desiderare il combattimento mentre eri in pace, e ti faceva dire con falsa sicurezza: «Sono pronto e non ho paura»? (Sal 119 (118), 60) Tu dicevi pure le parole del profeta: «Mettimi a prova, o Dio, fa esperimento su me, scruta al crogiuolo le mie reni e il cuore» (Sal 26 (25), 2). Oppure «Scrutami, o Dio, e conosci il mio cuore, fa di me prova e sappi quel che io sento. Vedi se io vado per la strada del male, guidami tu nella via degli antichi» (Sal 139 (138), 23-24). Com’è che questo immenso schieramento di forze ha tremato davanti all’ombra di un nemico? Mentre condanna se stesso con questi rimproveri improntati al pentimento, il solitario non lascia impunito il moto di passione che l’ha sorpreso. Ma c’è di più: costui castigherà duramente la sua carne con le veglie e coi digiuni, farà penitenza, nell’austerità del digiuno, per la colpa derivata dalla sua debolezza. In tal modo, quel che avrebbe dovuto pienamente sradicare nella vita cenobitica, lo consumerà nella solitudine: col fuoco di questi esercizi. Una cosa è fuori dubbio: chi vuol giungere ad una pazienza continua e ferma, deve tenere questo principio inconcusso: noi, per legge del Signore, non solo non abbiamo il diritto di vendicare le offese ricevute, ma non abbiamo neppure il diritto di ricordarle. A noi è proibito adirarci, qualunque sia il danno o la provocazione che ci coglie. Quale danno ci potrebbe capitare, che superi quello di essere privati (per l’accecamento in cui ci precipita l’ira) dell’illuminazione della luce vera ed eterna, e della contemplazione di Colui che è «dolce ed umile di cuore»? (Mt 11,29). Vorrei domandarvi: che cosa c’è di più dannoso e di più turpe che vedere un uomo perdere il senso della dignità, la regola e la disciplina della discrezione, per fare, da sano e mentre è in senno, ciò che neppure in stato di ubriachezza potrebbe permettersi? Se uno ben considera questi ed altri danni del genere, non solo sopporterà tutte le offese, ma anche le ingiurie e le pene d’ogni sorta, siano pure le più crudeli, che potranno venirgli da parte degli uomini. E la ragione è che l’uomo riflessivo vedrà come niente è più dannoso dell’ira, niente è più prezioso della tranquillità dell’anima e della purità del cuore. Per una tale perla, meritano d’essere disprezzati, non solo i beni carnali, ma anche quelli che sembrano spirituali: supposto che non si possano acquistare e conservare senza mettere in pericolo la tranquillità del cuore. Germano. Ci hai insegnato fin qui a combattere molte passioni, come l’ira, la tristezza, l’impazienza; ci hai anche suggerito i rimedi atti a guarire quei vizi. Ma noi vorremmo ora che tu c’istruissi anche sul genere di cura da applicare contro lo spirito di fornicazione. Ecco la nostra domanda: il fuoco della concupiscenza carnale, si può spegnere usando a modo di rimedio la considerazione dei suoi eccessi, come si è fatto per gli altri vizi? Questa tattica, a nostro avviso, sarebbe molto contraria alla virtù della castità; non solo quando potenziasse in noi gli ardori della libidine, ma anche quando ci facesse leggermente fermare su immaginazioni di questo genere. XVI. – Risposta: da quali segni si può riconoscere la castità Giovanni. La vostra intelligente domanda ha proposto un argomento al quale il nostro discorso già tendeva per sua natura: io ne avrei parlato anche se voi non me l’aveste chiesto. Ora son certo che voi comprenderete perfettamente tutta la questione che tratteremo: me ne assicura il fatto che l’acutezza del vostro ingegno ha preceduto la mia proposta. Non si prova fatica ad illustrare la oscurità di un problema quando l’interrogante anticipa la soluzione, e va spontaneamente verso quel punto al quale dovrebbe essere guidato. Per emendare i vizi dei quali abbiamo parlato, la vicinanza degli uomini non è affatto nociva; può al contrario offrire dei grandi vantaggi. Nel contatto col prossimo si manifesta più spesso il vizio dell’impazienza; ma se aumentano le esplosioni di quella passione, aumentano anche gli atti di dolore e di penitenza. Così la guarigione del male diventa più sollecita. Questa è la ragione per cui noi abitatori del deserto — che non troviamo negli uomini occasioni e provocazioni a perder la pazienza — dobbiamo a bella posta procurarci degli stimoli irritanti, per affrettare la nostra completa guarigione attraverso un combattimento ininterrotto. Quando però si tratta dello spirito di fornicazione, la tattica da seguire è diversa, come diversa è la fonte da cui quella passione scaturisce. Infatti, come è opportuno sottrarre al corpo ogni atto libidinoso e ogni vicinanza carnale, così è necessario sottrarre all’anima perfino il più piccolo ricordo di queste brutture. Sarebbe cosa davvero pericolosa, per anime deboli e malate, accettare anche la più piccola idea riguardante questa passione. Il pericolo è talmente grave che qualche volta il semplice ricordo di sante donne, o qualche passo della sacra Scrittura, possono bastare ad eccitare lo stimolo del piacere peccaminoso. Per questo motivo i nostri anziani son soliti sorvolare su certi passi del Libro Sacro, quando son presenti dei giovani. Quelli poi che son perfetti, e già consumati nell’amore della castità, troveranno prove sufficienti per mettersi alla prova ed esaminarsi. Essi potranno in tal modo rendersi conto dell’integrità del loro cuore, attraverso la testimonianza incorruttibile della coscienza. Concludiamo dunque che soltanto il solitario giunto ormai alla perfezione — soltanto lui — potrà mettersi alla prova riguardo a questo vizio con la stessa tattica che si usa per gli altri. Costui, dopo essersi convinto di aver estirpato fino in fondo le radici di questo male, potrà concepire nella mente qualche immaginazione scabrosa, allo scopo di mettere alla prova la sua castità. Ma questa prova non può assolutamente essere tentata da parte di coloro che sono ancora deboli. Non debbono costoro pensare a contatti muliebri, a carezze tenere e voluttuose: ciò sarebbe più nocivo che utile. Quando un solitario perfettamente fondato nella virtù non proverà alcun turbamento dell’anima, alcun pericolo di consenso, alcuna ribellione della carne, al pensiero di atti e gesti lubrici, avrà la prova certa della sua purezza. Esercitandosi allora in questa solida castità, non soltanto possederà il tesoro della purezza e della incorruttibilità nell’intimo dell’anima sua, ma, se la necessità stessa lo obbligherà ad avere contatto con qualche donna, ne proverà orrore. A questo punto l’abate Giovanni, essendosi accorto che era ormai vicina l’ora nona, cioè l’ora del pasto, pose fine alla sua conferenza. CONFERENZA DELL’ABATE PINUFIO SULLA FINE DELLA PENITENZA E SUI SEGNI DELLA SODDISFAZIONE Indice dei capitoli I. Umiltà dell’abate Pinufio e suo nascondimento. II. Il nostro arrivo alla sua cella. III. Domanda sul termine della penitenza e sui segni di soddisfazione. IV. Risposta sull’umiltà della nostra interrogazione. V. Modo della penitenza e prova del perdono. VI. Domanda; è bene ricordare le colpe passate, allo scopo di alimentare la compunzione del cuore? VII. Risposta: fino a quando sia da conservare il ricordo delle colpe commesse. VIII. Le varie forme della penitenza. IX. Ai perfetti è utile la dimenticanza dei loro peccati. X. Il ricordo dei peccati più orribili è da evitare. XI. Il segno della soddisfazione e dell’abolizione dei peccati passati. XII. In che senso la penitenza ha un fine e in che senso è senza fine. I. – Umiltà dell’abate Pinufio e suo nascondimento Accingendomi a riferire gl’insegnamenti dell’abate Pinufio a proposito della penitenza, mi parrebbe di mutilare il mio discorso, qualora non spendessi qualche parola in lode dell’umiltà straordinaria di quest’uomo illustre e veramente unico. È vero che su Pinufio ho già detto qualcosa nel quarto libro delle Istituzioni Monastiche, che s’intitola: « Del modo di formare coloro che rinunciano al mondo ». Ma tutta la voglia che ho di non annoiare i lettori, non mi permette ora di tacere del tutto. Penso anche che molti leggeranno questa Conferenza senza aver letto prima, né leggere dopo, il libro delle Istituzioni ricordato sopra; mi parrebbe quindi di togliere qualcosa all’autorità dell’insegnamento se nascondessi il merito di colui che insegna. Pinufio dirigeva, con autorità d’abate e di prete, un grande monastero vicino a Panefisi, che è — come spiegavo nelle Istituzioni — una città egiziana. Virtù e miracoli avevano reso celebre questo monaco in tutta la regione; l’avevano anche innalzato a tal grado di gloria che egli credeva d’aver già ricevuto, nelle lodi degli uomini, il premio delle sue fatiche. Per timore che il grande (ma temuto) favore popolare avesse a togliergli il frutto della ricompensa eterna, fuggì di nascosto dal suo monastero e si ritirò nell’eremo abitato dai monaci di Tabenna. Egli non cercava la solitudine riposante, non la tranquillità della vita solitaria, quella tranquillità che, mossi da superbia, talvolta cercano anche i monaci imperfetti, stanchi di praticare l’obbedienza nei monasteri di vita cenobitica. No: Pinufio cercava il giogo della vita comune in quel celebre monastero. Per timore che il suo abito di monaco lo tradisse, indossò vesti secolaresche e andò a mettersi davanti alla porta di quel monastero. Là fu lasciato per molti giorni, secondo un uso proprio a quei monaci. Si prostrò ai piedi di tutti e dovette sostenere molte villanie che gli venivano inflitte per mettere alla prova la sua vocazione. Lo accusavano di essersi rivolto alla vita monastica quand’era ormai alla fine dei suoi giorni, gli rinfacciavano che era stato il desiderio di procacciarsi il pane a buon mercato il motivo della sua richiesta, sostenevano insomma che non abbracciava sinceramente la santità della vita monastica. C’era in quel monastero un giovane monaco addetto all’orto, Pinufio gli fu dato come aiuto. Il vecchio abate faceva tutto ciò che gli comandava il suo superiore, o che stimasse richiesto dal suo ufficio; e lo faceva con tanta umiltà da far nascere in tutti meraviglia. Di più. Pinufio lavorava anche la notte, per fare certi servizi necessari, ma che gli altri monaci non volevano fare, a motivo del disgusto che ne provavano Avveniva così che al mattino tutta la comunità rimaneva meravigliata nel veder fatto quel lavoro, senza sapere chi fosse stato a compierlo. Avendo passato allegramente quasi tre anni nelle fatiche più dure e nella sottomissione più assoluta, un monaco che lo conosceva, e che era, come lui, partito dalla provincia d’Egitto, venne a quel monastero. Subito e senza sforzo riconobbe Pinufio, ma gli abiti di cui lo vedeva vestito e gli uffici vili che gli vedeva sbrigare, lo fecero rimanere a lungo esitante. Lo osservò ancor meglio finché un giorno tutti i dubbi svanirono. Allora il monaco pellegrino cadde in ginocchio davanti a Pinufio. Sul principio gli altri monaci rimasero stupefatti, poi, quando fu rivelato il nome di colui che lo straniero onorava in modo tanto insolito — un nome la cui fama di eminente santità risuonava da ogni parte — alla meraviglia successe il dolore. Quei buoni monaci si dolevano e si vergognavano di aver usato in mansioni così basse un uomo d’altissimo merito, e per di più insignito della dignità sacerdotale. Pinufio però piangeva copiosamente e rimproverava al demonio invidioso di averlo così tradito. I confratelli gli si schierarono attorno come una guardia d’onore e lo ricondussero al suo monastero; però vi rimase poco. Offeso nuovamente dai segni d’onore resi alla sua dignità, salì di nascosto sopra ima nave e salpò alla volta della Palestina, provincia della Siria. Là fu ricevuto, come principiante e novizio, nel monastero in cui vivevamo Germano ed io, e l’abate comandò che abitasse con noi nella stessa cella. Scoperto ancora, come la prima volta, fu ricondotto al suo monastero con i più grandi segni d’onore che si possano immaginare. Così, per gli altri anni, fu costretto ad essere quello che veramente era. II. – Il nostro arrivo alla sua cella Quando, poco tempo dopo, il desiderio di essere istruiti nella scienza dei santi, obbligò anche noi ad emigrare in Egitto, ricercammo Pinufio con immenso affetto e desiderio di rivederlo. Ci ricevette con tanto amore che ci volle alloggiare, come vecchi compagni di cella, in una capanna che si era costruito nell’angolo estremo del suo orto. In quella stessa capanna, ad un monaco che voleva porsi sotto il giogo della regola, Pinufio dette — in presenza di tutti gli altri monaci — quegli insegnamenti austeri e sublimi che ho riferito con la più grande brevità nel quarto libro delle Istituzioni. Quando giungemmo da lui, le vette della vera rinunzia ci sembravano tanto incomprensibili e tanto sublimi, da credere che la nostra miseria non avrebbe mai potuto raggiungerle. Abbattuti dallo scoraggiamento e palesando nel volto l’amarezza che c’invadeva il cuore, ricorremmo al santo vecchio con l’anima in tumulto. Egli, senza porre tempo in mezzo, domandò quale fosse la causa della nostra grande tristezza. Germano gli rispose così, sospirando profondamente. III. – Domanda sul termine della penitenza e sui segni di soddisfazione Il tuo discorso ci ha scoperto una scienza sconosciuta, ci ha mostrato la via ardua della più sublime rinuncia. Diradando le nubi che in certo modo oscuravano la vista, tu ci hai fatto ammirare una rinuncia che penetra con la sua cima fino in cielo. Ma quanto più bella e alta è stata la visione, tanto più profondo è lo scoraggiamento che ci assale. Quando confrontiamo la grandezza del compito che ci attende, con la pochezza delle nostre forze; quando paragoniamo la bassezza della nostra ignoranza, con l’altezza infinita della virtù di cui tu ci hai parlato, non solo ci sentiamo incapaci di arrivare fin lassù, ma temiamo di cadere anche da quel grado in cui ora ci troviamo. Sì: oppressi dal peso d’un immenso scoraggiamento, dalla bassezza in cui ci troviamo, roviniamo ancora più in basso. Una sola cosa, e di valore inestimabile, può aiutarci e portar rimedio alle nostre ferite: voglio dire qualche insegnamento sul termine della penitenza e soprattutto sui segni dai quali si può intendere che i nostri debiti con Dio sono annullati. Quando siamo certi che le colpe sono cancellate, acquistiamo coraggio per tentare la scalata alle vette della perfezione di cui ci hai parlato. IV. – Risposta sulla umiltà della nostra interrogazione Mi rallegro molto dei bei frutti di umiltà che trovo in voi. Già un’altra volta, quando fui ospite della vostra cella, potei ammirare le prove della vostra umiltà, ne fui commosso e ne concepii una stima non comune. Ora sono molto contento che voi riceviate aiuto da me, ultimo dei servi del Signore (per il quale l’audacia della parola è forse l’unico merito). Sono contento che riceviate da me qualche insegnamento. Le parole che vi dirò saranno da voi messe in pratica con uno zelo non inferiore a quello che me le detta: così vedo e credo per chiari segni. Sono certo che voi farete quanto io sto per dirvi: le vostre azioni saranno pari all’austerità delle mie parole. Tuttavia dovrete nascondere il merito della vostra virtù come se delle pratiche a cui vi applicherete ogni giorno non aveste mai sentito far cenno. La modestia con la quale confessate la vostra ignoranza circa i mezzi per raggiungere la santità — quasi che voi foste in questo campo gli ultimi arrivati — è degna di essere altamente lodata. Perciò io vi esporrò brevemente, e nel modo migliore possibile, quella dottrina che avidamente mi domandate. È dovere per me, in nome della nostra familiarità dei tempi passati, obbedire al vostro invito in modo da superare la mia stessa possibilità e capacità. Della potenza e del merito della penitenza hanno già parlato molti, sia a viva voce che per scritto. È stato detto quanto sia grande la sua utilità e quanto sia grande la virtù e la grazia che possiede. Se così mi è permesso esprimermi, dirò che la penitenza resiste a Dio, offeso dalle nostre colpe passate e pronto a scagliarci i castighi per i nostri delitti. La penitenza trattiene — se così posso dire — la mano punitrice di Dio. Penso che la vostra naturale perspicacia e lo studio continuo della sacra Scrittura vi abbiano rese familiari queste verità; credo che proprio di qui sia incominciata la vostra conversazione. Del resto, a voi non preme conoscere la natura della penitenza, ma il suo termine e i segni da cui si possa giudicare che tutto ciò che apparteneva al peccato è stato cancellato [i]. Voi domandate, con un quesito acutissimo ciò che gli altri hanno lasciato nell’ombra. V. – Modo della penitenza e prova del perdono Per soddisfare con brevità e chiarezza al desiderio da voi manifestato, diamo prima la definizione piena e completa di penitenza. La penitenza consiste nel non commettere più quei peccati dei quali ci pentiamo e dei quali la nostra coscienza prova rimorso. Il segno invece della soddisfazione, o del perdono ottenuto, consiste nell’aver cacciato via dal nostro cuore ogni affetto al peccato. Nessuno — sappiatelo bene — può ritenersi completamente libero dai suoi peccati passati finché l’immagine di quelle colpe, o di altre somiglianti a quelle, si mostra dinanzi al penitente e, pur non provocandogli compiacenze di sorta, ne infesta le parti segrete dell’anima. Perciò colui che veglia tutto intento ad ottenere la soddisfazione dei suoi peccati, potrà conoscere di essere stato assolto e perdonato dalle sue colpe, da questo segno: se il suo cuore non sarà più commosso neppure dal ricordo di quei vizi. Noi dunque portiamo, nella nostra coscienza, un giudice informatissimo sulla penitenza fatta e sul perdono ottenuto. Prima ancora del giorno del giudizio, mentre viviamo nella carne mortale, quel giudice ci manifesta l’assoluzione delle nostre colpe, il termine della soddisfazione, la grazia del perdono. Per riassumere tutto quel che ho detto in una forma più concettosa, dirò così: noi dobbiamo credere che le nostre colpe passate sono state rimesse, quando i desideri e i turbamenti dei piaceri terrestri saranno completamente cacciati via dai nostri cuori. VI. – Domanda: è bene ricordare le colpe passate, allo scopo di alimentare la compunzione del cuore? Germano. Ma se allontaniamo dal cuore il ricordo dei peccati, da dove ci verrà quella santa e salutare compunzione che è propria di uno spirito umile? Non è vero che la Scrittura ci presenta la compunzione con questi accenti attribuiti a un’anima penitente? « Ora confesso e non nego il mio peccato. A te dissi: mi confesso in colpa » (Sal 31,5-6). E come potremo dire le parole che seguono: « E tu gli empi miei falli perdonasti » (Sal 31,5-6)? E come faremo, prostrati in preghiera, ad eccitarci alle lacrime di una sincera confessione, per meritare il perdono dei nostri peccati, secondo quelle parole dei salmi: « Vo’ bagnando ogni notte il mio giaciglio, irrigo di lacrime il mio letto »(Sal 6,7)? A me pare, al contrario, che noi siamo obbligati ricordare tenacemente i nostri peccati; il Signore infatti comanda: « Io non mi ricorderò delle tue colpe, ma tu ricordale » (Is 43,25-26 LXX). Per questa ragione io sono solito richiamare alla mente i miei peccati, non solo mentre sto lavorando, ma anche quando prego. E così, più efficacemente sospinto verso la vera umiltà e la contrizione del cuore, trovo il coraggio per dire col profeta: « Osserva, Signore, la mia umiltà e il mio affanno, e perdona tutti i miei peccati » (Sal 24,18). VII. – Risposta: fino a quando sia da conservare il ricordo delle colpe commesse Pinufio. La vostra domanda, come è già stato detto sopra, non riguarda la natura della penitenza, ma il suo termine e i segni della soddisfazione. E se questa era la domanda, mi pare di aver dato una risposta conveniente e soddisfacente. Peraltro quel che avete detto sul ricordo dei peccati, è veramente utile e necessario, ma a coloro che fanno ancora penitenza. Tocca a loro battersi il petto e ripetere incessantemente: « Le mie colpe io riconosco, e il mio peccato sempre mi sta dinanzi » (Sal 50,5). E ancora: « Sto in angustia per il mio peccato » (Sal 37,19). Finché facciamo penitenza e sentiamo il rimorso delle nostre colpe, è necessario che le lacrime di un’umile confessione cadano come pioggia sull’anima nostra e spengano il fuoco accesovi dal peccato. Ma se uno è stato tanto tempo in questa umiltà del cuore e contrizione di spirito; se si è dato continuamente alle fatiche e ai gemiti, può darsi che alla fine il ricordo del male commesso si sia cancellato e che la spina del rimorso sia stata tolta dal midollo dell’anima, per una grazia della divina misericordia. Ecco il segno sicuro che quest’uomo è giunto al termine della soddisfazione e che ha conquistato la completa remissione: ogni macchia dei suoi peccati passati è tolta. A questa perfetta dimenticanza del male commesso si giunge soltanto con la estirpazione dei vizi e delle passioni della vita antecedente, con una perfetta e integrale purità di cuore. Nessuno di coloro che, per pigrizia o malizia, trascurano di correggere i loro vizi, potrà giungere a questa meta. Vi giungerà solo colui che, con lacrime, sospiri e penitenze continue, avrà tolto dal suo cuore fin la più piccola macchia dei suoi peccati passati, e potrà sinceramente dire al Signore, dal più profondo dell’anima: « Io ho manifestato il mio peccato, non ho cercato di nascondere la mia ingiustizia » (Sal 31,5). E ancora: « Le lacrime sono state il mio cibo, di giorno e di notte » (Sal 41,4). Costui, in risposta, meriterà di sentirsi dire: « Lascia di lamentarti, asciuga i tuoi occhi dal pianto, perché vi è un compenso alle tue pene » (Ger 31,16). E la voce del Signore gli dirà pure: « Ho fatto sparire le tue colpe come nubi, e come nebbia i tuoi peccati » (Is 44,22). Oppure: « Sono io che cancello le tue colpe e non ricordo più i tuoi peccati » (Is 43,25). Sciolta « dai lacci del peccato, nei quali ciascuno si trova legato » (Pr 5,22), l’anima canterà allora al Signore questo canto di ringraziamento: « Tu sciogliesti i miei ceppi. T’immolerò vittime di grazie » (Sal 115,16-17). VIII. – Le varie forme della penitenza Oltre alla grazia comune del battesimo, oltre al dono preziosissimo del martirio, che consiste nel versare il proprio sangue, ci sono ancora molti frutti di penitenza, maturando i quali si giunge alla espiazione delle colpe. La salvezza eterna non è promessa soltanto alla penitenza propriamente detta; voglio dire a quella penitenza di cui parla l’apostolo Pietro quando dice: « Fate penitenza e convertitevi, affinché i vostri peccati siano cancellati » (At 3,19). Neppure alla sola penitenza che predicarono il Battista e il Signore, quando dissero: « Fate penitenza perché il regno dei cieli è vicino » (Mt 3,2). Anche la carità è capace di togliere i più gravi peccati. Sta scritto: « La carità copre un gran numero di peccati » (1 Pt 4,8). Anche l’elemosina è una medicina alle nostre ferite spirituali, perché « Come l’acqua spegne il fuoco, così l’elemosina spegne la colpa » (1 Pt 3,33). Anche le lacrime hanno la virtù di togliere la lordura del peccato. Sta scritto infatti: « Vo’ bagnando ogni notte il mio giaciglio, irrigo di lacrime il mio letto » (Sal 6,7). E subito dopo, per dimostrare che quel pianto non è inutile, il salmista soggiunge: « Via da me, voi tutti, o malfattori, perché il Signore udì il grido del mio pianto » (Sal 6,9). Né bisogna dimenticare che anche la confessione dei peccati è un mezzo per cancellarli. Dice il Libro Sacro: « Confesso e non nego il mio peccato. Mi confesso in colpa. E tu gli empi miei falli perdonasti » (Sal 31,5). Oppure: « Racconta le tue iniquità per esserne perdonato » (Is 43,26: LXX). Il perdono dei peccati si ottiene altresì per mezzo dell’afflizione fisica e spirituale. Sta scritto a tal proposito: « Osserva, Signore, la mia bassezza e il mio affanno, e perdona tutti i miei peccati » (Sal 24,18). Soprattutto si ottiene il perdono di Dio correggendo la propria condotta. Dice il Signore: « Togliete dal mio sguardo la malizia dei vostri pensieri. Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, cercate la giustizia, aiutate l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, proteggete la vedova; poi venite e discutiamo insieme, dice il Signore. Se i vostri peccati sono come lo scarlatto, diventeranno bianchi come la neve; se sono rossi come la porpora, diventeranno come candida lana » (Is 1, 16-18). Talvolta anche l’intercessione dei santi ci ottiene il perdono dei nostri peccati: « Se uno vede il suo fratello commettere un peccato che non lo conduce alla morte, preghi, e Dio gli darà vita. Questo vale per coloro il cui peccato non conduce alla morte » (Gv 5,16). E altrove si legge: « Qualcuno di voi è infermo? Chiami gli Anziani della Chiesa, e gli Anziani preghino per lui; ungendolo con olio nel nome del Signore. La preghiera della fede salverà il malato e il Signore lo solleverà, e se ha commesso dei peccati sarà perdonato » (Gc 5,14-15). In certi casi la macchia del vizio viene tolta per merito della misericordia e della fede, secondo quella parola che dice: « Per la misericordia e per la fede sono mondati i peccati » (Pr 15,27). Spesso possiamo liberarci dalle nostre colpe convertendo e conducendo a salvezza, per mezzo della nostra predicazione, altri peccatori. Dice il Signore: « Colui che ricondurrà un peccatore dalla via del suo traviamento, salverà quell’anima dalla morte e coprirà la moltitudine dei propri peccati » (Gc 5,20). Possiamo in ultimo meritare il perdono delle nostre colpe dimenticando e perdonando le offese ricevute: « Se perdonerete agli uomini i loro falli, il vostro Padre celeste perdonerà anche a voi » (Mt 6,14). Vedete dunque quante porte ci ha aperto la bontà del Salvatore perché possiamo giungere al suo perdono. E ha fatto così perché nessuno di coloro che desiderano la salvezza si lasci vincere dallo scoraggiamento, visto che tanti rimedi lo invitano alla vita. Se per caso ti lamenti di non poter cancellare i tuoi peccati col digiuno, perché sei di salute malferma; se non puoi dire: « Sono fiacchi i miei ginocchi dal digiuno, e il mio corpo è scarno e dimagrito (Sal 108,24), perché di cenere io mi cibo come di pane e la mia bevanda mescolo col pianto » (Sal 101,10), potrai sempre riscattare i tuoi peccati con generose elemosine. Non hai nulla da dare ai poveri? Prima di tutto osserva che la scarsezza di denaro e l’indigenza più autentica non dispensano alcuno da quest’opera di misericordia: le due monetine della vedova evangelica furono preferite alle offerte grandissime dei ricchi; e per un bicchiere di acqua fresca il Signore promette di dare generosa ricompensa. Ma sia pur vero che tu sei povero; potrai sempre acquistare la perfezione della virtù con l’emendazione della tua vita. Se ti pare impossibile acquistar la perfezione della virtù sradicando tutti i tuoi vizi, puoi applicarti con pietosa sollecitudine a procurare la salvezza degli altri. Ti lamenti di non essere tagliato a questo ufficio? Potrai ricoprire i tuoi peccati con sentimenti di carità. C’è in te una certa debolezza che ti rende mal disposto anche a questo proposito? Con sentimenti di sincera umiltà puoi implorare la medicina contro i tuoi mali dalla preghiera e dalla intercessione dei santi. In ultimo, chi è che non possa dire in tono supplichevole: « Ho fatto conoscere il mio peccato, non ho nascosto la mia ingiustizia » (Sal 31,5)? Chi farà questa confessione potrà anche aggiungere: « E tu, Signore, hai perdonato l’empietà del mio cuore » (Sal 31,5). Se la vergogna ti impedisce di manifestare i tuoi peccati dinanzi agli uomini, puoi però confessarli incessantemente e supplichevolmente a colui che ti vede, e del quale ti è impossibile fuggire lo sguardo. A lui puoi dire: « Le mie colpe io riconosco, e il mio peccato sempre mi sta dinanzi. Contro di te soprattutto io ho peccato e ho commesso il male nel tuo cospetto » (Sal 50,5-6). Chi ascolta una tale confessione ci risparmia la vergogna di svelare ad altri i nostri peccati e ci perdona senza maltrattarci. Ma dopo questo mezzo di salvezza, così facile e così sicuro, la divina bontà ne ha preparato un altro ancor più facile. La scelta e l’efficacia di quest’altro rimedio è lasciata unicamente alla nostra libera volontà, cosicché la misura del perdono che ci viene accordato dipende dai nostri sentimenti di bontà verso il prossimo. Il Signore infatti ci ha insegnato a dire così: « Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori » (Mt 6,12). Chiunque desidera ottenere il perdono delle sue colpe, ne ha i mezzi: basta che si studi di usarli. Nessuno renda vano, per l’ostinazione del suo cuore indurito, un rimedio così salutare; nessuno si allontani da una fonte così abbondante di perdono. Già, perché non bisogna dimenticare che se non è la bontà e misericordia del Signore a perdonare i nostri peccati, tutte le opere che abbiamo enumerate fino ad ora non valgono a nulla. Dio, quando scorge in noi qualche segno di buona volontà, qualche ossequio che gli viene offerto con animo supplichevole, ricompensa questi nostri sforzi, piccoli e poveri, con una generosità senza limiti. « Sono io — egli dice — che cancello i tuoi peccati e non ricordo più le tue colpe » (Is 43,25). Ecco detto quale disposizione preliminare bisogna avere per ottenere il perdono delle colpe. In seguito, i digiuni ininterrotti, le mortificazioni dello spirito e della carne, ci otterranno la soddisfazione. Sta scritto infatti: « Senza spargimento di sangue non c’è remissione » (Eb 9,22). E questo è giusto, perché sta scritto ancora che « la carne e il sangue non possono possedere il regno di Dio » (1 Cor 15,50). Perciò, chiunque trattiene la spada dello spirito, che è la parola di Dio (Ef 6,17), e impedisce questa effusione di sangue, sarà colpito certamente dalla maledizione del profeta Geremia: « Maledetto chi rifiuta d’ immergere la sua spada nel sangue » (Ger 48,1). Questa è la spada che, con salutari ferite, fa sgorgare il sangue corrotto da cui nascono i peccati. Tutte le vegetazioni carnali o terrestri che trova nell’anima nostra le colpisce e le taglia. Ci fa così morire al vizio, per farci vivere a Dio, nel rigoglio delle virtù spirituali. Fatta che sia questa operazione, non è più il ricordo dei peccati commessi a far piangere il monaco, ma è invece la speranza della gioia futura. Allora l’anima, più intenta alla gioia futura che al male passato, non versa lacrime per il dolore d’aver peccato, ma per la contentezza dell’eterna gloria. Dimenticando « ciò che le sta dietro » (Fil 3,13) — cioè i vizi carnali — tutta si protende a « ciò che le sta dinanzi », cioè ai doni e alle virtù spirituali. IX – Ai perfetti è utile la dimenticanza dei loro peccati Quel che tu hai detto poco fa, caro Germano, cioè di richiamarti a bella posta il ricordo dei peccati passati, è una cosa che non va assolutamente. Anzi, se quel ricordo viene senza averlo cercato, bisogna subito cacciarlo via. Per tutti, ma specialmente per coloro che vivono nella solitudine, certi ricordi sono pericolosi: allontanano l’anima dalla contemplazione della purezza e la ravvolgono fra le brutture del mondo, cosicché viene quasi asfissiata dal fetore del vizio. Se tu ripensi le colpe commesse per ignoranza o per intemperanza, quando seguivi il principe di questo mondo, voglio ammettere che in questi pensieri tu non provi alcuna compiacenza peccaminosa. Ma se si tratta di lussuria, è certo che anche il semplice ricordo dell’antico marciume corrompe l’anima col suo insopportabile fetore e ne allontana il profumo spirituale delle virtù, cioè la soavità del buon odore. Perciò, quando il ricordo dei peccati passati tenta di entrare nella nostra mente, bisogna fuggirlo come un uomo serio e virtuoso fuggirebbe una donna di mala vita che lo affrontasse sulla pubblica piazza, per invitarlo a parole sconce e atti impudichi. Quest’uomo, se subito non si sottrae a quella vergognosa vicinanza, ma si ferma a rispondere anche per pochi momenti, non potrà fare a meno di perdere la sua buona fama e di meritare la condanna dei passanti, anche se non avrà acconsentito alle proposte che gli erano fatte. Anche noi quando un ricordo impuro ci vuol condurre a pensieri indegni, dobbiamo allontanarlo al più presto. Così metteremo in pratica il comando di Salomone che dice: « Esci subito, non ti fermare nella casa di una cortigiana, non posare gli occhi su di lei » (Pr 9,18: LXX):, altrimenti gli angeli che ci vedono occupati in pensieri impuri e vergognosi, non potranno dire — volando su noi — « La benedizione di Dio vi raggiunga » (Sal 128,8). È impossibile che l’anima s’intrattenga in buoni pensieri, se gli affetti principali del cuore son rivolti ad oggetti turpi e terreni. È vera la sentenza di Salomone che dice: « Se i tuoi occhi vedranno una donna straniera, la tua bocca dirà cose insensate, e tu sarai come un uomo coricato nel fondo del mare, come un pilota in mezzo ad una grande tempesta. Dirai allora: ”Mi hanno ferito e non ho sentito male, mi hanno canzonato e non me ne sono accorto” » (Pr 23,33-35). Dopo aver disprezzato tutti i pensieri turpi e persino quelli semplicemente terreni, l’acume della nostra mente dev’essere sempre rivolto alle cose celesti, secondo la parola del Signore: « Là dove sono io, sarà anche il mio ministro » (Gv 12,26). Avviene infatti spesso, alle persone di poca esperienza, che mentre ripensano le proprie colpe o quelle degli altri, (allo scopo lodevole di piangerle), avviene dico che la freccia sottilissima del consenso peccaminoso li ferisca. Per tal modo, ciò che era incominciato col pretesto della pietà, finisce nella oscenità e nella colpa: « All’uomo talora sembra retta la via che poi — lo creda o non — conduce alla morte » (Pr 16,25). X. – II ricordo dei peccati più orribili è da evitare Da quanto detto consegue che dobbiamo eccitarci alla santa compunzione piuttosto con la brama della virtù, col desiderio del regno dei cieli, che col ricordo dannoso dei vizi. Se uno pretende di stare sopra una fogna e frugarne le immondezze, sarà necessariamente corrotto da quelle esalazioni pestilenziali. XI. – Il segno della soddisfazione e dell’abolizione dei peccati passati Ripeto ora quel che ho detto più volte. Noi saremo certi di aver soddisfatto i nostri peccati quando i moti e gli affetti che a quei peccati ci sospinsero saranno scomparsi dal nostro cuore. Ma nessuno creda di poter ottenere questo effetto, se prima non avrà soppresso, con tutto il fervore dell’anima, ciò che fu occasione o causa delle sue colpe. Per esempio: se uno è caduto in peccato di fornicazione o di adulterio per l’eccessiva familiarità con donne, fugga con la più grande prontezza la stessa loro vista. Se invece si è lasciato trasportare a intemperanze nel mangiare e nel bere, combatta con rigorosa astinenza le attrattive della mensa. Potrà darsi che qualcuno sia caduto nel peccato di spergiuro, di furto, di omicidio o di bestemmia, per il desiderio smodato del denaro; costui dovrà allontanare da sé quegli oggetti che lo hanno ingannato sollecitando la sua avarizia. Chi dalla superbia è stato spinto al peccato d’ira, dovrà svellere la radice dell’orgoglio con la pratica di una profonda umiltà. E così di seguito. Per poter vincere un qualsiasi peccato bisogna prima trovare la causa o l’occasione che ce l’ha fatto commettere. Con la cura qui indicata si arriva infallibilmente alla dimenticanza delle colpe commesse. XII. – In che senso la penitenza ha un fine e in che senso è senza fine La dottrina sulla dimenticanza delle colpe, da me fin qui esposta, riguarda soltanto i peccati mortali dei quali parla anche Mosè nella Legge, per condannarli. Siccome la nostra buona vita allontana questi peccati dall’anima e ne estirpa le radici, è naturale che la penitenza e la deplorazione d’averli commessi abbiano un termine. Ma per quanto riguarda le piccole colpe, nelle quali secondo la Scrittura « il giusto cade sette volte e. si rialza » (Pr 24,16), dirò che la penitenza non deve cessare mai. In esse cadiamo più volte al giorno, talvolta volontariamente, altra volta involontariamente. Pecchiamo per ignoranza o per dimenticanza; in pensieri, o in parole; per inavvertenza, o per necessità; per la fragilità della carne, o per turbamento degli stessi sogni. Di questi peccati chiedeva al Signore purificazione e perdono il profeta David, quando pregava: « Ma dei peccati, chi se n’avvede? Da quelli che mi sfuggono assolvimi, o Signore » (Sal 18,13-14). E l’Apostolo dice: « Non faccio il bene che voglio, ma al contrario faccio il male che non voglio » (Rm 7,19). Per questo lo stesso Apostolo dice gemendo: « Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte? » (Rm 7,24). Noi cadiamo in queste colpe con tanta facilità che sembrano quasi una necessità di natura. Qualunque sia il grado di circospezione e d’attenzione che usiamo, non possiamo evitarli compietamente. Su tale argomento uno degli Apostoli, precisamente il prediletto del Signore, ha una parola molto forte: « Se diciamo di non aver alcun peccato, inganniamo noi stessi, e la verità del Signore non abita in noi » (1 Gv 1,8 e 10). Peraltro, chi desidera raggiungere il culmine della perfezione, non basta che sia arrivato a far a meno della penitenza, cioè ad astenersi da ciò che è proibito. Egli deve anche esercitarsi infaticabilmente e continuamente in quelle virtù dalle quali si può arguire di essere giunti alla piena soddisfazione delle proprie colpe. Non basta astenersi dalle colpe vergognose che Dio aborre, bisogna anche acquistare la purezza del cuore e la perfezione della carità di cui parla l’Apostolo. Bisogna possedere quel buon odore della virtù di cui si compiace il Signore. ★ Qui finì la conferenza dell’abate Pinufio sui segni della soddisfazione e sul termine della penitenza. Il buon abate insiste lungamente e affettuosamente per indurci a rimanere nel suo monastero, ma noi eravamo attratti dalla fama di un altro luogo: il deserto di Scito. Visto che non poteva trattenerci, Pinufio ci lasciò partire. NOTA [i] La questione che qui affronta Cassiano è di grande importanza. Si tratta di sapere come si cancellano quei segni — affezioni e disposizioni cattive — che il peccato lascia in noi. I teologi chiamano questi segni « Reliquiae peccati ». PRIMA CONFERENZA DELL’ABATE TEONA SUL RIPOSO DELLA QUINQUAGESIMA (DI PENTECOSTE) Estratto da “CONFERENZE AI MONACI“ Traduzione e note a cura di Lorenzo Dattrino, 2000, Città Nuova Editrice Prima di esporre l’argomento di questa conferenza che noi potremmo ascoltare da parte dell’illustre personaggio da me incontrato nella persona dell’abate Teona, ritengo necessario ricordare brevemente l’inizio della sua conversione, poiché proprio per questo appariranno al lettore con maggiore evidenza il merito e la grazia di quel personaggio. Egli, ancora in età giovanile, fu legato dall’autorevole premura dei suoi genitori al vincolo matrimoniale. Essi infatti, religiosamente solleciti della sua pudicizia, temendo il pericolo di una caduta connessa con le passioni di quell’età, ritennero di dover prevenire le tendenze proprie dell’adolescenza con il lecito rimedio delle nozze. Era trascorso ormai un buon quinquennio a fianco della moglie, quando egli giunse un giorno presso l’abate Giovanni, il quale in quel tempo presiedeva la diaconia alla quale era stato eletto in merito alla sua santità [1]. Infatti, a questo grado del servizio ecclesiastico non giunge chiunque per sua volontà e per sua ambizione, ma colui che il complesso di tutti gli anziani ha ritenuto più meritevole e più adatto di tutti per la prerogativa dell’età e per la testimonianza della fede e della virtù. Essendo dunque il suddetto giovane Teona giunto fino a questo beato Giovanni, indotto com’era dalla premura della sua pia devozione a recare i doni suggeriti dalla tradizione religiosa assieme agli altri possessori di terre, i quali a gara offrivano al suddetto vegliardo le decime e le primizie dei loro raccolti, il vegliardo, vedendo tutti costoro venuti fino a lui con molti doni e desiderando compensare la loro devota sollecitudine, prese a seminare argomenti spirituali, prendendo il motivo, secondo il costume dell’Apostolo (Cfr. 1 Cor 9, 11), dai doni d’ordine materiale a lui offerti. Infine rivolse loro le seguenti esortazioni. «Io mi compiaccio, o figli, della larghezza dei vostri doni e accolgo la devozione di quest’offerta, di cui mi è stata affidata la dispensazione, poiché voi avete presentato le vostre primizie e le vostre decime a beneficio dei bisognosi come un sacrificio al Signore di gradita soavità, ed è quanto esprimere la vostra fiducia che, con questa offerta, sarà abbondantemente benedetta la pienezza dei vostri frutti e di tutta la vostra proprietà, dalla quale avete ricavato questi doni da offrire al Signore, e che voi pure sarete riforniti dell’abbondanza di ogni bene anche in questo mondo in conformità alla fedeltà prestata al suo divino comandamento: ‘‘Onora Dio con il frutto delle tue giuste fatiche e offri a Lui i frutti della tua giustizia, affinché si riempiano abbondantemente di grano i tuoi depositi e i tuoi tini trabocchino di vino” (Pr 3, 9-10: LXX). Sappiate comunque che, stando fedelmente all’adempimento di una tale condotta, voi state in tutto all’osservanza della Legge antica: sappiate pure però che gli amichi, soggetti a quella Legge, nel trasgredirla, incorrevano inevitabilmente in una colpa, e che, nell‘osservarla, non potevano raggiungere l’apice della perfezione. In base al precetto del Signore, le decime erano destinate a beneficio dei leviti, le oblazioni e le primizie invece a benefìcio dei sacerdoti. Delle primizie questa era la norma: la quinquagesima parte dei frutti della terra e del bestiame doveva essere offerta al servizio del Tempio e dei sacerdoti; una tale misura però i meno ferventi, con la loro infedeltà, la abbassavano; i più religiosi invece l’accrescevano, per cui questi ultimi si attenevano alla sessantesima parte, gli altri alla quarantesima, I giusti infatti, per i quali non è dettata la legge (Cfr. Nm 18, 26; 5, 9-10), dimostrano di non essere sotto la Legge, in quanto non solo si sforzano di attenersi alla giustizia della Legge, ma di superarla in modo che così il loro adempimento risulta superiore all’imposizione legale al punto che, incrementando in tal modo la loro osservanza, essi aggiungono, all’obbligo già imposto, una propria volontaria osservanza. Noi leggiamo infatti che Abramo oltrepassò i precetti della futura Legge, quando, dopo aver vinto ben quattro re, nulla volle assolutamente riservarsi delle spoglie dei Sodomiti, che a lui appunto, perché vincitore, non immeritamente erano dovute, e questo proprio quando il re di Sodoma in persona gli offriva supplichevolmente quelle spoglie da lui stesso accumulate; fu allora che Abramo esclamò: “Alzo la mia mano davanti al Signore, il Dio altissimo, creatore del cielo e della terra: né un filo, né un legaccio del sandalo, niente io prenderò di tutto ciò che è tuo” (Gen 14, 22-23: LXX). Sappiamo che così Davide oltrepassò i precetti della Legge, allorché, pur avendo comandato Mosè che ai nemici fosse reso il cambio del “taglione” (contrappasso) [2], egli non solo non fece questo, ma, al contrario, trattò amorevolmente i suoi persecutori e per essi, rivolgendo pie suppliche al Signore, pianse pure amaramente e vendicò così gli uccisi (Cfr. 1 Re = 1 Sam 24; 2 Re = 2 Sam 1). Così pure possiamo dimostrare che anche Elia e Geremia non furono sottoposti alla Legge, poiché essi, pur potendo fare uso del matrimonio, preferirono restare nella professione della verginità. Leggiamo pure che Eliseo e altri, seguaci degli stessi intendimenti, superarono i precetti dettati da Mosè, ed è di essi che l’Apostolo così dichiara: “Andarono in giro coperti di pelli di pecora e di capra, bisognosi, tribolati, maltrattati, – di loro il mondo non era degno! -, vaganti per i deserti, sui monti, tra le caverne e le spelonche della terra” (Eb 11, 37-38). Che cosa dovrei dire dei figli di Jonadab, figlio di Rechab? Leggiamo che essi così risposero al profeta Geremia, che offriva loro del vino per disposizione del Signore: “Noi non beviamo vino, perché Jonadab, figlio di Rechab, nostro antenato, ci diede quest’ordine: Non bevete vino, né voi, né i vostri figli, mai; non costruirete case, non seminerete sementi, non pianterete vigne e non ne possederete alcuna, ma abiterete nelle tende tutti i vostri giorni” (Ger 35, 6-7). Per questo essi meritarono di sentirsi dire dal Profeta stesso anche queste parole: “Questo dice il Signore degli eserciti, Dio di Israele: A Jonadab, figlio di Rechab, non verrà mai a mancare chi stia alla mia presenza” (Ger 35, 19). Tutti costoro, non contenti di offrire a Dio le decime dei loro possedimenti, disprezzando gli stessi loro poderi, offrirono a Dio se stessi e la propria anima, poiché per essa non può esserci, da parte dell’uomo, nessuno scambio che l’equivalga, come appunto dichiara il Signore nel vangelo: “Che cosa 1’uomo potrà dare in cambio della propria anima?” (Mt 16, 26). Dovremmo perciò essere convinti che noi, dai quali non si esige l’osservanza dei precetti della Legge, ma per i quali suona ogni giorno questa parola del vangelo: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi” (Mt 19, 21), allorché offriamo a Dio le decime dei nostri beni, rimaniamo sotto il peso della Legge, senza essere ancora pervenuti a quel fastigio del vangelo obbedendo al quale, quanti vi si attengono, non solo si assicurano i benefici della vita presente, ma anche i premi della vita futura. Infatti la Legge, a quanti la praticavano, non promise i premi del regno dei cieli, ma solamente i vantaggi della vita presente, dicendo: “Chi osserverà questi precetti, vivrà in essi” (Lv 18, 5). Il Signore così disse, parlando ai suoi discepoli: “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli” (Mt 5, 3), e ancora: “Chiunque avrà lasciato case o fratelli o sorelle o padre o madre o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna” 8Mt 19, 29). E questo non immeritamente. Infatti non è degno di lode tanto il fatto di astenerci dalle cose illecite, quanto piuttosto quello di privarci delle cose lecite, e quindi rinunciare ad esse in vista di Colui che, date le nostre infermità, ce ne ha consentito l’uso. Quindi, se anche coloro che, offrendo fedelmente le decime dei loro beni, osservano gli antichi precetti del Signore, non possono raggiungere le altezze del vangelo, voi potete con tutta evidenza dedurre quanto, coloro che non si attengono neppure a questo acconsentimento, siano lontani dal vangelo. E in realtà, come potrebbero essere partecipi della grazia del vangelo coloro che si rifiutano di osservare perfino i precetti così leggeri, propri della Legge? A tal punto le autorevoli parole dell’autore della Legge rivelano la facilità di quei precetti da venire proposta la maledizione per gli inadempienti: “Maledetto chi non si atterrà a tutte le prescrizioni del libro della Legge, per metterle in pratica” (Dt 27, 26). Dei precetti del vangelo, invece, è detto in rapporto alla loro eccellente sublimità: “Chi può comprendere, comprenda” (Mt 19, 12). Là, invece, la forte costrizione dell’autore della Legge rivela la moderazione dei precetti: “Chiamo oggi in testimonio contro di voi il cielo e la terra: se voi non osserverete i precetti del Signore, vostro Dio, scomparirete dalla faccia della terra” (Dt 19, 12). Nel vangelo la grandezza di quei sublimi precetti viene indicata non tanto dall’obbligo di chi domanda, quanto piuttosto dall’invito di chi esorta: “Se vuoi essere perfetto, va” (Mt 19, 21), fai questo o fai quello. Nella Legge, Mosè impose un peso inescusabile anche a coloro che lo ricusavano; Paolo invece interviene col suo consiglio unicamente per coloro che vogliono e intendono incamminarsi verso la perfezione. Non era il caso quindi di imporre un obbligo assoluto, e nemmeno, per così dire, esigere perentoriamente da parte di tutti quello che, per la sua stessa meravigliosa sublimità, non da tutti può essere universalmente praticato; occorreva invece preferibilmente invitare tutti alla grazia con l’esortazione, in modo che quanti risultano robusti possano non immeritamente venire incoronati per la perfezione della loro virtù; mentre invece quanti risultano deboli e non possono “giungere alla misura che conviene alla piena maturità di Cristo” (Ef 4,13), sebbene sembrino occultati dal fulgore dei più luminosi, come da astri maggiori, tuttavia sono ben lontani dalle tenebre delle maledizioni dettate dalla Legge, né sono destinati alla sorte dei mali presenti, e nemmeno assegnati ai supplizi eterni. Cristo dunque non costringe chiunque a raggiungere quegli eccelsi fastigi della virtù con la necessità di un comandamento, ma promuove, rifacendosi al potere del nostro libero arbitrio, e accende con la bontà del suo consiglio e col desiderio della perfezione. Infatti, dove appare il comandamento, ivi pure esistono, come conseguenza, l’obbligo e la punizione. Pertanto, coloro che si attengono a questi precetti, all’osservanza dei quali sono obbligati dalla severità della predetta Legge, evitano certamente la punizione prevista per la trasgressione, ma non meritano la ricompensa e i premi. Ne segue dunque che, come le parole del vangelo aiutano i forti a raggiungere le altezze della sublimità, così pure non permettono ai deboli di venire sommersi fino al fondo, in quanto attribuiscono ai perfetti la pienezza della beatitudine e concedono il perdono ai deboli, vittime della loro fragilità. La Legge infatti ha collocato quanti osservano i suoi precetti come in un punto di mezzo in rapporto a un duplice merito, in quanto, da una parte, li separa dalla condanna dei trasgressori, e, dall’altra, li dissocia dalla gloria dei perfetti. Ora, fino a che punto un tale risultato sia modesto e miserevole, voi stessi lo potete arguire perfino dal confronto con lo stato della vita presente, nella quale si considera un successo molto misero se uno si sforza e s’affatica unicamente per non divenire un colpevole tra gli uomini onesti, e non piuttosto una persona ricca, stimata e ammirevole. Risulta dunque in nostro potere decidere se vivere sotto la grazia del vangelo oppure sotto il terrore della Legge: necessariamente ognuno sarà assegnato all’una o all’altra di queste parti in base alla qualità delle proprie azioni. Di fatto sarà la grazia di Cristo ad accogliere coloro che superano la Legge, oppure sarà la Legge a trattenere a sé quanti risultano fuori delle disposizioni del vangelo, quali suoi debitori propri e a sé soggetti. Infatti il trasgressore dei precetti della Legge mai sarà in grado di arrivare alla perfezione evangelica, anche se si glorierà di essere cristiano e di essere stato liberato dalla grazia del Signore, purtroppo senza efficacia. In realtà non solo non si deve ritenere che rimanga ancora sotto la Legge chi si rifiuta di adempierne le prescrizioni, ma anche chi si accontenta di osservarne le prescrizioni e intanto non produce frutti degni della vocazione e della grazia di Cristo. Non è detto nel vangelo: “Offrirai le tue decime e le tue primizie al Signore, tuo Dio” (Es 22, 29); è detto invece: “Va’, vendi tutto quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi” (Mt 19,21). E ancora: a un discepolo, che pur lo chiedeva, non fu concesso in vista della sublimità della perfezione il tempo brevissimo per attendere alla sepoltura del proprio padre, e così il dovere dell’umana carità venne superato dal dovere dell’amore divino». All’udire tali proposte il beato Teona, acceso da un desiderio inestinguibile della perfezione evangelica, ripose il germe di quelle parole nel suo cuore, accolte come in solchi profondi e ben coltivati; si sentiva umiliato e compunto soprattutto perché, secondo quanto aveva dichiarato il vegliardo, egli non solo non aveva raggiunto la perfezione intesa dal vangelo, ma a stento aveva adempiuto i precetti dettati dalla Legge di Mosè. Di fatto, pur essendo solito offrire ogni anno le decime dei suoi raccolti alla «Diaconia», confessava a calde lacrime di non avere mai sentito neppure parlare dell’offerta delle primizie; ne seguiva comunque che, anche se egli avesse adempiuto quel precetto con uguale fedeltà, confessava umilmente di trovarsi, nonostante ciò, ben lontano dalla perfezione del vangelo, stando a quanto aveva dichiarato quel vegliardo. Egli dunque ritornò a casa, afflitto e tutto preso da quella tristezza che produce la penitenza adatta ad assicurare la salvezza; senza più nutrire alcun dubbio sulla propria definitiva decisione, egli rivolse ogni sollecitudine e ogni premura della sua mente a procurare la salvezza anche alla moglie, e cominciò così a indurla a desiderare quello che egli stesso bramava, con esortazioni simili a quelle da cui egli stesso era stato persuaso e acceso: l’ammoniva di giorno e di notte, perfino in lacrime, per indurla a servire Dio, insieme, nell’osservanza della castità santa, ricordandole che non bisogna rimandare a lungo la decisione di darsi ad una vita migliore, poiché le speranze dell’età ancora giovane non impediscono per niente l’incombenza d’una morte improvvisa, dato che essa rapisce i bambini, gli adolescenti e i giovani come i vecchi, con sorte uguale. Ma poiché la moglie, del tutto ostile a queste sue insistenti preghiere, negava il suo consenso e affermava che essa, nel fiore dell’età, non poteva assolutamente essere privata del conforto del marito, e perciò, qualora, una volta abbandonata dal marito essa fosse caduta in qualche colpa, la responsabilità della colpa era da ascrivere a lui che aveva sciolto il legame matrimoniale. A queste obiezioni egli, dopo aver dimostrato a lungo le condizioni della natura umana e aver dichiarato quanto fosse pericoloso, fragile e incerto, per com’era quella natura, lasciarla a lungo in preda ai desideri e alle opere della carne, aggiungeva che a nessuno era lecito rendersi estraneo a quel bene, al quale gli era stato indicato di doversi attenere ad ogni costo, così come era un pericolo ancor più grave disprezzare un bene conosciuto piuttosto che non amare un bene ignorato: perciò egli si sentiva già responsabile di colpa, se avesse preferito vantaggi terreni e sordidi ai beni, ormai conosciuti, così luminosi e così celesti. L’elevatezza della perfezione conveniva indubbiamente ad ogni età e ad ogni sesso, e tutti i membri della Chiesa erano invitati a raggiungere l’altezza dei meriti maggiori, conforme al suggerimento dell’Apostolo: “Correte in modo d’arrivare al premio” (1 Cor 9, 24); coloro che si sentono pronti e ben disposti non devono fermarsi a causa di quanti sono lenti e pigri, essendo molto più giusto che gli ignavi fossero sollecitati da chi avanza, e non che chi avanza fosse ritardato dagli ignavi. Egli pertanto aveva preso ormai la ferma decisione di rinunciare al secolo e al mondo per poter vivere per Dio, e se non gli era concesso di raggiungere questa felicità di poter passare nella compagnia di Cristo assieme alla sua sposa, egli preferiva salvarsi, fosse pure con la privazione di un membro, ed entrare solitario nel regno dei cieli piuttosto che essere condannato con l’integrità del suo corpo (Cfr. Mt 5, 30). Egli aggiunse pure questi altri motivi: «Se Mosè permette agli Ebrei di lasciare la moglie a causa della durezza del suo cuore (Mt 19, 18), perché non dovrebbe permetterlo Cristo in vista del desiderio della castità? E questo soprattutto perché Egli stesso, tra gli affetti, vale a dire i sentimenti che riguardano il padre, la madre e i figli, ai quali non solo la Legge, ma Egli stesso aveva ordinato che fosse prestato ogni rispetto, tuttavia, dopo aver dichiarato che per il suo nome e per il desiderio della perfezione quei sentimenti dovevano non solo essere superati, ma perfino essere in odio, ecco che ad essi Egli finì per aggiungere anche quello della moglie: “Chiunque avrà lasciato case o fratelli o sorelle o padre o madre o moglie o figli per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna” (Mt 19, 29). A tal punto dunque Egli dichiara che niente può essere messo a confronto con la perfezione invocata tanto da indurre a ritenere sciolti i legami che ci uniscono al padre e alla madre, quei legami che secondo l’Apostolo costituiscono il primo precetto in vista della ricompensa, vale a dire: “Onora tuo padre e tua madre: è questo il primo comandamento associato ad una promessa: perché tu sia felice e goda di una vita lunga sopra la terra” (Ef 6, 2-3), e, inoltre, tanto da comandare che di essi non si tenga conto per amore di Lui. Ne segue allora che, allo stesso modo con cui la sentenza del vangelo condanna coloro che rompono il matrimonio senza che intervenga il motivo dell’adulterio, così pure promette il centuplo a coloro che sciolgono il giogo della carne per amore di Cristo e per il desiderio della castità [3]. Pertanto, se può avvenire che tu, accolta la mia motivazione, ti pieghi a questa mia tanto desiderata decisione, in modo che, dedicandoci al servizio del Signore, evitiamo tutti e due le pene dell’inferno, io non rinnego l’amore coniugale; al contrario, l’accludo in me stesso con maggiore intensità. Riconosco infatti e venero in te la cooperatrice assegnatami dal volere del Signore, e non mi rifiuto affatto di restare unito a te col vincolo indissolubile della carità, così come non intendo separare da me quello che il Signore mi ha congiunto fin dalla legge della sua primitiva creazione, purché anche tu sia colei che il Creatore intese che tu fossi. Se tu invece non vorrai essere mia cooperatrice, ma una donna illudente, e preferirai esibirti come un sostegno, non a me, ma al nostro nemico (il demonio), e perciò riterrai che lo scopo del matrimonio sia quello di sottrarre te, con l’inganno, alla salvezza che ti viene consigliata e di impedire a me di divenire discepolo del Salvatore, io allora mi atterrò virilmente alla sentenza pronunziata dalla bocca dell’abate Giovanni, anzi, di Cristo, al punto che nessuna affezione della carne riuscirà a staccarmi dal bene dello spirito: “Se uno non odia suo padre e sua madre e i figli e i fratelli e le sorelle e la moglie e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo” (Lc 14, 26)». Allora, poiché a questa e a simili proposte la decisione della donna rimase ferma, restando essa ostinata in quella medesima durezza, «se io, concluse il beato Teona, non posso sottrarti alla morte, neppure tu mi separerai da Cristo; è motivo per me di maggiore sicurezza separarmi da una creatura umana che non da Dio», Perciò, sotto l’ispirazione della grazia di Dio, egli diede esecuzione immediatamente al suo proposito, né sopportò di rimandare di qualche tempo il fervore del suo desiderio. E così, dopo avere immediatamente rinunciato ad ogni suo bene terreno, si ritirò nel monastero; e là, in breve tempo, rifulse di tanto splendore di santità e di umiltà che, essendo giunto a morte l’abate Giovanni, di beata memoria, come pure il santo Elia, non minore, per santità, del suo predecessore, venne eletto come terzo, a giudizio di tutti, Teona, quale loro successore nella direzione di quella diaconia [4]. Nessuno ritenga che io abbia esteso questo racconto allo scopo di provocare delle separazioni tra i coniugi; non solo io non condanno affatto le nozze, ma, in più, ripeto e approvo la seguente sentenza dell’Apostolo; “Il matrimonio sia rispettato da tutti e il talamo sia senza macchia” (Eb 13, 4); io ho scritto unicamente per illustrare fedelmente al lettore l’inizio della conversione, con la quale si dedicò a Dio un uomo così grande. E al lettore, con sua buona grazia, questo io chiedo, anzitutto, che, approvando o non approvando, mi creda del tutto estraneo, riferendo tutto, con lode o con disapprovazione, all’autore di quella decisione. Quanto a me, che, intorno a quel fatto, non ho inteso affatto di esporre un mio personale giudizio, ma di dichiarare con una semplice esposizione quanto era accaduto, è giusto che, come io non pretendo che, da quanti ne danno la loro approvazione, mi derivi una lode, così pure vorrei che non mi ridondasse a biasimo quanto ho scritto, da parte di quanti ne offrono una loro disapprovazione. Ognuno esprima dunque, come già ho detto, il proprio giudizio: vorrei comunque prevenirlo di essere così circospetto nella sua eventuale censura negativa da non credersi più giusto e più santo del giudizio di Dio, in merito al quale vennero rinnovati in Teona gli stessi prodigi operati con gli Apostoli, e questo per non parlare della elezione da parte di padri così distinti, dai quali non solo non fu disapprovato il suo gesto, ma esaltato con tale evidente approvazione da preferire lui, nella elezione alla diaconia, ad altri padri pure elettissimi ed eminentissimi. Ed io ritengo che il giudizio di tanti uomini spirituali, giudizio espresso sicuramente sotto l’ispirazione di Dio, non sia stato un errore, poiché, come già ho detto in precedenza, esso ebbe la conferma con tanti splendidi miracoli. Ma è tempo ormai di riprendere il discorso secondo l’ordine inteso in vista della nostra conferenza. Essendo l’abate Teona venuto a farci visita nella nostra stessa cella durante il tempo della Quinquagesima di Pentecoste, mentre noi eravamo seduti per terra appena terminata la solennità vespertina delle orazioni, cominciammo a chiedere come mai presso di loro si evitava con tanta cura che nessuno, durante tutta quella Quinquagesima, piegasse le ginocchia durante la preghiera e non mantenesse il digitano fino all’ora nona; noi domandammo questo con tanta maggiore insistenza, perché avevamo veduto che nei monasteri della Siria tutto questo non era affatto osservato con tanta precauzione. A questa richiesta l’abate Teona prese a rispondere con tale inizio: «Occorre che noi ci adattiamo all’autorità dei padri e alla consuetudine degli anziani, prodottasi fino al tempo nostro attraverso una serie protrattasi per tanti anni, anche senza che noi ne conosciamo la ragione, e dobbiamo custodirla con continua e riverente osservanza così come essa ci è stata tramandata fin dall’antichità. Ma poiché voi volete conoscere le cause e la ragione di questa consuetudine, eccovi in breve quello che noi abbiamo appreso dai nostri anziani intorno a questa tradizione. Tuttavia, prima che sia addotta l’autorità della divina Scrittura, io premetterò, se vi piace, alcune precisazioni sulla natura e la qualità del digiuno, in modo che poi l’autorità delle Scritture confermi la mia esposizione. La divina sapienza ha designato, per mezzo dell’Ecclesiaste, un tempo adatto per tutte le circostanze, siano esse propizie o siano ritenute avverse e tristi, e così si esprime: “Per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo. C’è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante. Un tempo per uccidere e un tempo per guarire, un tempo per demolire e un tempo per costruire. Un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per gemere e un tempo per danzare. Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli, un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci. Un tempo per acquistare e un tempo per perdere, un tempo per serbare e un tempo per buttar via. Un tempo per stracciare e un tempo per cucire, un tempo per tacere e un tempo per parlare. Un tempo per amare e un tempo per odiare, un tempo per la guerra e un tempo per la pace” (Qo (Eccle) 3, 1-8: LXX). E subito appresso esso soggiunge: “C’è un tempo per ogni cosa e per ogni azione” (Qo (Eccle) 3, 17: LXX). Egli dunque non ha dichiarato nessuna di tali azioni buone per sempre, ma solo il tempo, in cui ognuna di esse viene compiuta opportunamente e convenientemente, in modo che le medesime azioni, le quali, se compiute opportunamente, riusciranno bene, compiute invece inopportunamente e in un tempo non conveniente, riusciranno inutili o nocive: fanno eccezione le azioni che già per se stesse sono buone o cattive e non possono perciò essere destinate in senso opposto, come la giustizia, la prudenza, la fortezza, la temperanza e le altre virtù, e, in senso opposto, i vizi, la cui natura non potrà mai trasformarsi e mutarsi per niente in senso contrario. Se poi alcune azioni possono talvolta sortire un doppio effetto al punto da apparire ora buone ora cattive secondo le disposizioni di chi agisce, allora saranno giudicate ora buone ora cattive non in senso assoluto, e per loro natura, ma in rapporto con le attitudini di chi opera e l’opportunità del tempo in cui sono compiute. Pertanto occorre ora domandarsi che cosa dobbiamo stabilire sulla natura del digiuno, se cioè esso sia un bene al modo con cui abbiamo definito la giustizia, la prudenza, la fortezza e la temperanza, le virtù che non possono affatto mutarsi in una parte contraria, oppure se esso costituisca qualche cosa di mezzo, in modo che, una volta osservato, possa giovare e, una voilta trascurato, non possa essere motivo di condanna, e, inoltre, nel caso che uno lo osservi, se divenga biasimevole, nel caso invece che non lo osservi, sia degno di lode. Di fatto, se noi annoveriamo anche il digiuno tra le virtù prima richiamate, in modo da comprendere l’astinenza dagli alimenti nel numero dei beni essenziali, indubbiamente l’assunzione dei cibi sarà certamente cattiva e peccaminosa. Infatti tutto quello che è contrario a un bene essenziale, senza dubbio dev’essere considerato come un male essenziale. L’autorità della Scrittura non consente però di dare un giudizio simile sul digiuno. Infatti, se noi digiuneremo in tale senso e con tal intenzione in modo da ritenere che si contragga peccato nel fare uso delle vivande, non solo non otterremo alcun frutto con la nostra astinenza, ma incorreremo in un sacrilegio e in un peccato grave secondo la mente dell’Apostolo, proprio per il fatto “d’astenersi da alcuni cibi che Dio ha creati per essere mangiati con rendimento di grazie dai fedeli e da quanti conoscono la verità. Infatti tutto quello che è stato creato da Dio è buono e nulla è da rigettare, quando lo si prenda con rendimento di grazie” (1 Tm 4, 3-4). “Se uno infatti ritiene una cosa come impura, essa per lui è impura” (Rm 14, 14). Perciò noi non leggiamo mai che qualcuno sia stato condannato per la sola assunzione di cibi, a meno che quella assunzione fosse associata allora o in seguito ad alcun motivo per il quale essa fosse meritevole di una condanna. Pertanto, anche da questo indizio appare con tutta evidenza che il digiuno è un elemento che viene a trovarsi come in mezzo, poiché, come esso giustifica quando è osservato, così pure non condanna, allorché non è adempiuto, a meno che non sia motivo di punizione la trasgressione di un precetto e non, per sé, l’assunzione dei cibi. Per un bene essenziale, invece, occorre che non vi sia alcun tempo che non sia d’impegno, al punto che per esso non esiste alcun tempo d’eccezione, poiché con la sua inosservanza il colpevole diverrebbe senz’altro responsabile del male. Così pure, a un male essenziale non è concesso alcun tempo d’eccezione, poiché quello che è sempre dannoso, non potrà mai, qualora sia commesso, non nuocere, oppure essere mutato in una parte degna di lode. Pertanto, quelle prassi, alle quali noi vediamo associati degli elementi e dei tempi determinati e che, se osservati a dovere, santificano, così come, se tralasciati, non macchiano, sono da considerare ovviamente come in mezzo: tali risultano le nozze, l’agricoltura, le ricchezze, il ritiro in un deserto, le veglie, la lettura e la meditazione dei Libri Sacri e gli stessi digiuni, da cui ha preso inizio il nostro discorso. Il comando divino e l’autorità delle Sacre Scritture non presentano queste pratiche sotto condizione in modo che si debba osservarle senza tregua e praticarle incessantemente, al punto che trascurarle anche per poco costituisca una colpa grave. Infatti tutto quello che viene comandato imperativamente, qualora non venga eseguito, comporta la morte; quello invece che viene suggerito piuttosto che comandato, una volta compiuto, reca giovamento, non compiuto, non comporta punizione. Ne segue allora che tutte queste pratiche o almeno alcune di esse i nostri padri ci comandarono di compierle con circospezione e di eseguirle con prudenza in base al motivo, al luogo, al modo e al tempo adatto, poiché risulta che se qualcuna di esse viene eseguita come conviene, riuscirà adatta e conveniente, se invece non compiuta a proposito, riuscirà inutile o nociva. Così, per esempio, se, in occasione dell’arrivo di un fratello, nel quale si dovrebbe ristorare Cristo con tutta umanità e cortesissimo accoglimento, uno, tutt’al contrario, intendesse persistere nell’austerità del digiuno, non è forse vero che egli incorrerebbe in una colpa di durezza anziché nel merito della religione? E se, qualora la depressione e la debolezza del proprio corpo richiedesse il sollievo delle forze con l’assunzione di cibo, ma uno non si adattasse a sospendere il rigore della sua astinenza, non sarebbe da considerare più un crudele omicida del proprio corpo anziché un abile interessato alla propria salvezza? Così pure, allorché la ricorrenza di una festività permette un congruo fomento di alimenti e una necessaria refezione, se qualcuno intenderà attenersi ostinatamente alla rigida osservanza del digiuno, necessariamente dovrà essere considerato, non tanto come un religioso osservante, quanto piuttosto come un individuo grossolano e irragionevole. Ma a simili individui tali pratiche riusciranno nondimeno ostili, a coloro cioè i quali cercano con il loro digiuno le lodi degli uomini e intendono acquistare la fama della santità con la vuota ostentazione del pallore del loro viso: è di costoro che la parola del vangelo dichiara che essi hanno già ricevuto la loro ricompensa (Cfr. Mt 6, 16), così come il Signore stesso, per bocca del Profeta, detesta il loro digiuno. Dapprima Egli suppone che essi rivolgano a Lui questa obiezione: “Perché digiunare, se tu non lo vedi; perché mortificarci, se tu non lo sai?” (Is 58, 3). E allora Egli subito risponde, alludendo al motivo per il quale essi non meritavano di essere ascoltati: “Ecco, nel giorno del vostro digiuno fate la vostra volontà, e pretendete i debiti da tutti i vostri debitori. Voi digiunate fra litigi e alterchi, e colpite empiamente con i pugni. Non digiunate più come avete fatto fino ad oggi, così da fare udire in alto il vostro chiasso. È forse questo il digiuno che io ho scelto, che l’uomo affligga la propria anima durante il giorno? Piegare come un cerchio il proprio capo, usare sacco e cenere per letto? Forse questo voi vorreste chiamare digiuno e giorno gradito al Signore?” (Is 58, 3-5). Quindi Egli ne trae come deduzione il modo col quale l’assistenza di chi digiuna può divenire gradita, e così Egli dichiara che il digitano, per sé solo, non può giovare, se non saranno praticate le condizioni seguenti: “Non è questo il digiuno che io ho scelto? Sciogli le catene dell’empietà, togli i legami che opprimono, rimanda liberi gli oppressi e spezza ogni giogo. Spezza il tuo pane con l’affamato e introduci nella tua casa i poveri e chi è senza tetto; quando vedi chi è nudo, procura di coprirlo, e non disprezzare la tua stessa carne. Allora la tua luce sorgerà come l’aurora e la tua sanità sorgerà ben presto. Davanti a te camminerà la tua giustizia e la gloria del Signore ti seguirà. Allora lo invocherai, e il Signore ti esaudirà: tu griderai, ed Egli dirà: Eccomi!” (Is 58, 6-9). Voi stessi dunque potete vedere che il digiuno non è affatto giudicato dal Signore come un bene essenziale, poiché, non per se stesso, ma diviene un bene ed è gradito a Dio quando è accompagnato da altre opere; ma, in più, esso può essere perfino ritenuto vano e odiabile, poiché così dice il Signore: “Anche se digiuneranno, io non ascolterò la loro supplica” (Ger 14, 12). Ne segue dunque che la misericordia, la pazienza, la carità e le altre virtù in precedenza richiamate, nelle quali è sicuramente compreso un bene essenziale, non sono da praticare in sottordine al digiuno, quanto piuttosto si deve osservare il digiuno in ordine all’osservanza di quelle virtù. Di fatto occorre sforzarsi, affinché quelle virtù che realmente sono buone, siano acquistate per mezzo del digiuno, per cui l’esercizio di quelle virtù non deve dunque avere il digiuno come fine. Per questo dunque è utile castigare la propria carne, per questo è necessario ricorrere alla medicina dell’astinenza, affinché, con questo mezzo si giunga all’acquisto della carità, nella quale consiste un bene perenne, immutabile e senza interruzione di tempo. E in realtà la medicina, l’oreficeria e le altre arti che sono presenti nel mondo non vengono esercitate in vista degli strumenti che servono solo per essere utilizzati; al contrario sono gli strumenti a venir usati per l’esercizio delle arti. Tali strumenti, come sono utili agli esperti, così risultano inutili a coloro che sono ignari di quell’arte, e come essi giovano moltissimo a coloro che se ne servono per compiere le loro opere, così pure, a quanti non conoscono a quale fine sono destinati quegli strumenti, contenti come sono per il solo fatto di possederli, non possono in alcun modo risultare di giovamento, in quanto ripongono il meglio della loro utilità nel fatto di possederli e non nel fine del loro uso. Questo è dunque il risultato veramente ottimale, quello, al quale vengono indirizzate le cose che stanno nel mezzo, poiché il bene veramente essenziale è quello che, non in vista d’un altro motivo, ma risulta tale unicamente per la sua intrinseca bontà. Il bene essenziale si distingue da quelli che tali non sono nei modi seguenti: se esso è un bene per se stesso, e non per altri motivi diversi; se è necessario per se stesso, e non per altre cause; se è bene immutabilmente e in continuità e se, conservando sempre la sua essenza, non può mutarsi in una qualità contraria; se, a non adempierlo o a trasgredirlo comporta una grave conseguenza; se, quanto è ad esso contrario, è similmente un danno capitale e non può trasformarsi in una parte positiva. Queste caratteristiche, con le quali si distingue la natura dei beni essenziali, non possono in nessun modo essere applicate al digiuno. Esso infatti non risulta buono e neppure necessario per se stesso, poiché lo si esercita salutarmente allo scopo di acquistare la purezza del cuore e del corpo, in modo che, una volta assopiti gli incentivi della carne, la mente possa riconciliarsi serenamente col suo Creatore; e del resto, il digiuno non sempre e immutabilmente risulta buono, poiché noi non veniamo danneggiati da una sua interruzione, anzi, qualche volta si risolse in un danno dell’anima la sua inopportuna osservanza. Per lo più non sembra nemmeno un danno grave quello che ad esso appare contrario, vale a dire la naturale e piacevole percezione dei cibi: essa, se non comporta intemperanza e lussuria o qualche altro vizio, non può essere definita cattiva, “poiché non quello che entra nella bocca rende impuro l’uomo, ma quello che esce dalla bocca rende impuro l’uomo” (Mt 15, 11). Ne segue allora che finisce per derogare a un bene essenziale, o almeno a non compierlo perfettamente e senza peccato, chiunque non lo compie per se stesso, ma per qualche altro motivo. Tutto deve essere eseguito in vista di quel bene essenziale; esso solo dev’essere perseguito per se stesso. Ne segue allora che noi, conservando continuamente una tale convinzione sulla natura del digiuno, finiremo per praticarlo con tutte le forze del nostro animo, in modo che noi stessi, dopo tutto, finiremo per persuaderci che esso sarà per noi veramente utile se, rispetto ad esso, ne sarà tenuto presente il tempo, il carattere e la misura, e se, in più, non faremo di esso il fine della nostra speranza, ma solo un mezzo per poter giungere, con la sua pratica, alla purezza del cuore e alla carità suggerita dall’Apostolo. Da quanto precede risulta dunque che il digiuno, per il solo fatto che non soltanto non ne sono stati fissati i tempi, nei quali dev’essere osservato o sospeso, ma pure ne sono state proposte la qualità e la misura, non è ovviamente un bene essenziale, ma un elemento posto come in mezzo (tra il bene e il male). Del resto, quelle prescrizioni che, sotto l’autorevole imposizione di un precetto, sono vietate perché cattive, e sono state ordinate perché buone, non sono mai soggette alla condizione del tempo, quasi che si debba compiere talvolta quello che è stato vietato, oppure non compiere quello che è comandato. E in realtà non è stata assegnata una misura alla giustizia, alla pazienza, alla sobrietà, alla purezza, alla carità, così come non è stata concessa la libertà alla ingiustizia, all’impazienza, alla irascibilità, all’impurità, all’invidia e alla superbia. Pertanto, una volta premesse le caratteristiche riguardanti la natura del digiuno, sembra si debba aggiungere ancora l’autorità delle sacre Scritture, dalle quali poter dedurre con maggior evidenza che il digiuno né si deve né si può osservare in permanenza. E così si legge nel vangelo. Mentre, da una parte, i farisei e i discepoli di Giovanni Battista praticavano il digiuno, poiché, dall’altra, gli Apostoli, amici e commensali del celeste sposo, non lo osservavano, ecco che i discepoli di Giovanni, convinti com’erano di possedere il meglio della giustizia proprio perché osservavano il digiuno, seguaci com’essi erano di colui che, esimio predicatore della penitenza, ne offriva la forma a tutto il popolo con il suo esempio a tal punto che non solo ricusava i vari alimenti in uso presso gli uomini, ma ignorava del tutto l’alimentazione, pur così comune, del pane stesso, quei discepoli dunque si rivolsero al Signore stesso in tono di lagnanza per dirgli: “Perché noi e i farisei frequentemente digiuniamo, i tuoi discepoli non digiunano?” (Mt 9, 14). Il Signore, nel rispondere ad essi, dimostrò chiaramente che il digiuno non era né conveniente né necessario in ogni tempo, in quanto la ricorrenza di qualche festività o l’occasione di praticare la carità ammetteva il permesso della refezione, e così Egli si espresse: “Possono forse gli amici dello sposo essere in lutto, mentre lo sposo è con loro? Verranno però i giorni, quando lo sposo sarà loro tolto, e allora essi digiuneranno” (Mt 9, 15). Queste parole, sebbene pronunciate prima della risurrezione del suo corpo, alludono tuttavia direttamente al tempo compreso tra la Pasqua e l’Ascensione, nel quale, per quaranta giorni dopo la risurrezione, il Signore si trattenne con i suoi discepoli, e così la gioia della sua presenza quotidiana non permise ad essi di praticare il digiuno». GERMANO: «Perché dunque noi non osserviamo a tavola il rigore dell’astinenza per tutta la durata della Quinquagesima, dato che Cristo, dopo la sua risurrezione, si trattenne con i suoi discepoli soltanto per quaranta giorni?». Teona: «Questa vostra interrogazione, tutt’altro che inopportuna, merita di far conoscere tutta intera la verità. Dopo l’ascensione del nostro Salvatore, che avvenne nel quarantesimo giorno dopo la sua risurrezione, gli Apostoli, scesi dal monte Oliveto, nel quale Egli si era mostrato loro nel momento in cui saliva al Padre, come si racconta nel testo degli Atti degli Apostoli, ritornati a Gerusalemme, attesero per dieci giorni la venuta dello Spirito Santo, e lo accolsero con gioia allo spirare del cinquantesimo giorno (Cfr. At 1, 12 seg.). E così, con la ricorrenza di tale festività si giunse al compimento del numero che anche si legge adombrato e raffigurato nell’Antico Testamento, in cui, allo scadere della settima settimana, c’era il precetto di offrire al Signore per mezzo dei sacerdoti le primizie del pane (Dt 16, 9 seg.): è dimostrato dunque che il vero pane delle primizie fu realmente offerto al Signore per mezzo della predicazione degli Apostoli, poiché si legge appunto che in quel giorno essi parlarono al popolo, e così quel pane, con la diffusione della nuova dottrina, fu trasmesso, fino a saziarli col dono del suo nuovo alimento, a cinquemila uomini, e così produsse al Signore, tra i Giudei, il primo popolo dei cristiani. Ne deriva così che pure questi dieci giorni, aggiunti ai quaranta precedenti, devono essere celebrati con pari solennità e letizia. Perciò la tradizione di questa solennità, trasmessa fino a noi dagli uomini dell’età apostolica, dev’essere conservata con la medesima fedeltà. Ne segue allora che durante quegli stessi giorni non si piegano le ginocchia durante le preghiere, poiché la flessione delle ginocchia è espressione di penitenza e di tristezza. Ne deriva pure che noi conserviamo in tutto e per tutto in quei giorni la stessa solennità professata nel giorno della domenica, nella quale i nostri padri stabilirono che non si doveva osservare il digiuno né flettere le ginocchia per la riverenza dovuta alla risurrezione del Signore». Germano: «Non potrebbe questa nostra carne, favorita dagli insoliti blandimenti di una festività così lunga, produrre certi germi spinosi dal fomite dei vizi, anche se ormai mortificato, e la mente, una volta appesantita dall’accettazione dei cibi assunti oltre l’ordinaria consuetudine, non potrà sminuire il rigore della sua supremazia sopra il corpo ad essa asservito, soprattutto perché in noi l’età ancora giovanile ben presto potrebbe indurre alla ribellione le nostre membra pur così ormai sottomesse, qualora presumessimo di ingerire con più abbondanza e con maggiore licenza i soliti cibi?». TEONA: «Se noi sapremo pesare con giusto discernimento tutto quello che da noi viene compiuto e, per quel che riguarda la purezza del nostro cuore, non consulteremo il giudizio degli altri, ma sempre e soltanto la nostra coscienza, sicuramente la sospensione del digiuno non potrà ostacolare la nostra ordinaria austerità, purché, come già s’è detto, appendendo ad uguale bilancia la misura dell’eccedenza e quella dell’astinenza, la nostra mente, ancora integra, impedisca in modo uniforme l’uno e l’altro eccesso, e purché sempre la nostra mente riesca a distinguere con fondata discrezione se il peso del piacere del cibo opprima il nostro spirito ovvero la continuata austerità del digiuno indebolisca l’altra parte, cioè il nostro corpo, così decidere se diminuire o aumentare la porzione, di cui si avvertirà l’effetto positivo o negativo. Di fatto Nostro Signore non vuole che nulla sia fatto per il culto e l’onore suo senza l’intervento d’un moderato giudizio, poiché “l’onore del re ama la giustizia” (Sal 99 (98), 4). Perciò il sapientissimo Salomone ci ammonisce di non volgerci da una parte e dall’altra, senza seguire il nostro giudizio, e così egli dice: “Onora Dio con le tue giuste fatiche e offri a Lui i frutti della tua giustizia”(Pr 3, 9: LXX). Risiede infatti nella nostra coscienza un giudice incorrotto e verace, il quale, proprio quando talvolta tutti errano sulla condizione della nostra purezza, esso solo non fallisce. E allora, con ogni cautela e solerzia dev’essere conservata da noi una continua riflessione del nostro cuore, mantenuto sempre in guardia, affinché, in qualunque modo venga ad errare il giudizio della nostra discrezione, noi, perché accesi dalla brama d’una sconsiderata astinenza o perché presi dal desiderio d’una eccessiva indulgenza alla gola, non affidiamo la realtà delle nostre forze al peso d’una bilancia falsa; al contrario, ponendo su di un piatto della bilancia la purezza dell’anima e sull’altro le forze del nostro corpo, commisuriamo l’una e le altre col giudizio della nostra coscienza in modo tale che, senza lasciarci inclinare da una parte o dall’altra dalla propria propensione per una scelta piuttosto che per un’altra, evitiamo di piegare la bilancia della purezza più per un’eccessiva austerità o più per un’eccessiva indulgenza per la gola, e così ci venga detto, tanto per l’eccesso dell’indulgenza quanto per l’eccesso dell’austerità: “Non è forse vero che, se tu hai offerto bene, ma non hai diviso bene, hai peccato?” (Pr 4, 7: LXX). I sacrifici dei nostri digiuni, che noi inconsideratamente strappiamo dalle nostre viscere nonostante la loro ribellione, e che ci illudiamo di offrire al Signore, Egli, che “ama la misericordia e la giustizia” (Sal 33 (32), 5), li disdegna, dicendo: “Io sono il Signore che ama la giustizia e odia la rapina nel sacrificio” (IS 61, 8). La parola di Dio condanna così come operai fraudolenti coloro che riservano il più delle loro offerte, dei loro servizi e delle loro opere alla soddisfazione della loro carne e per i loro interessi, e destinano a favore del Signore quel che loro avanza, quindi una parte minima: “Maledetto colui che compie le opere del Signore fraudolentemente” (Ger 48, 10: LXX). Non immeritatamente dunque il Signore rimprovera colui che si auto inganna con un falso giudizio: “I figli degli uomini sono vani, i figli degli uomini sono mentitori, allorché pesano sulla bilancia allo scopo di ingannare” (Sal 62 (61), 10), Perciò il beato Apostolo, affinché noi, conservando la misura moderata della discrezione, non veniamo attratti né da una parte né dall’altra, ci ammonisce, dicendo: “Il vostro culto sia razionale” (Rm 12, 1). Quelle deviazioni le condanna similmente anche l’autore della Legge, e così egli si esprime: “La stadera sia giusta, e giusti siano i pesi, giusto il moggio e giusto il sestario” (Lv 19, 36). Anche Salomone pronuncia sullo stesso argomento una sentenza simile: “Il doppio peso, uno grande e uno piccolo, sono due cose in abominio al Signore, e chi le compie, sarà sorpreso nelle stesse sue astuzie” (Pr 20, 10-11: LXX). Inoltre, non solo noi dobbiamo attenerci alla condotta in precedenza richiamata, ma dobbiamo pure sforzarci di comportarci in maniera tale da non mantenere dei pesi falsi nel nostro cuore e doppie misure nei segreti della nostra coscienza, in altre parole, agire in modo da ritenere di non dovere attenuare quanto appartiene alla regola dell’austerità con l’adozione di un’indulgenza alquanto remissiva, e intanto aggravare coloro, ai quali predichiamo la parola del Signore, con precetti più rigorosi e con pesi più gravi di quelli che noi stessi non potremmo sostenere; quando noi ci componiamo in questo modo, che altro facciamo, se non pesare e misurare i prodotti e le messi del Signore con doppio peso e doppia misura? In realtà, se noi ci comportiamo in un modo nei nostri riguardi, e in un altro riguardo ai nostri fratelli, giustamente saremo redarguiti dal Signore appunto perché avremo fatto uso di false bilance e di due misure, conforme a quanto risulta dalla sentenza di Salomone, che così si esprime: “Il doppio peso è in abominio al Signore, e le bilance false non sono un bene al suo cospetto” “ Così pure noi incorreremo ovviamente nella colpa del peso falso e della doppia misura, quando cercheremo di ostentare davanti ai fratelli, indotti come saremo dalla brama delle lodi umane, certe pratiche in forma più rigorosa di quanto siamo soliti praticare nelle nostre celle, procurando così di apparire più astinenti e più santi agli occhi degli uomini che non al cospetto di Dio: un simile contegno morboso non solo si deve evitare in modo particolare, ma perfino aborrirlo. Ora però, essendoci allontanati un po’ troppo dalla questione che ci eravamo proposta, ritorniamo all’argomento, dal quale d siamo discostati. Ne segue dunque che la solennità di quei giorni dev’essere osservata in modo che l’interruzione del digiuno, concessa al regime del corpo e dell’anima, sia di giovamento piuttosto che di danno, poiché la gioia di una festività non conosce il logoramento degli aculei della carne, né lo spietato avversario delle anime sa mitigarsi per la riverenza dovuta a quei giorni. Affinché dunque anche in quei giorni di festa sia mantenuta la tradizionale solennità stabilita senza che venga minimamente trascurata l’utilissima misura della parsimonia, basterà che noi permettiamo l‘avanzare della concessa larghezza fino a questa delimitazione, che la refezione da assumere, che dovrebbe essere appunto accolta all’ora nona nei giorni ordinari, sia anticipata di un po’, vale a dire all’ora sesta, in vista appunto della solennità: il motivo è questo, non mutare la consueta misura e qualità degli alimenti, sì da non compromettere, a causa della remissività concessa nella Quinquagesima pentecostale, la purezza del corpo e l’integrità dell’anima, acquistate appunto con l’astinenza della Quaresima, e così non ci sia per noi di alcun giovamento l’aver ottenuto con i digiuni quello che poi, ben presto, ci costringa a perderlo l’imprudente sopraggiunta saturazione; e tutto ciò soprattutto perché la non ignota astuzia del nostro nemico proprio allora prende d’assalto in modo singolare la difesa della nostra purezza, allorché s’accorge che la nostra vigilanza è diminuita a causa di qualche solennità. Pertanto occorre provvedere con la massima vigilanza affinché mai il vigore della nostra mente sia compromesso da blande seduzioni, in modo da non perdere, come già in precedenza s‘è detto, a causa della quiete sicura della Quinquagesima pentecostale, la purezza della castità conquistata con il continuo impegno della Quaresima. Perciò non sia in nessun modo operata alcuna aggiunta nella qualità e nella quantità dei cibi; al contrario, anche nei giorni solenni delle festività, guardiamoci dall’eccedere nei cibi, giacché proprio per la dose contenuta di essi ci siamo assicurata l’integrità della purezza pure nei giorni che precedono le feste, e questo affinché la letizia della festività, suscitando in noi la dannosissima battaglia degli incentivi carnali, non venga a mutarsi in pianto, e ci sottragga quella ben più eccellente festività della mente, la quale si eleva verso l’alto per la gioia dell’incorruttibilità, e così noi eviteremo, dopo la breve e vana letizia della carne, di piangere con una lunga amarezza l’ormai perduta purezza del cuore. Dobbiamo anzi adoperarci, affinché non invano sia rivolta a noi l’ammonizione della seguente esortazione profetica: “Celebra le tue feste, o Giuda, e sciogli i tuoi voti” (Na 1, 15). Se infatti la solennità dei giorni di festa non muterà, frapponendosi, la continuità della nostra astinenza, noi potremo usufruire perennemente del frutto dei giorni spirituali feriali, e così, pur interrompendo talora la nostra condotta abituale, passeremo “da mese a mese, da sabato a sabato” (Is 66, 23)». Germano: «Qual è il motivo per cui si celebra la Quaresima con la durata di sei settimane, sebbene si sappia che in alcune province una forma religiosa più accurata ha aggiunto una settima settimana col risultato però, che, togliendo i giorni della domenica e del sabato, sia un numero che l’altro non raggiunge la somma di quaranta giorni? In realtà, in quelle stesse settimane s’arriva solamente al numero di trentasei giorni». Teona: «Sebbene la pia semplicità di certuni non si curi di questa questione, tuttavia, poiché voi desiderate di conoscere, indagando più scrupolosamente la verità della nostra osservanza e del suo mistero, anche quello che altri non riterrebbe degno di un’interrogazione, accogliete allora la ragione evidentissima di questa pratica in modo da indurvi ad ammettere con maggiore fondamento che nulla di irrazionale fu trasmesso dai nostri padri. Con la legge di Mosè fu trasmesso a tutto il popolo questo precetto generale: “Offrirai al Signore, Dio tuo, le tue decime e le tue primizie” (Es 22, 29). Se dunque noi siamo tenuti ad offrire le decime delle nostre proprietà e di tutti i nostri raccolti, sarà molto più doveroso offrire le decime del nostro stesso regime di vita, delle nostre attitudini e della nostra operosità, tutte rilevanze queste che indubbiamente risultano dall’osservanza della Quaresima. Il numero di tutti i giorni, nei quali si risolve il giro dell’anno fino al suo concludersi, si attua nel complesso di trentasei giorni e mezzo, moltiplicato per dieci. Invece nelle sette settimane, togliendo i giorni della domenica e del sabato, rimangono trentacinque giorni destinati al digiuno. Se poi, una volta aggiunto il giorno della vigilia, nel quale si prolunga il digiuno del sabato (santo) fino al canto del gallo, cioè fino al sorgere del nuovo giorno, allora non solo viene a compiersi il numero dei trentasei giorni, ma anche, al posto dei cinque giorni che ancora mancavano (per arrivare ai quaranta), terremo presente lo spazio della notte, e così nulla mancherà al compiersi del numero richiesto. Che cosa dirò io ora delle primizie che da tutti i fedeli servitori di Cristo vengono sicuramente offerte ogni giorno? Di fatto, allorché essi, una volta risvegliatisi dal sonno e levatisi, dopo il riposo, dal loro giaciglio, quasi fosse ritornata la vitalità, prima ancora di concepire nel loro cuore l’impressione della vita e prima ancora di accogliere il ricordo e le premure della situazione terrena, consacrano il sorgere e l’inizio dei loro pensieri come un’offerta destinata a Dio, che altro compiono, se non di dare un indirizzo alle primizie dei loro frutti per mezzo del sommo pontefice Gesù Cristo in vista della vita presente e come un’immagine di una quotidiana risurrezione? Essi dunque, in più, levatisi dal sonno, offrendo l’ostia della loro gioia, invocano Dio con il primo movimento della loro lingua, celebrano il suo nome e le sue lodi, e quindi, schiudendo per la prima volta la serratura delle loro labbra per cantare i suoi inni, immolano a Dio il servizio delle loro labbra; e pure a Dio, in eguale misura, essi designano la prima offerta delle loro mani e dei loro passi, allorché, una volta levatisi dal loro giaciglio, si dedicano alla preghiera, e prima ancora di destinare le proprie membra al disbrigo delle proprie occupazioni, per nulla preoccupati del compito proprio di quelle loro membra, si dedicano interamente all’onore di Dio, assorti nelle sue lodi, e così assolvono le primizie di tutti i loro atti col protendere le mani, con il piegare le ginocchia e con la prostrazione di tutto il loro corpo. Noi non potremmo compiere in altra maniera quello che si canta nel salmo: “Ho prevenuto il mattino e ho gridato verso di te” (Sal 119 (118), 47), e ancora: “I miei occhi hanno prevenuto il mattino, dirigendosi verso di te, per meditare le tue promesse” (Sal 119 (118), 148), come pure: “Al mattino giungerà a te la mia preghiera” (Sal 88 (87), 14), se non in questo modo: richiamati, dopo il riposo del sonno, a questa luce dalle tenebre e dalla morte al modo da me in precedenza rilevato, non osare dunque di tralasciare nulla di tutto quello che riguarda il compito dello spirito e del corpo per attendere invece alle nostre personali necessità. Nessun altro è appunto colui che il Profeta in precedenza voleva prevenire fin dal primo mattino; non c’è nessun altro che, in modo simile, noi dobbiamo prevenire, se non noi stessi, vale a dire le nostre occupazioni e affezioni, le nostre sollecitudini terrene, senza le quali non riusciamo a vivere, oppure le sottilissime suggestioni del nemico, quelle che in noi, ancora immersi nel torpore del sonno, egli cerca di insinuare con i fantasmi di sterili sogni, con i quali, una volta risvegliati, ci occupi e ci aggredisca in modo che lui, per primo, riesca a raccogliere il meglio delle nostre primizie. Perciò, se intendiamo porre in atto la forza del suddetto versetto della Scrittura, occorre che da parte nostra una solerte vigilanza ponga al sicuro il primo sorgere dei nostri pensieri, affinché l’attento ardimento del nostro invidioso nemico non ne approfitti e faccia sì che quelle nostre primizie, divenute vili e comuni, siano ripudiate dal Signore. Se lui dunque non sarà prevenuto con una vigilantissima precauzione, ben lontano com’egli è dal rinunciare alla sua consueta e malvagia voglia di anticipare, non lascerà ogni giorno di prevenirci con le sue frodi. Pertanto, se noi desideriamo offrire a Dio, dai frutti della nostra mente, piacevoli e accettabili primizie, dovremo impegnarci con sollecitudine non comune affinché tutti i sentimenti del nostro essere, soprattutto nelle ore del mattino, siano riservati, in tutto e per tutto, illibati e intatti come sacrosanti olocausti del Signore. Un tal genere di devozione lo praticano con molta diligenza anche molti di coloro che vivono nel mondo: essi, levatisi prima del giorno o dello spuntare dell’aurora, non si dedicano subito alle occupazioni, pur familiari e necessarie, della vita ordinaria; al contrario, recandosi anzitutto alla chiesa, s’adoperano per rendere sacre, alla presenza divina, le primizie di tutti i loro atti e delle loro occupazioni. Per quanto avete riferito, che cioè in certe province si celebra la Quaresima in sei settimane, in altre in sette, ne deriva che, pur con diversa enumerazione delle settimane, viene concluso un identico e unico modo di osservare il digiuno. Infatti si prefissero l’osservanza del digiuno per sei settimane coloro appunto che ritengono necessario attenersi al digiuno anche nel giorno del sabato. In ogni settimana essi compiono così ben sei giorni di osservanza, sicché tale numero, ripetuto sei volte, raggiunge appunto la somma di trentasei giorni. Quindi, come ho già rilevato, viene a concludersi un identico e unico modo di osservare il digiuno, sebbene risulti differente il numero delle settimane. Senza dubbio, avendo l’incuria degli uomini dimenticato la ragione di tale osservanza, quel tempo nel quale, come se detto, viene offerta a Dio la decima parte di tutto l’anno, computata nella durata di trentasei giorni e mezzo, ricevette il nome di “Quadragesima”, perché si dice che Mose, Elia e lo stesso Nostro Signore Gesù Cristo osservarono il digiuno per ben quaranta giorni. Al mistero di questo numero s adattano bene i quarant’anni, durante i quali gli Israeliti dimorarono nel deserto (Cfr. Dt 29, 4), come pure le quaranta permanenze, in cui è descritta misticamente quella traversata. O non può darsi forse che questa decima parte dell’anno abbia ricevuto il nome di “Quaresima” dall’uso, in cui avveniva il pagamento delle tasse? Così infatti viene denominata pubblicamente quella esazione, dalla quale tanta porzione del guadagno viene devoluta alle esigenze del re, quanta anche da noi è richiesta dal re di tutti i secoli, quale legittimo contributo della Quaresima, destinata al bene della nostra vita. Ed ora, anche se quanto sto per dire non fa parte della questione da noi intrapresa, tuttavia, poiché si offre l’occasione di parlarne, non credo che sia conveniente passarlo sotto silenzio: si tratta di questo. I nostri anziani testimoniavano assai frequentemente che in quei giorni di digiuno, ogni aggregazione di monaci veniva assalita, per consuetudine, dai loro antichi nemici (i demoni), con estrema durezza, e questo perché, con riferimento all’antico esempio, secondo il quale una volta gli Egiziani oppressero con violente afflizioni i figli di Israele, anche ora questi Egizi spirituali (i demoni) si sforzano di piegare il vero Israele, vale a dire le schiere dei monaci, con oppressioni dure e indegne, affinché non abbandonino, per la quiete gradita a Dio, la terra d’Egitto, passando così al deserto delle virtù, dove, con molto vantaggio, risiede la salvezza. Il faraone, fremendo d’ira, potrebbe gridare contro di noi: “Sono dei fannulloni, e per questo vanno vociferando: Andiamo via e sacrifichiamo al Signore, Dio nostro. E allora essi siano oppressi dal lavoro per attendere alle loro opere, e non si perdano dietro parole vane” (Es 5, 8-9: LXX). La vanità di quei demoni presenta come somma vanità il santo sacrificio del Signore, che può essere offerto unicamente nel deserto di un cuore libero; infatti “la pietà è abominio per il peccatore” (Sir 1, 22: LXX). Chi dunque è giusto e perfetto non può essere tenuto in obbligo da questa legge quaresimale, e neppure sottomettersi ad una regola così modesta, quella che certamente i principi della Chiesa hanno stabilito per coloro che durante l’intero corso dell’anno sono coinvolti nei piaceri e negli affari del mondo, in modo che essi, costretti in certo qual modo da un tale obbligo di leggi, siano indotti a pensare al Signore almeno in tali giorni e a dedicare a Lui la decima parte dei giorni della loro vita, che essi, viceversa, disperderebbero interamente come certi frutti. I giusti invece, per i quali “non è fatta la legge” (1 Tm 1, 9), e che dedicano ai doveri spirituali non una minima parte, ma interamente il tempo della loro vita, poiché dunque sono liberi dall’obbligo delle decime legali, qualora li costringesse una onesta e santa necessità, si crederanno in grado di interrompere la durata del digiuno senza alcuna restrizione. Infatti da loro non risulta mutilata la legge, già di per sé così modesta, dato che essi hanno già offerto al Signore, con la propria vita, tutti i loro averi, E tale licenza non potrebbe certo permettersela, senza commettere una grave colpa di frode, colui che, non avendo offerto volontariamente nulla al Signore, inesorabilmente e necessariamente è indotto a osservare l’obbligo delle sue decime di legge. Ne risulta ovviamente che non può essere perfetto quell’osservante della legge che si limita unicamente a non fare quello che la legge proibisce, e a compiere quello che la legge comanda; al contrario, risultano veramente perfetti coloro che non approfittano neppure di quello che la legge permette di compiere. Per questo motivo, pur essendo stato detto, della Legge di Mosè, che “la Legge non ha condotto affatto alla perfezione” (Eb 7, 19), noi leggiamo di alcuni santi, nell’Antico Testamento, che furono perfetti appunto perché, superando i precetti della Legge, vissero secondo la perfezione del vangelo: “Si sa che la legge non è fatta per i giusti, ma per gli iniqui e i ribelli, per gli empi e per i peccatori, per gli scellerati e i contaminati” (1 Tm 1, 9-10). Occorre dunque tener presente che tale osservanza della Quaresima, finché rimase inviolata la perfezione della Chiesa primitiva, non fu per niente posta in pratica. I cristiani, senza essere impegnati dall’obbligo di questo precetto, e neppure costretti da una sanzione legale espressa in termini strettissimi riguardanti il digiuno, trascorrevano interamente il corso dell’anno con un digiuno costante. Nondimeno, allorché la moltitudine dei credenti, dissociandosi ogni giorno più da quella tradizione apostolica, prese a curare i propri beni, senza dividerli a beneficio di tutti i fedeli secondo le disposizioni degli Apostoli, ma, allo scopo di provvedere privatamente alle proprie spese, non solo si occupò di conservare i propri beni, ma di aumentarli, non contenti, come furono, di attenersi all’esempio di Anania e Saffira, fu deciso allora da tutti i vescovi di richiamare, con una ingiunzione canonica, gli uomini, impegnati ormai nelle cure secolari e quasi, per così dire, ignari dell’astinenza e della compunzione, alla santa osservanza del digiuno, e di costringerveli quasi con il ricorso all’obbligo delle decime legali, in modo da poter giovare ai deboli senza pregiudicare i perfetti, i quali, sicuri ormai come sono sotto la grazia del vangelo, superano la legge con la loro volontaria devozione per poter giungere alla beatitudine intesa dalle parole dell’Apostolo: “Il peccato non dominerà più su di voi, poiché non siete più sotto la legge, ma sotto la grazia” (Rm 6, 14). E in realtà il peccato non potrà più esercitare alcun potere su chi vive fedelmente sotto la libertà della grazia». Germano: «Poiché questa sentenza dell’Apostolo non può essere ingannevole, e, d’altra parte, essa ripromette la sicurezza non soltanto ai monaci, ma, in genere, a tutti i cristiani, a noi essa non appare fin troppo sicura. In quanto infatti essa ammette che coloro, i quali credono nel vangelo, sono liberi dal giogo e dal dominio del peccato e ad esso avversi, come può essere che quasi in tutti i battezzati ha vigore il potere del peccato conforme alla sentenza del Signore, che dice: “Chiunque commette il peccato, è schiavo del peccato”? (Gv 8, 34)». Teona: «La vostra domanda promuove nuovamente una questione senza fine. Sebbene io sappia che la sua completa soluzione non può essere né trasmessa, né percepita dagli inesperti, tuttavia, in quanto mi sarà possibile, io mi proverò a risolverla con le mie parole e a delucidarla brevemente, con la condizione però che la vostra intelligenza non si adoperi solamente a comprenderla, ma anche a mettere in pratica ciò che io dirò. Tutte le cognizioni infatti apprese non con l’insegnamento teorico, ma con la pratica, come non possono essere trasmesse da chi non è esperto, così non possono essere comprese e nemmeno serbate con la mente da chi, fin dall’inizio, non è stato formato con metodo e pratica simile. Io credo pertanto necessario ricercare anzitutto con diligenza quali siano il fine e la volontà della Legge, come pure la disciplina e la perfezione della grazia, in modo che da queste premesse si possa conoscere, come conseguenza, il dominio del peccato e la sua repulsione. La Legge dunque propone l’unione matrimoniale con un comando di prim’ordine, e così si esprime: “Beato colui che ha la sua discendenza in Sion, e i suoi familiari in Gerusalemme”(Is 31, 9: LXX), e ancora: “Maledetta sia la donna sterile, la quale non lascia figli” [5]. Al contrario, la grazia del vangelo ci invita alla purezza di una perenne incorruzione e alla castità di una felice verginità, dicendo: “Beate le sterili e le mammelle che non hanno allattato” (Lc 23, 29), e ancora: “Se uno non odia suo padre, sua madre e la moglie, non può essere mio discepolo” (Lc 14, 26). Ed ecco l’avvertimento dell’Apostolo: “D’ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non l’avessero” (1 Cor 7, 29). Dice la Legge: “Non tardare ad offrire le tue decime e le tue primizie” (Es 22, 29); la grazia del vangelo così suggerisce: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi tutto quello che possiedi e dallo ai poveri” (Mt 19, 21). La Legge del taglione non proibiva di vendicarsi per le invettive e le ingiurie ricevute: “Occhio per occhio, dente per dente” (Es 21, 24). La grazia del vangelo esige che la nostra pazienza sia dimostrata con la sopportazione del doppio delle ingiurie e dei colpi a noi inferti, e ci ordina di essere disposti a tollerare il raddoppio delle offese ricevute con queste parole: “Se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra; e a chi ti vuole chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu cedigli anche il mantello” (Mt 5, 39-40). La Legge prescrive che i nemici debbono essere oggetto di odio; la grazia invece ordina che i nemici debbano essere amati a tal punto da esigere che per essi si debba, in più, pregare Dio (Cfr. Mt 5, 44). Chiunque perciò avrà raggiunto questo culmine della perfezione evangelica, elevato certamente com’egli è per i meriti di virtù così sublimi e in grado pertanto di considerare come cose da poco tutti i precetti dettati da Mosè, riconosce di essere soggetto unicamente alla grazia del Salvatore, con l’aiuto del quale comprende di essere arrivato a quel sublimissimo stato. In lui pertanto il peccato non ha più alcun potere, “poiché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rm 5, 5), e così egli esclude ogni affezione per qualsiasi altra cosa, e perciò non può desiderare quello che ci è vietato e neppure trascurare ciò che ci viene comandato. Tutto il suo impegno e tutto il suo desiderio sono sempre indirizzati all’amore di Dio, al punto che non si lascia mai prendere dalla voglia delle cose vili, così come non si avvale delle cose concesse. Nella Legge, nella quale sono presi di mira i diritti dei due coniugi, per quanto la licenza della lussuria sia vietata solo per la donna, tuttavia non possono non aver vigore gli incentivi della concupiscenza della carne, così come è difficile che il fuoco, a cui volutamente vengono per di più sovrapposti pezzi di legna, si trovi ad essere così difeso da limiti prefissi tanto da non bruciare, una volta allargatosi, tutto quello, in cui venga ad imbattersi. E se anche viene opposto ad esso un impedimento, tanto da non consentirgli di bruciare al di fuori, tuttavia, anche così impedito, esso continuerà a bruciare, perché colpevole è appunto la volontà, ed è la consuetudine stessa dei contatti coniugali a costituire una spinta a tentare rapidi eccessi che comportano l’adulterio. Al contrario, quanti vengono infiammati dalla grazia del Salvatore per mezzo del santo amore dell’incorruzione, riescono a comprimere tutte le spine dei desideri della carne con il fuoco dell’amore divino al punto che neppure la tiepida favilla dei vizi sminuisce il freddo della loro integrità. Gli osservanti della Legge dunque, pur con il ricorso alle cose lecite, cadranno in quelle illecite; i partecipi della grazia invece, mentre disprezzano le cose lecite, non conoscono le illecite. Come il peccato è vivo nell’amatore del matrimonio, così pure vive in colui che si accontenta di pagare unicamente le proprie decime e le proprie primizie. Necessariamente infatti egli finirà per peccare nel tardare o nel trascurare quel dovere, o anche nella qualità o nella quantità oppure nella quotidiana distribuzione delle cose dovute. Colui infatti, al quale viene comandato di cedere senza tregua ai poveri quello che possiede, per quanto lo dispensi con devota fedeltà, tuttavia difficilmente non incorrerà con frequenza nei lacci del peccato. Al contrario, in coloro che non tennero in disprezzo il consiglio del Signore, ma, dopo aver distribuito ai poveri tutti i loro beni, caricatisi della sua croce, seguono l’elargitore della grazia, non può il peccato vantare il suo potere. Colui che ha dispensato i propri beni, avendoli già consacrati a Cristo, come pure ha dispensato a Lui le proprie ricchezze con pia distribuzione, come se tali ricchezze ormai appartenessero ad altri, non può morderlo l’infedele preoccupazione di doversi assicurare il vitto quotidiano, così come ogni mortificante dilazione non rattristerà la gioia della sua elemosina, poiché egli dispensa quello che in precedenza ha offerto a Dio, considerandolo come proprietà di altri, senza alcun ricordo delle proprie necessità e senza il timore della ristrettezza del proprio vitto. Egli è sicuro che quando sarà giunto nella desiderata condizione d’esser privo di tutto, Dio lo nutrirà molto di più di quanto lo faccia con gli uccelli dell’aria. Al contrario, colui che, conservando i propri beni nel mondo, reca le decime dei suoi frutti, le sue primizie e parte delle sue ricchezze, appunto perché vi è costretto dalle sanzioni dell’antica Legge, sebbene egli estingua il fuoco dei suoi peccati soprattutto con la rugiada di questa sua elemosina, tuttavia, per quanto sia rilevante la magnanimità di questa sua dispensa, è impossibile che egli riesca a liberarsi del tutto dal dominio del peccato, a meno che, per la grazia del Salvatore, egli deponga, con le sue proprietà, anche la stessa affezione del possedere. Ugualmente non potrà non essere schiavo del dominio efferato del peccato chiunque si decide a strappare, conforme al precetto della Legge, “occhio per occhio e dente per dente” (Cfr. Es 21, 24), fino a conservare l’odio per il proprio nemico, poiché necessariamente egli resterà sempre acceso dall’impulso della sua rabbia e della sua irascibilità, finché desidera vendicare la propria ingiuria con l’urgenza del taglione e finché conserva l’amarezza del suo odio contro il nemico. Al contrario, chiunque vive sotto la luce della grazia del vangelo e supera il male, non resistendo, ma sopportando, e a chi gli percuote la guancia destra, egli volontariamente non tarda ad offrirgli anche l’altra (Cfr. Mt 5, 39), e a chi pretende di promuovere una lite per togliergli la tunica, egli consegna anche il mantello, e chi ama i propri nemici e prega per coloro che lo calunniano, costui ha respinto il giogo del peccato e ne ha distrutto le catene. Costui infatti non vive sotto la Legge, la quale non distrugge i germi del peccato; non immeritamente l’Apostolo dice della Legge: “Si ha così l’abrogazione dell’ordinamento precedente a causa della sua debolezza e inutilità; la Legge infatti non ha portato nulla alla perfezione” (Eb 7, 18-19). Anche il Signore, per mezzo del Profeta, così si esprime: “Allora io diedi loro perfino statuti non buoni e leggi per le quali non potevano vivere” (Ez 20, 25: LXX). Al contrario, quegli vive sotto l’impulso della grazia, la quale non solo non recide i rami del male, ma estirpa interamente le stesse radici della cattiva volontà. Chiunque dunque s’impegna a conservare la perfezione intesa dalla dottrina evangelica, costui, una volta costituitosi sotto la grazia, non sarà più gravato dal dominio del peccato; questo infatti vuol dire vivere sotto la grazia, adempiere quanto è ordinato dalla grazia. E allora, chiunque si rifiuterà di rendersi soggetto alle complete esigenze della perfezione evangelica, costui non dovrà ignorare, pur considerandosi battezzato e perfino monaco, di non vivere sotto la grazia, ma di trovarsi, trattenuto com’egli è dai legami della Legge, sotto il gravame del peccato. Infatti è questo il proposito del Signore, quando attira tutti coloro, dai quali viene assunta la grazia dell’adozione, non distruggere, ma edificare, non eliminare, ma perfezionare i precetti di Mosè. Certuni, ignorando perfettamente tutto questo, e trascurando la grandezza dei consigli e delle esortazioni di Cristo, si ritengono indipendenti con tale sicurezza di presuntiva libertà, che non solo non si attengono ai precetti di Cristo, da loro considerati troppo ardui, ma disprezzano pure i comandi della Legge mosaica, impartiti loro quando erano giovani e agli inizi, ritenendoli ormai antiquati, e dichiarando con dannosa libertà, quanto l’Apostolo già condannava: “Abbiamo peccato, perché non siamo sotto la Legge, ma sotto la grazia” (Rm 6, 15). Chi dunque non è sotto la grazia, perché non ha saputo ascendere al culmine della dottrina del Signore, e non è neppure sotto la Legge, perché non ha accettato nemmeno i modesti precetti della Legge, costui, dunque, oppresso com’è dal doppio dominio dei peccati, per questo solo s’illude d’aver ricevuto la grazia di Cristo, per divenire estraneo a Lui per effetto d’una dannosa libertà, cadendo così nell’eccesso che l’apostolo Pietro denunzia, appunto, perché non s’incorra in esso: “Comportatevi come uomini liberi, non servendosi della libertà come di un velo per coprire la malizia” (1 Pt 2, 16). Anche il beato apostolo Paolo dichiara: “Voi siete stati chiamati alla libertà, fratelli”; vale a dire, per essere liberati dal dominio del peccato, “a condizione però di non porre questa libertà a pretesto per vivere secondo la carne” (Gal 5, 13), vale a dire di credere che il superamento dei precetti della Legge significhi libertà di praticare i vizi. Questa libertà, poiché non esiste se non dove dimora il Signore, l’Apostolo la dichiara con queste parole: “Il Signore è Spirito, e dove è lo Spirito del Signore, ivi è la libertà” (2 Cor 3, 17). Io non so se mi è riuscito di esprimere e di chiarire questo pensiero del beato Apostolo come coloro che lo conoscono per esperienza; questo solo io so, che quel pensiero si rivela apertissimamente, senza l’esposizione di qualsivoglia maestro, a tutti coloro che si attengono alla pratica, vale a dire all’attuazione della vita ascetica. Infatti essi non dovranno affaticarsi, disputando, per comprendere quello che, operando, essi hanno già appreso». Germano: «Tu hai aperto assai bene i nostri occhi su una questione per noi molto oscura, e ignota, almeno noi crediamo, anche a molti altri. Per questo noi ti preghiamo, affinché, in vista del nostro profitto, tu spieghi perché talvolta, proprio durante la pratica dei digiuni più severi, ridotti, come siamo, all’esaurimento completo, si risvegliano in noi più insistenti le lotte del corpo. Per lo più infatti, risvegliatici dal sonno, sorprendendoci d’aver effuso l’immondezza d’un sordido liquido, ne rimaniamo così abbattuti nella nostra coscienza da non osare neppure di alzarci per intraprendere fiduciosamente perfino la nostra preghiera». Teona: «Il nostro impegno, in merito al quale voi desiderate di conoscere la via della perfezione, non superficialmente, ma pienamente e perfettamente, mi induce a continuare questa trattazione senza interrompermi. Voi non vi interessate della castità esteriore e della visibile circoncisione, ma vi occupate premurosamente di quella castità che resta occulta, consapevoli come siete che la pienezza della perfezione non consiste nella percettibile continenza della carne, la quale può essere posseduta per necessità o per ipocrisia anche dai pagani, ma nella volontaria e invisibile purezza del cuore, che il beato Apostolo così descrive: “Giudeo non è chi appare tale all’esterno, e la circoncisione non è quella visibile nella carne; ma Giudeo è colui che lo è interiormente, e la circoncisione è quella del cuore, nello spirito e non nella lettera; la sua gloria non viene dagli uomini, ma da Dio” (Rm 2, 28-29), il quale, e Lui solo, scruta i segreti del cuore. Tuttavia, poiché non mi è possibile soddisfare completamente il vostro desiderio, dato che lo spazio della notte che ancora ci rimane non permette di esaminare a fondo questa astrusissima questione, penso che sia giusto rimandare per ora tale trattazione. Queste ricerche infatti, come esigono, per essere da me trattate, un cuore assolutamente libero dall’intervento molesto d’altri pensieri, così pure debbono essere ascoltate da voi nello stesso modo. Tali ricerche dunque, come è necessario trattarle in vista della comune purificazione, così pure non possono essere indagate e trasmesse, se non da chi ne ha fatto l’esperienza per effetto del dono dell’integrità. Infatti non si va in cerca di quello che suggeriscono gli argomenti fatti di parole vane, ma di quello che insegna l’interna fede della coscienza e la forza maggiore della verità. Pertanto, per quel che riguarda la scienza completa dell’emandazione (ovvero del purificarsi. Ndr.), non può parlarne se non chi ne ha fatto l’esperienza, né potrà trasmetterla, anche solo in parte, se non a chi è oltremodo bramoso e del tutto sollecito della verità: lui solo potrà raggiungere questo scopo, non basandosi su vuote e nude parole, ma affidandosi a tutte le forze dell’animo, vale a dire non sul fervore d’una sterile loquacità, ma sul desiderio dell’interna purificazione». [1] La diaconia era costituita in quel tempo dalla complessità dei ministeri minori (ostiari, esorcisti, accoliti, lettori e suddiaconi). [2] Cfr. Es 21, 24. Cassiano qui non è esatto. Mosè non parla della legge del taglione, se non per i giudici, e non per i privati, come intendevano falsamente gli scribi: cfr. Es 21, 22-25. [3] Con l’espressione generica “rompere i legami del matrimonio” occorre intendere una semplice separazione, e non un divorzio, secondo l’interpretazione costante che la Chiesa ha dato a questo passo di Mt 19,29. [4] Le funzioni della diaconia si estendevano pure all’ufficio dell’amministrazione delle opere di beneficenza, di cui si occupava il monastero. Cfr. J. Leroy, in RAM 42 (1966), 174. [5] La frase non risulta, così com’è riportata, nella Bibbia. Forse è una citazione a memoria di Os 9. SECONDA CONFERENZA DELL’ABATE TEONA SULLE ILLUSIONI NOTTURNE Indice dei capitoli I. Nostro ritorno presso Teona e sua esortazione. II. È riproposta la nostra domanda: perché ad una più rigida astinenza segue talvolta una più violenta ribellione della carne? III. Questi attacchi possono derivare da tre cause. IV. Domanda: se sia lecito accostarsi alla santa comunione, quando nella notte si sono subite sensazioni carnali. V. Risposta: quando, anche dormendo, si possa peccare. VI. Questi turbamenti notturni possono derivare anche da opera diabolica. VII. Nessuno può mai giudicarsi degno della santa comunione. VIII. Obiezione: se nessuno è senza peccato, tutti debbono essere allontanati dalla comunione. IX. Risposta: sebbene ci siano molti santi, nessuno, all’infuori di Cristo, è senza peccato. X. Solo il Figlio di Dio ha vinto il tentatore senza essere minimamente ferito dal peccato. XI. Solo Cristo è venuto nella somiglianza di una carne infetta dal peccato. XII. I santi e i giusti non hanno la somiglianza del peccato, ne hanno la realtà. XIII. I peccati dei santi non sono gravi da toglier loro la corona della santità. XIV. Come va intesa la parola dell’Apostolo: «Io non faccio il bene che vedo»? XV. Obiezione: non è meglio pensare che l’Apostolo abbia parlato a nome del peccatore? XVI. La questione è rimandata a più tardi. I. – Il nostro ritorno presso Teona e sua esortazione Circa una settimana dopo, quando ormai erano trascorsi i giorni della Pentecoste, al calar delle prime ombre, cioè dopo la sinassi vespertina, raggiungemmo la cella del venerabile Teona. Avevamo il fiato sospeso nell’aspettativa della Conferenza che c’era stata promessa. Il vecchio era pronto e ci ricevette con maniere affabili. Mi meraviglio, disse, che l’ardore del vostro zelo vi abbia permesso di rimandare alla settimana seguente la soluzione di quel problema che mi avevate proposto. Avete concesso al vostro debitore una discreta dilazione, e senza che egli ve l’avesse domandata. È dunque conveniente che io non indugi a pagare il mio debito, visto che la vostra benevolenza mi ha concesso una dilazione così lunga. Devo confessare che pagare questo debito è per me cosa gradita, perché le ricchezze che si donano in tal modo, crescono nelle mani del donatore. Queste ricchezze aumentano il patrimonio di colui che le riceve senza diminuire quello di chi le dispensa. Infatti il dispensatore della dottrina spirituale fa due guadagni: al vantaggio di chi ascolta, si unisce quello di chi parla. Chi istruisce gli altri, accende se stesso del desiderio della perfezione. Così il vostro fervore è per me causa di progresso spirituale, la vostra sollecitudine mi ispira compunzione. Io stesso sarei ora spiritualmente tiepido, me ne rimarrei lontano dagli argomenti che ci stanno interessando, se il vostro fuoco e la vostra attesa non mi svegliassero dal torpore, per ricondurmi al ricordo delle cose spirituali. Ecco dunque il momento di riproporre quel tema che, per brevità di tempo, preferimmo già rimandare a migliore occasione. II. – È riproposta la nostra domanda: perché ad una più rigida astinenza segue talvolta una più violenta ribellione della carne? Se non m’inganno, la vostra domanda riguardava questo punto: perché talvolta avviene che gli assalti della carne sono più blandi durante un periodo di poca penitenza, mentre al contrario si fanno più insistenti e potenti quando il corpo è afflitto ed esausto da una penitenza più severa. Anzi avviene proprio allora — come voi avete confessato — di svegliarsi contaminati dal flusso degli umori naturali. III. – Questi attacchi possono derivare da tre cause I nostri Padri hanno ridotto a tre le cause di questi fenomeni, tutte cause consistenti in eccessi che offendono le misure stabilite. O si tratta di una sovrabbondanza di cibo, che appesantisce; o di mancata custodia dell’anima; o di insidiose illusioni del nemico. Innanzi tutto è il vizio della gola, cioè la voracità o la ghiottoneria, che produce in noi l’abbondanza degli umori impuri. Quando avviene che la purezza si trovi così offesa in un periodo di stretta penitenza, non se ne deve dar la colpa alle astinenze del momento presente, ma alla sazietà del tempo passato. L’umore che si è accumulato in noi con la voracità e la golosità, bisogna che in un modo o nell’altro sia espulso, anche se il corpo è castigato da un rigoroso digiuno. Per questo, non basta evitare i cibi delicati, bisogna star lontani con uguale astinenza anche dai cibi più vili. Neppure il pane e l’acqua son da prendersi fino alla sazietà, se vogliamo che la purezza del corpo precedentemente acquistata, perduri in noi e imiti in qualche modo la purezza inviolata dello spirito. Detto questo, bisogna anche riconoscere che molti riescono ad evitare, in parte o del tutto, i fenomeni contrari alla purezza fin qui descritti, senza alcuna volontaria attenzione. A loro basta l’equilibrio naturale, o la maturità degli anni. Ma il merito è diverso per colui che ottiene la pace senza il minimo combattimento e per colui che ottiene il trionfo a prezzo di una lotta gloriosa. Nel secondo è degna della massima ammirazione quella forza che riporta vittoria di tutti i vizi; colui invece che da una virtù spontanea è conservato in uno stato d’ignavia, mi sembra più degno di commiserazione che di lode. Passiamo ora alla seconda causa di questo flusso impuro. Se l’anima è completamente priva di occupazioni spirituali, o sante esercitazioni; se non vive secondo la disciplina dell’uomo interiore, abbandonata alla tiepidezza, va a precipitare nel fondo della pigrizia. Allora non si guarda più dagli assalti dei cattivi pensieri e desidera così debolmente la purezza sublime del cuore, da far consistere il culmine della perfezione e della castità nella sola penitenza esteriore. Da questo errore, da questa colpa di trascuratezza, deriverà naturalmente che vere nuvole di pensieri inverecondi penetrino audacemente nell’intimo di quell’anima; anzi ritorneranno in essa tutti i semi degli antichi peccati. E finché tutti quei semi staranno nascosti nei penetrali dell’anima, i digiuni più rigorosi applicati al corpo, non potranno impedire che fantasie impure vengano ad inquietare il sonno. Saranno quei sogni a provocare il flusso degli umori impuri, prima del tempo voluto dalla natura. L’effetto si verificherà non per una necessità naturale, ma per una specie di frode maliziosa. Eppure questi fenomeni, potrebbero essere — se non eliminati — almeno ridotti a qualcosa di materiale soltanto, indebolendo la carne, sorvegliando lo spirito, praticando la virtù, con l’aiuto della grazia divina. Ecco perché è necessario reprimere innanzi tutto le divagazioni della fantasia: così s’impedisce che l’anima, abituata ai suoi eccessi, sia condotta nel sogno ad immagini ripugnanti di lussuria. Siamo ora alla terza causa del triste fenomeno. Con la disciplina regolare ed attenta dell’astinenza, con la contrizione del cuore e del corpo, noi abbiamo sperato di acquistare la purezza di una castità perpetua. Ma ecco che, mentre ci prendiamo tanta cura per il bene vero del corpo e dello spirito, la gelosia del nostro nemico astutissimo ricorre ad uno stratagemma: pensa di farci perdere la fiducia e di umiliarci con qualcosa che ci appaia come una colpa. Sceglie così i giorni in cui maggiormente desideriamo piacere alla divina presenza con una purezza più delicata; in quei giorni eccita in noi il flusso degli umori impuri, senza alcun movimento della carne, senza consenso di sorta, senza fantasmi osceni. Produce questo fenomeno materiale al solo scopo di allontanarci dalla comunione. Ma coi principianti, cioè con coloro nei quali la lunga consuetudine del digiuno non ha ancora completamente domato il corpo, le illusioni diaboliche sembrano avere un altro scopo. Quando li vede applicati ai digiuni più intensi, il maligno cerca di renderli sfiduciati, applicando questo piano d’assalto. Fa loro credere di non aver acquistato nulla che giovi alla purezza del corpo, applicandosi a digiuni tanto rigorosi. Anzi, nel digiuno gli assalti della carne sono diventati più furiosi. Il demonio pensa che così quei monaci impareranno a odiare l’astinenza e vedranno un nemico nella virtù che è maestra di castità, educatrice della purezza. Di qui dobbiamo capire che la necessità di liberarci dai singoli vizi, non nasce dal fatto che ogni vizio può occupare l’anima nostra coi suoi turbamenti. No: questo non è tutto. Il peggio è che un vizio qualsivoglia non si accontenta di esercitare su noi il suo dominio indipendentemente dagli altri; introduce con sé una legione più crudele di lui, devasta l’anima in cui penetra e l’abbandona in balia di molti tiranni(Rm 7, 19). Se è necessario vincere la gola, non si pensi che ciò sia da farsi solo perché la gola non ci corrompa con la pesantezza dei cibi; neppure soltanto per impedire che il cibo accenda in noi il fuoco della concupiscenza carnale. No. Bisogna frenare la gola perché non ci assoggetti all’ira, al furore, alla tristezza e agli altri vizi. Infatti, quando cibo e bevanda ci vengono portati in quantità minore del solito, o con ritardo, o con malgarbo, se siamo schiavi della golosità, è inevitabile che ci sentiamo sollecitati anche dagli impeti dell’ira. Né d’altra parte è possibile dilettarsi dei sapori squisiti senza incorrere anche nel vizio dell’amore per il denaro. È infatti con il denaro che la gola riesce a prepararsi tutte le sue soddisfazioni. Ma l’amore al denaro, la vanagloria, la superbia (e la schiera di tutti gli altri vizi) formano una società indissolubile. Quando un vizio comincia a radicarsi in noi, non resta solo: ne educherà inevitabilmente anche altri. IV. – Domanda: se sia lecito accostarsi dia santa comunicane, quando nella notte si son subite sensazioni carnali Germano. È stata la Provvidenza a farci porre il problema di cui stiamo trattando. Finora non eravamo mai stati istruiti su questo argomento, perché la modestia ci aveva tolto il coraggio d’interrogare. Ma ora la conferenza in cui ci intratteniamo e l’ordine stesso della nostra materia ci invitano a trattare a fondo il tema delicato. Ecco dunque la nostra domanda: se nel tempo in cui stiamo per accostarci alla santa comunione ci capita una di queste illusioni notturne, potremo accostarci al Pane sacrosanto della salvezza, oppure dovremo starne lontani? V. – Risposta: quando, anche dormendo, si possa peccare Teona. È certo che dobbiamo custodire con tutta l’attenzione possibile la purezza immacolata della nostra castità, soprattutto quando desideriamo accostarci alla mensa eucaristica. Dobbiamo evitare con la massima circospezione che l’integrità della nostra carne, conservata per l’addietro, ci sia rapita proprio nella notte in cui ci prepariamo ad accostarci al banchetto della salvezza. Ma se il nostro astutissimo nemico, per toglierci la medicina del pane celeste, inganna nel sonno la nostra anima incustodita, noi possiamo e dobbiamo accostarci ugualmente alla grazia del cibo celeste. Basterà che non ci sia stato da parte nostra né commozione carnale, né consenso al piacere cattivo; tutto dovrà ridursi ad un fenomeno naturale che si è verificato per necessità, o anche per suggestione diabolica, ma senza alcun sentimento di piacere. Se invece l’illusione notturna è dipesa da nostra colpa, dobbiamo mettere sotto accusa la nostra coscienza e ripetere a noi stessi le parole severe dell’Apostolo: «Chiunque mangia questo Pane, o beve il Calice del Signore indegnamente, sarà reo del Corpo e del Sangue del Signore. Ognuno dunque esamini prima se stesso, e così mangi di quel pane e beva del calice; perché chi mangia e beve, senza discernere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna» (1 Cor 2, 27-28). E intende dire: chi si comunica senza la necessaria purezza, non distingue questo cibo celeste dagli alimenti comuni e vili, e non sa distinguerlo perché questo cibo dev’essere ricevuto con piena purezza dell’anima e del corpo. L’Apostolo soggiunge: «È per questo che vi sono tra voi molti ammalati e privi di forze, e tanti son morti» (1 Cor 2, 30). Vuol far così intendere che la malattia e la morte dello spirito nascono principalmente dalla comunione mal fatta [Nota: Gli esegeti non riconoscono per buona la spiegazione di Cassiano]. Molti che ardiscono comunicarsi male son deboli nella fede e nella vita spirituale, cioè sono avvolti nei languori del vizio e dormono il sonno del peccato, senza che qualche scossa salutare venga a svegliarli dal loro sonno funesto. A questo punto l’Apostolo continua: «Se invece ci esaminassimo da noi, non saremmo giudicati» (1 Cor 11, 31). E ciò significa: Se ci giudichiamo indegni di ricevere i sacri misteri tutte le volte che la ferita del peccato ci ha colpiti, ci studieremo anche di liberarci, con la salutare penitenza, dalla colpa commessa, per poi accostarci degnamente alla sacra mensa. Ma se non facciamo così il Signore deve punire la nostra indegnità con durissime malattie, affinché così colpiti, andiamo in cerca del rimedio per le nostre ferite. Se Dio non ci trattasse così, sarebbe segno che ci ha giudicati indegni della breve pena da scontare in questo mondo e ci terrebbe preparati i castighi eterni, stabiliti per i peccatori. Anche il Levitico ci rivolge un comando simile a quello dell’Apostolo: «Solo chi è puro può mangiare la carne della vittima. La persona che avrà mangiato la carne del sacrificio pacifico, offerto a Dio, con qualche immondezza addosso, perirà davanti al Signore» (Lv 7, 19-20). Nel Deuteronomio, poi, l’uomo impuro è misticamente segregato dagli accampamenti spirituali: «Quando uscirai in campo contro i tuoi nemici, guardati da ogni azione cattiva. Se in mezzo a te vi è qualcuno divenuto impuro per qualche caso notturno, esca dal campo e non vi rientri» (Dt 23, 10-11). VI. – Questi turbamenti notturni possono derivare anche da opera diabolica Ora porterò un esempio per provare più chiaramente che certi fenomeni impuri provengono da artificio diabolico. Ho conosciuto un monaco che possedeva una castità a tutta prova, sia di spirito che di corpo: se l’era guadagnata con l’umiltà e con l’attenta custodia dei sensi. Egli non era mai assalito dalle illusioni notturne, però tutte le volte che si preparava a far la comunione, era assalito nel sonno da un flusso di umori impuri. Tremebondo, si astenne per lungo tempo dalla sacra mensa; alla fine portò il suo problema agli Anziani, con la speranza di trovare nel loro prudente consiglio il rimedio a questi assalti e ai suoi dolori. Udito il fatto, la scienza di quei medici spirituali cercò innanzi tutto la prima causa di un tal male, che è — come abbiamo detto — l’abbondanza del cibo. Ma di questa causa non si trovò in quel monaco il più piccolo segno. La sua austerità era nota a tutti; il fatto poi che fosse tormentato da quel fenomeno, proprio in occasione delle grandi solennità, dissuadeva dall’insistere su una tale spiegazione. Passarono quindi prontamente a considerare la seconda causa del male, e cominciarono a domandarsi se non potesse dipendere da colpa dell’anima che quella carne estenuata dai digiuni fosse assalita da illusioni impure. Avviene infatti che anche uomini di somma austerità, per essersi insuperbiti della purezza del loro corpo, cadano in questa umiliazione. Dio li punisce così, per aver essi creduto di raggiungere con le sole loro forze quella castità che è unicamente un dono di Dio. Gli anziani dunque domandarono a quel monaco se si stimasse capace di praticare la castità per le sole sue forze, senza bisogno dell’aiuto divino. Ma quello rispose di rigettare nella maniera più assoluta questo pensiero blasfemo, e disse umilmente che neppure nei giorni in cui si conservò puro avrebbe potuto far ciò se non fosse stato sostenuto dalla grazia del Signore. Allora gli Anziani ricorsero alla terza causa e stabilirono trattarsi di un inganno diabolico. Sicuri ormai che non c’era colpa, né del corpo né dello spirito, decisero coraggiosamente che il monaco si accostasse al banchetto eucaristico. Temevano infatti che, rimanendo ancora lontano dalla comunione, il monaco si impigliasse più che mai nelle reti pericolose del nemico astuto; temevano, insomma, che non potesse partecipare al Corpo, e alla santità di Cristo, che fosse fraudolentemente escluso dal mezzo più efficace di salvezza. Così avvenne, e tutta la trama dell’inganno diabolico fu svelata. La potenza del Corpo di Cristo fece cessare per incanto quella illusione divenuta ormai abituale. Così apparve evidente l’inganno del nemico e fu confermata e chiarita la sentenza degli Anziani, secondo la quale una simile impurità non deriva né da un vizio della carne, né da un vizio dell’anima, ma da una accorta illusione diabolica. Chi vuol ignorare per sempre o almeno per qualche lungo periodo — secondo il nostro umile e comune stato — quei fallaci fantasmi notturni che provocano nel corpo effetti impuri, prima di tutto abbia fede, perché in questa virtù, per una grazia speciale di Dio sta il fondamento del dono della castità. Poi si guardi da ogni eccesso nel mangiare e nel bere. Gli eccessi della mensa, infatti, producono necessariamente e naturalmente certi umori che poi debbono in qualche modo essere espulsi, e possono in tal caso provocare qualche sensazione impura o fantasma osceno. Se fuggiremo ogni sazietà ne avremo come effetto che questi fenomeni impuri saranno più rari. Così avverrà che le illusioni inquieteranno meno i nostri sonni e si presenteranno in modi meno rudi. Non è l’evacuazione di quegli umori che nasce dai fantasmi notturni, son piuttosto quei fantasmi che nascono dall’eccesso degli umori. Pertanto, se vogliamo liberarci da ogni illusione impura, dobbiamo procurare con ogni possibile sforzo, prima di tutto di vincere la passione carnale, affinché, secondo quanto dice l’Apostolo, «Il peccato non regni nel nostro corpo mortale, in modo da tenerci soggetti alle sue concupiscenze» (Rm 6, 12). In secondo luogo è necessario calmare e sopire i moti sregolati della carne, cosicché non «abbandoniamo le nostre membra al peccato» (Rm 6, 13). In terzo luogo dobbiamo mortificare fino nei più intimi recessi il nostro uomo interiore da ogni istinto di concupiscenza, di modo che «da morti che eravamo, possiamo offrirci a Dio come viventi» (Rm 6, 13). Questi continui progressi ci faranno raggiungere la perpetua calma della carne e ci metteranno in grado di offrire «le nostre membra a Dio, come strumenti di giustizia» (Rm 6, 13) e non d’impudicizia. Quando saremo così fondati nella virtù della castità, «Il peccato non eserciterà più il suo dominio su di noi» (Rm 6, 14). Non saremo più «sotto la Legge», la quale prescrive l’uso lecito del matrimonio, ma senza estinguere nelle nostre membra quel fuoco che si manifesta nelle opere impure; saremo invece sotto la grazia, la quale insinua l’amore per la verginità incorruttibile, toglie dal corpo i moti carnali più semplici e innocenti, il desiderio stesso del matrimonio. Dopo aver così inaridite tutte le fonti degli umori impuri, noi diventeremo quei nobili e ammirevoli eunuchi dei quali parla il profeta Isaia, e meriteremo di possedere la gloria che a loro è promessa: «Agli eunuchi che osservano il mio sabato, praticano quello che mi è gradito, mantengono la mia alleanza, io darò nella mia casa, nelle mie mura, un posto ed un nome migliore dei figli e figlie, darò loro un nome eterno che non perirà mai più» (Is 56, 4-5). Ora domandiamoci: chi sono questi «figli» e queste «figlie» a cui gli eunuchi son preferiti fino al punto di ricevere un luogo e un nome migliore? Sono quei santi dell’Antico Testamento che vissero nel matrimonio e giunsero ad acquistare l’adozione di figli di Dio per mezzo dell’osservanza dei comandamenti. E che cosa è poi quel nome che vien promesso come la più alta ricompensa? È il nome di Cristo che noi dobbiamo portare come nostro. A proposito di questo nome il medesimo profeta dice: «Ai miei servi si darà un altro nome, nel quale colui che deve esser benedetto sulla terra sarà benedetto dal Dio di verità, e colui che giurerà sulla terra, giurerà per il Dio di verità» (Is 65 15-16). Lo stesso profeta dice ancora: «Sarà chiamato con un nome nuovo che la bocca di Dio pronuncerà» (Is 62, 2). Va poi aggiunto che coloro i quali godranno di questa purezza del cuore e del corpo, avranno l’altissima e singolare gioia di cantare l’inno che nessun altro santo può cantare, l’inno riservato a coloro che seguono l’Agnello divino dovunque egli vada, perché: «Essi son vergini e non si sono macchiati con donne» (Ap 14, 4). Se vogliamo giungere alla gloria delle schiere verginali, procuriamoci con tutte le nostre forze la purezza dell’anima e del corpo, altrimenti andremo a finire nella schiera di quelle vergini stolte alle quali la verginità non giovò niente. Costoro si erano accontentate di tenersi lontane da ogni contatto carnale, e per questo meritarono d’essere insignite del nome di vergini, ma furono dette vergini stolte perché nei loro vasi mancava l’olio: vale a dire la purezza interiore. Per questo si spense la luce della loro purezza esteriore. Bisogna infatti che sia la purezza interiore a dilatarsi e irradiarsi attraverso la purezza dell’uomo esteriore; dev’essere la castità interiore che alimenta quella esteriore e la incoraggia a perseverare nella integrità perpetua. Ecco la ragione per cui le stolte, pur essendo vergini, non poterono entrare con le prudenti nella camera dello sposo; le prudenti, sì, perché avevano conservato intatto il loro spirito, avevan conservato senza macchia anima e corpo per il giorno del Signore Nostro Gesù Cristo. Ecco quali sono le vere vergini di Cristo, immuni da ogni corruzione; ecco quali sono i veri eunuchi, ammirabili e nobili, di cui parla il profeta Isaia: non coloro che temono la fornicazione e la compiacenza che ne deriva, non coloro che dominano l’impudicizia, ma coloro che hanno superato nella loro anima il più piccolo fremito e il più piccolo moto della passione; coloro che hanno talmente indebolito la potenza della carne, da non provare più — dai suoi movimenti — un piacere o turbamento anche leggero. VII. – Nessuno può mai giudicarsi degno della santa comunione Noi dobbiamo custodire il nostro cuore con una munitissima trincea di umiltà. Ecco una massima che deve starci continuamente scolpita nel cuore; non è merito nostro il raggiungimento della perfetta castità. Perciò, anche se per grazia del Signore, noi avessimo fatto tutto ciò che fin qui abbiamo detto, ci dovremmo ugualmente stimare indegni di comunicarci col Corpo del Signore. I motivi per pensare così sono molti. Innanzi tutto perché questa manna celeste possiede una tale maestà che nessuno, circondato da questa carne di fango, può pensare di riceverla in virtù dei suoi meriti e non per dono gratuito del Signore. In secondo luogo, nessuno, nel combattimento di questo mondo, può esser tanto guardingo da evitare che le frecce del peccato lo raggiungano con ferite anche rare e leggere. È impossibile non cadere in qualche peccato, o per ignoranza, o per negligenza, o per inavvertenza o per pensiero, o per passione, o per immaginazione notturna. Ma facciamo l’ipotesi di uno che abbia raggiunto le più alte cime della virtù, così da poter dire sinceramente con l’Apostolo: «A me non importa affatto di esser giudicato da voi, o da un tribunale umano; anzi non giudico neppure me stesso, perché io non mi sento colpevole di nulla (1 Cor 4,3-4). Ebbene, quest’uomo deve sapere che non è senza peccato. Non per nulla lo stesso Apostolo soggiunge: «Tuttavia da questo non si deduce che io sia riconosciuto giusto» (1 Cor 4,3-4). E questo significa: per il fatto che io mi credo giusto, non posseggo immediatamente la gloria della vera giustizia; oppure: dal fatto che i rimorsi della coscienza non mi rimproverano alcuna colpa, non segue che io sia libero da ogni macchia. Ci sono molte cose che sfuggono alla mia coscienza, ma sebbene nascoste e sconosciute a me, esse sono ben note a Dio. E l’Apostolo continua: «Chi mi giudica è il Signore» (1 Cor 4, 4). Vale a dire: soltanto Colui che penetra nel segreto dei cuori può pronunciare su di me un vero giudizio. VIII. – Obiezione: se nessuno è senza peccato, tutti debbono essere allontanati dalla comunione Germano. Prima tu hai detto che nessuno deve partecipare al celeste banchetto se non è santo, ora tu dici che è impossibile per l’uomo essere completamente esente da colpa, cioè santo. E allora? Se nessuno è senza colpa, nessuno è santo; se nessuno è santo, nessuno può partecipare alla comunione eucaristica. Di conseguenza, nessuno può sperare di raggiungere il regno dei cieli che il Signore promette soltanto ai santi. IX. – Risposta: sebbene ci siano molti santi, nessuno, all’infuori di Cristo, è senza peccato Teona. Io non posso negare che esistano molti santi e molti giusti, ma tra santo e immacolato c’è una bella differenza. Altro è essere santo, cioè consacrato al culto divino, altro è esser senza peccato. Santo — secondo la testimonianza della sacra Scrittura — è nome comune, conviene agli uomini, ai luoghi, ai vasi, agli utensili del tempio. Esser senza peccato appartiene singolarmente alla maestà di nostro Signore Gesù Cristo, del quale l’Apostolo proclama l’attributo altissimo e singolare: «Egli non ha commesso peccato» (1 Pt 2, 22). Se fosse possibile anche a noi vivere completamente immuni dal peccato, la lode tributata al Signore, come attributo incomparabile e divino, sarebbe stata ben poca cosa. Ma non è così. S. Paolo dice nella lettera agli Ebrei: «Noi non abbiamo un Pontefice che non sia in grado d’aver compassione delle nostre infermità, ma al contrario, egli è stato messo alla prova in tutto come noi, tranne il peccato» (Eb 4, 15). Se fosse vero che la nostra bassezza terrestre sta alla pari con l’altezza del Pontefice celeste, se fosse vero cioè che anche noi siamo tentati senza cadere in peccato, potrebbe l’Apostolo celebrare l’impeccabilità di Cristo come unico e sublime privilegio? Come potrebbe innalzarlo al di sopra di tutti gli altri uomini, proprio in ragione di quel privilegio? Questa dunque è l’unica eccezione che distingue il Signore da noi: noi non siamo tentati senza cadere in peccato, egli fu tentato senza che cadesse in peccato. Chi è infatti quell’uomo tanto coraggioso e valoroso che non possa esser mai raggiunto da qualche dardo del nemico? Chi è colui che può restare nel tumulto di questa lotta senza correre alcun pericolo, quasi fosse rivestito di una carne invulnerabile? Cristo solo, «il più bello dei figli degli uomini» (Sal 45 (44), 3), assumendo la nostra condizione mortale e la fragilità della carne, non fu toccato mai dalla macchia del peccato. X. – Solo il figlio di Dio ha vinto il tentatore senta essere minimamente ferito dal peccato Gesù, a somiglianza di noi, provò la tentazione della gola. L’astuto serpente, seguendo la tattica usata con Adamo, tentò di sedurre e superare il Signore che aveva fame, col desiderio del cibo. «Se tu sei figlio di Dio — disse — comanda che queste pietre diventino pane» (Mt 4, 3). Ma la tentazione non apre in questo caso la via al peccato. Quantunque un tale miracolo fosse pienamente possibile, il Signore rifiuta il cibo suggeritogli dall’odiatore di tutti gli uomini: «L’uomo — risponde — non vive di solo pane, ma di ogni parola che viene dalla bocca di Dio» (Mt 4, 4). Il Signore, a somiglianza nostra, fu tentato anche di vanagloria. Gli fu detto: «Se sei figlio di Dio, gettati giù» (Mt 4, 6). Ma non si lasciò prendere dalla sciocca suggestione diabolica e respinse il malaccorto seduttore con un’altra citazione della sacra Scrittura: «Sta scritto — disse — non tenterai il Signore Dio tuo» (Mt 4, 7). Il Signore fu tentato, a somiglianza nostra, anche di superbia, quando il demonio gli promise tutti i regni del mondo e la loro gloria. Ma la vanità del tentatore fu derisa e respinta. Gli rispose infatti: «Vattene, Satana! Poiché sta scritto: Adorerai il Signore Dio tuo e servirai a lui solo» (Mt 4, 10). Questi fatti ci insegnano che anche noi dobbiamo resistere alle pericolose suggestioni del demonio col ricordo della sacra Scrittura. Gesù fu tentato ancora una volta di superbia quando il demonio gli fece offrire dagli uomini quella dignità regia che aveva già rifiutato al tempo delle tentazioni nel deserto. Ma anche questa volta si liberò dalle insidie del tentatore senza cadere in peccato. «Accortosi che venivano a rapirlo per farlo re, si ritirò di nuovo solo, sulla montagna» (Gv 6, 15) Gesù fu tentato, a somiglianza nostra, anche quando fu battuto coi flagelli, colpito da schiaffi, ricoperto orribilmente di sputi, quando finalmente sopportò i tormenti indicibili della croce. Ma oltre a non rispondere con offese alle offese, non si lasciò andare neppure al più piccolo moto di sdegno. Anzi, dall’alto della croce lanciò questa invocazione di bontà: «Padre, perdonali: non sanno quello che fanno» (Lc 23, 34). XI – Solo Cristo è venuto nella somiglianza di una carne infetta dal peccato Come si dovrebbero spiegare le parole dell’Apostolo: «È venuto nella somiglianza della carne di peccato», qualora fosse vero che possiamo avere anche noi una carne esente dalla macchia del peccato? No. Con le parole: «Dio ha mandato il suo proprio Figlio in una carne somigliante a quella del peccato» (Rm 8, 3), l’Apostolo ha inteso di indicare il privilegio unico e personale di Colui che è senza peccato. Dobbiamo ritenere che Cristo, assumendo veracemente e integralmente la sostanza della nostra carne, non assunse con quella anche il peccato, ma solo la somiglianza del peccato. Per tal modo il termine somiglianza non si oppone alla verità della carne di Cristo, come falsamente pensano alcuni eretici, ma è da riferirsi unicamente al peccato. In Gesù c’era una vera carne, ma non c’era il peccato: di questo c’era soltanto un’immagine, un’apparenza. La prima parte del versetto paolino afferma la realtà della natura umana, la seconda parte (quella della somiglianza) si riferisce ai vizi e ai costumi dell’uomo. Gesù mostrò la sua somiglianza con la carne peccatrice allorché domandò, come un uomo ignaro e preoccupato: «Quanti pani avete?»(Mt 6, 38). Ma come il suo corpo non era soggetto al peccato, così neppure la sua anima era soggetta all’ignoranza. Infatti il Vangelo subito aggiunge: «Diceva ciò per metterli alla prova; egli infatti sapeva bene quanto stava per fare» (Gv 6, 6). Aveva una carne somigliante a quella peccatrice, quando domandava da bere, come un qualsiasi assetato, alla donna samaritana. Ma la sua carne non era contagiata dal peccato, perché subito dopo invitava la donna a domandare a Lui un’acqua viva che le avrebbe tolta per sempre la sete. Anzi prometteva che in lei si sarebbe sprigionata una fonte capace di salire fino alla vita eterna. Gesù aveva una vera carne quando si addormentò nella nave. Ma perché quelli che navigavano non pensassero che egli avesse anche la realtà del peccato, si alzò, «comandò ai venti e al mare e si fece una gran calma» (Mt 8, 26). Egli sembrava sottomesso alla comune legge del peccato quando si diceva di lui: «Se quest’uomo fosse profeta, saprebbe chi è questa donna che lo tocca» (Lc 7, 39). Ma non aveva la realtà del peccato, perché subito rintuzzò il pensiero malevolo del Fariseo e perdonò i peccati alla donna. Si poteva pensare che avesse una carne peccatrice al pari di tutti gli altri uomini, quando, vicino a morte, e assalito dal terrore alla vista dei mali che stavano per assalirlo, uscì in questa preghiera: «Padre, se è possibile, si allontani da me questo calice» (Mt 26, 39). E ancora: «L’anima mia è triste fino alla morte» (Mt 26, 38). Ma quella tristezza era immune dal contagio del peccato, perché il creatore della vita non poteva temere la morte. Diceva infatti: «Nessuno mi può togliere la vita; la dò io da me stesso; e ho il potere di darla e di prenderla di nuovo» (Gv 10, 18). XII. – I santi e i giusti non hanno la somiglianza del peccato, ma hanno la realtà Ecco dunque la grande differenza che corre tra l’Uomo nato dalla Vergine e tutti coloro che nascono da una unione carnale. Noi tutti portiamo nella carne, non la somiglianza, ma la realtà del peccato; lui invece, pur avendo preso una vera carne, non ebbe la verità del peccato, ma ne ebbe la somiglianza soltanto. Questo spiega perché i farisei, pur avendo letto in Isaia: «Egli non commise peccato, e sulle sue labbra non si trovò inganno» (Is 53, 9), vedendolo poi nella somiglianza di una carne peccatrice, si ingannarono e dissero: «Ecco un mangione e un bevitore, amico dei pubblicani e dei peccatori» (Mt 11, 19). Al cieco guarito dissero: «Da’ gloria a Dio! Noi sappiamo che quest’uomo è peccatore» (Gv 9, 24). E a Pilato: «Se non fosse un malfattore non te l’avremmo consegnato» (Gv 18, 30). Chi ardisce proclamarsi senza peccato, pecca di superbia e di bestemmia, perché si arroga l’uguaglianza di un privilegio che spetta unicamente al Signore. Dice in altri termini che ha, lui pure, la somiglianza con la carne peccatrice, ma non ha vero peccato. XIII. – I peccati dei santi non sono tanto gravi da toglier loro la corona della santità La stessa sacra Scrittura attesta chiaramente che anche i santi e i giusti non sono immuni dal peccato. Dice infatti: «Il giusto cade sette volte e si rialza» (Pr 24, 16). Che altro significa quel «cadere», se non peccare? Tuttavia colui che cade sette volte si chiama ancora «giusto»: ciò vuol dire che le cadute per pura fragilità non recano danno alla sua giustizia. Fra le cadute del giusto e quelle del peccatore c’è una differenza abissale. Altro è commettere un peccato mortale, altro è lasciarsi sorprendere da un pensiero che non è privo di un aspetto peccaminoso; oppure cadere per ignoranza, per dimenticanza, per parole inutili improvvisamente scappate dalle labbra, o per aver avuto un momento d’esitazione sulla fede, o per essere stato solleticato da un sottile sentimento di vanagloria, o per essersi un poco allontanato dal culmine della perfezione, dato il peso della natura. Tali sono le sette specie di cadute che si trovano nella vita dei santi, senza che essi cessino per questo di esser giusti. Tuttavia, per quanto leggere e di poco danno, quelle cadute impediscono ai giusti di esser senza peccato. Così anche i santi hanno un vero motivo per far penitenza ogni giorno, per chiedere perdono, per pregare incessantemente a causa dei loro peccati, e dire: «Rimetti a noi i nostri debiti» (Mt 6, 12). Voglio ora provare con qualche esempio che i santi hanno peccato, senza venir meno per questo alla giustizia. Prendiamo il beato Pietro, principe degli Apostoli. Come pensare che egli non fosse santo, specialmente quando il Signore gli diceva: «Beato te, o Simone figlio di Giona, perché non la carne né il sangue ti ha rivelato questo, ma il Padre mio che è nei cieli»? E: «A te darò le chiavi del regno dei cieli: qualunque cosa avrai legata sulla terra, sarà legata anche nei cieli; e qualunque cosa avrai sciolta sulla terra, sarà sciolta anche nei cieli» (Mt 16, 17 e 19). Che cosa ci può essere di più bello che questa lode risonata sulle labbra del Signore? Che cosa può esserci più sublime di questa potestà e di questa beatitudine? Tuttavia, poco tempo dopo, nella sua ignoranza del mistero della passione, Pietro si oppone, senza saperlo, all’atto da cui doveva nascere la salvezza del genere umano: «Deh, che non sia, Signore! Questo non ti avverrà mai» (Mt 16, 22). Perciò si merita di sentirsi rispondere: «Va’ lontano da me, Satana! Tu mi sei di scandalo; perché non ragioni secondo Dio ma secondo gli uomini» (Mt 26, 22). E se Gesù, che è la verità e la giustizia stessa, rimprovera il suo Apostolo con queste parole, potremo credere che non sia veramente caduto, oppure che — cadendo — non sia rimasto nella santità e nella giustizia? E quando il timore della persecuzione porta Pietro a rinnegare tre volte il suo Maestro, si potrà negare che egli è veramente caduto? Tuttavia il rimorso segue immediatamente la colpa; lacrime amarissime lavano la macchia di un sì grande peccato: così l’Apostolo non perde il merito della santità e della giustizia. A Pietro dunque, e ai santi che a lui somigliano, dobbiamo riferire le parole di David: «Dio custodisce il cammino del giusto, gli dà fermezza e in esso si compiace; se pure egli cade, non rimane prostrato, perché il Signore lo regge per mano» (Sal 37 (36), 23-24). Colui che il Signore guida passo per passo, chi può essere se non il giusto? Eppure di esso si dice: «Se cade, non si abbatterà». Che cosa significa quel «se cade?». Certamente la caduta in un peccato! «Non si abbatterà», dice il Signore. Che significa? Che gli assalti del peccato non l’opprimeranno a lungo. Se per il momento sembra spezzato, con una pronta risurrezione ricupererà la stabilità della giustizia: risollevato dall’aiuto di Dio che ha implorato. Quel che momentaneamente ha perduto, per la fragilità della carne, glielo renderà la mano del Signore che lo sostiene. Un uomo non cessa d’essere santo per una caduta. Basta che riconosca di non poter esser giustificato dal valore delle sue opere; basta che sia persuaso che solo la grazia del Signore può liberarlo dalle catene del peccato; basta che incessantemente ripeta con l’Apostolo: «Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte? La grazia di Dio, per Gesù Cristo Signor nostro» (Rm 7, 24-25). XIV. – Come va intesa la parola dell’Apostolo: «Io non faccio il bene che vedo» L’apostolo Paolo riconosce che l’uomo — a causa dei suoi pensieri in continuo stato d’ebollizione — non è capace di penetrare fino nella profondità senza limite della purezza. Lui stesso — benché apostolo — si è sentito sballottato in alto mare e ha lasciato scritto: «Io non faccio il bene che voglio; ma al contrario, faccio il male che non voglio» (Rm 7, 19). E ancora: «Ora, se io faccio quello che non voglio, non sono io che lo faccio, ma il peccato che abita in me» (Rm 7, 20). E insiste: «Provo diletto nella legge di Dio, secondo l’uomo interiore; ma vedo nelle mie membra un’altra legge, che lotta contro la legge della mia mente e che mi rende schiavo della legge del peccato, che è nelle mie membra» (Rm 7, 22-23). L’Apostolo dunque è consapevole della sua fragilità e della fragilità della natura umana. Atterrito davanti a questo abisso incommensurabile, cerca rifugio nel porto sicuro dell’aiuto divino. Disperando per la sua imbarcazione che vede prossima al naufragio, per la pesantezza della carne che l’opprime, supplica l’Onnipotente a volerlo salvare dal naufragio. Così implora gemendo: «Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte?» (Rm 7, 24). E subito, quella liberazione che non poteva attendere dalla debolezza della natura, la spera dalla misericordia divina. Soggiunge infatti: «Mi libererà la grazia di Dio, per mezzo di Gesù Cristo Signor Nostro» (Rm 7, 25). XV. – Obiezione: non è meglio pensare che l’Apostolo abbia parlato a nome del peccatore? Germano. Molti pensano che questo passo di san Paolo non sia da intendersi nel senso che l’Apostolo parli in persona propria, ma in persona di quei peccatori che vorrebbero allontanarsi dai piaceri della carne. Nonostante la buona volontà, costoro restano prigionieri di vizi inveterati, sedotti dalle passioni della carne; perciò sono incapaci di dominarsi. L’abitudine al male li opprime sotto una crudele tirannia che non permette di respirare l’aria pura della libertà e della virtù. Per quanto concerne l’apostolo Paolo, dato che egli era certamente arrivato al culmine della perfezione, non vedo come gli si potrebbero applicare queste parole: «Io non faccio il bene che voglio, ma faccio il male che non voglio». Neppure gli si addicono le parole che seguono: «Ma se faccio quello che non voglio, non sono io a farlo, ma il peccato che abita in me». Lo stesso dicasi delle altre: «Io mi compiaccio nella legge di Dio secondo l’uomo interiore, ma vedo nelle mie membra un’altra legge che si oppone alla legge dello spirito e mi rende schiavo della legge del peccato, che è nelle mie membra». Come si può applicare tutto ciò alla persona dell’Apostolo? Qual è il bene che egli non poteva compiere? Qual è il male che commetteva, nonostante che non lo volesse, anzi, nonostante che lo odiasse? Sotto quale legge del peccato si trovò ad essere schiavo questo «vaso d’elezione» per bocca del quale parlava il Signore? Non è lui che dice di aver soggiogato ogni disobbedienza e «ogni orgogliosa potenza che osa levarsi contro Dio»? (2 Cor 10, 5). Non è lui che dice fiduciosamente di se stesso: «Ho combattuto la buona battaglia, ho compiuto la mia corsa, sono stato fedele. Ormai non mi resta che ricevere la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi darà in quel giorno e non soltanto a me, ma anche a tutti quelli che avranno atteso con amore la sua venuta»? (2 Tm 4, 7-8). Teona. Mentre sto entrando nel porto sicuro del silenzio, voi cercate di ricondurmi nel mare immenso di una questione piena di misteri profondi. Ma dopo aver compiuto, con la Conferenza, un viaggio già molto lungo, valendoci ora di un approdo propizio, gettiamo l’àncora del silenzio. Domani, se non si opporrà la violenza di qualche tempesta, alzeremo le vele per una nuova navigazione, posto che il vento ci si mostri propizio. TERZA CONFERENZA DELL’ABATE TEONA SULL’IMPECCABILITA’ Indice dei capitoli I – Precisazioni dell’abate Teona sulle parole dell’Apostolo: « Non faccio il bene che vedo » Quando ritornò la luce del giorno, facemmo le più vive istanze al vecchio abate, affinché volesse profondamente esaminare il senso delle parole di san Paolo dette sopra. Teona ci rispose così: voi volete portar prove per dimostrare che l’Apostolo non parlava di se stesso, bensì dei peccatori in genere, quando diceva: « Io non faccio il bene che vedo, ma faccio il male che odio »; oppure: « Se io faccio quello che non voglio, non sono io a farlo: è il peccato che abita in me ». E ancora: « Mi compiaccio della legge di Dio secondo l’uomo interiore, ma vedo nelle mie membra un’altra legge che si oppone alla legge dello spirito e mi rende schiavo sotto la legge del peccato, che è nelle mie membra ». Devo farvi osservare che non esiste alcun motivo per applicare queste parole di san Paolo alla persona del peccatore. Il discorso riguarda solo i perfetti: un simile linguaggio si addice soltanto alla santità di coloro che imitano le virtù degli Apostoli. Del resto, in qual modo potrebbero applicarsi al peccatore le parole: « Io non faccio il bene che vedo, ma faccio il male che odio »? Oppure le altre: « Se io faccio quel che non voglio, non sono io a farlo, ma il peccato che abita in me »? Qual è quel peccatore che si macchia di adulterio o d’impurità, senza volerlo? Quale è il peccatore che inganna il prossimo senza avvedersene? Chi è forzato da una necessità inevitabile a dire il falso al fratello, o a recargli danno col furto? Chi è obbligato a desiderare i beni del prossimo, o a spargere il sangue? Nella sacra Scrittura si legge: « I pensieri del cuore umano sono malvagi fin dalla sua fanciullezza » (Gn 8,21). Tutti coloro che sono accesi d’amore per il vizio, desiderano mandare ad effetto i loro desideri. Vegliano e non dormono neppure, stanno in timore di arrivar troppo tardi a soddisfare le loro brame. Si gloriano della loro stessa vergogna, cercano lode da ciò che li disonorerà, come dice di loro l’Apostolo, in tono di rimprovero (Fil 3,19). Di costoro parla anche il profeta Geremia e dice che commettono i loro delitti e le loro turpitudini senza resistenza della volontà, con piena tranquillità del cuore e del corpo. Anzi si assoggettano a grandi fatiche per mandare ad effetto i loro piani, tanto ché neppure le difficoltà più ardue che trovano sulla loro via, valgono a trattenerli dall’appetito orribile del peccato. Dice il profeta: « Si sono affaticati per fare il male » (Ger 9,5). E chi potrebbe dire che conviene ai peccatori l’altra parola dell’Apostolo: « Con la mente sono servo della legge di Dio, ma con la carne sono schiavo della legge del peccato » (Rm 7,25)? Non è chiaro per tutti che i peccatori non servono Dio né con lo spirito né con la carne? E come potrebbero servire Dio con la mente coloro che peccano col corpo? La carne riceve dal cuore — cioè dallo spirito — la spinta a peccare. Colui che ha creato carne e spirito, dice che da quest’ultimo, come da una fonte, emana lo stimolo a peccare. « Dal cuore vengono i cattivi pensieri, gli omicidi, gli adulteri, le fornicazioni, i furti, le false testimonianze » (Mt 15,19). Da tutto ciò è facile intendere che quelle parole di san Paolo non sono da prendere come dette in persona dei peccatori (Nota: La questione toccata in questo capitolo e in tutta la Conferenza XXIII, è molto difficile. Gli esegeti moderni, come Lagrange e Prat, dicono che san Paolo parla in persona di un giudeo che è illuminato dalla legge, ma vinto dalla concupiscenza. Questa spiegazione ci pare la migliore. Gli esegeti antichi, come sant’Agostino, dopo aver detto che l’Apostolo parlava a nome di un ebreo, pensarono che parlasse in persona di un cristiano giustificato, ma combattuto dalla concupiscenza. Di questo parere è anche sant’Ilario). Essi infatti non odiano il male, ma lo amano; non solo rifiutano di servire Dio con la carne, ma non lo servono neppure con lo spirito. Peccano prima con lo spirito che con la carne: prima di abbandonare il loro corpo al piacere, hanno già peccato col pensiero e con lo spirito. II- Delle virtù che si trovarono nell’Apostolo Dobbiamo stabilire il senso esatto delle parole dal sentimento intimo di chi le pronuncia; insomma dobbiamo stabilire che cos’è che l’Apostolo ha chiamato bene e che cos’è che ha chiamato male, e ciò non dal suono nudo e crudo delle parole, ma partendo dallo stato d’animo in cui san Paolo si trovava. Noi esploreremo il pensiero dell’Apostolo tenendo presente la sua dignità e il suo merito. Il metodo migliore per comprendere le massime ispirate da Dio è quello di considerare attentamente la dignità e il merito di coloro che le pronunciano; e rivestirci — non a parole ma realmente — dei medesimi sentimenti. Il modo di concepire e d’esprimere qualcosa dipende indubbiamente dallo stato in cui uno si trova. Vediamo dunque di scoprire quale sia quel bene altissimo che l’Apostolo non è riuscito a compiere, nonostante che volesse compierlo. Noi conosciamo molti beni che san Paolo e gli uomini simili a lui, o ebbero per natura o acquistarono per grazia. È buona la castità, è lodevole la continenza, ammirabile la prudenza, generosa l’ospitalità, delicata la sobrietà, modesta la temperanza, pietosa la misericordia, santa la giustizia. Certamente tutte queste virtù si trovarono nell’Apostolo e negli altri uomini santi e perfetti che insegnarono la religione più con la santità della vita che con l’eloquenza delle parole. Che dire poi della sollecitudine continua per tutte le chiese, che li consumava come un fuoco? E non è segno di grande misericordia, di alta perfezione, ardere per coloro che subiscono scandalo, sentirsi infermi con coloro che sono ammalati? Se l’Apostolo è in possesso di tanti e così grandi beni, quale sarà quello che non ha potuto possedere perfettamente? Non potremo saperlo se prima non saremo penetrati a fondo nel sentimento che ha spinto san Paolo a parlare così. Tutte le virtù che l’Apostolo possedeva erano senza dubbio perle splendenti e preziose; tuttavia, se paragonate a quella margherita unica per la quale il mercante evangelico vende tutte le sue ricchezze, diventavano di un valore attenuato e ordinario. È per questo che si deve esser disposti a rinunciare prontamente a tutti i beni per acquistare quel bene che solo ci fa ricchi. III – Quale sia il bene vero che l’Apostolo dice di non aver condotto alla perfezione Qual è dunque questo bene unico, così superiore a tutti gli altri da dover lasciare e disprezzare ogni altro bene pur di possederlo? Si tratta senza dubbio di quella « parte ottima » che Maria preferì — per la sua magnificenza e perpetuità — ai doveri di ospitalità. Di questa « parte » parlò, esaltandola, il Signore, quando disse: « Marta, Marta, ti preoccupi e t’affanni per troppe cose. Ma poche cose bastano, anzi una sola! Maria ha scelto la parte migliore che non le sarà tolta » (Lc 10,41-42). Solo la teorìa, cioè la contemplazione di Dio, è necessaria; il suo merito sorpassa tutti i meriti delle azioni più sante, tutti gli sforzi della virtù. Le belle qualità che abbiamo visto brillare nell’apostolo Paolo erano certamente tutte buone, utili, grandi e illustri. Ma come lo stagno — che sembra possedere qualche bellezza e valore — diventa vilissimo quando è paragonato con l’argento; come si dilegua il pregio dell’argento se vien paragonato con l’oro; come lo stesso oro diviene spregevole se confrontato con le pietre preziose; come la bellezza di tutte le pietre preziose si offusca davanti allo splendore di una sola perla, così tutti i meriti della santità appaiono vili e degni di essere alienati quando si paragonano col merito* della divina contemplazione. E i meriti della vita attiva —si noti bene — non sono utili solo per la vita presente, ma ci procurano anche il dono della vita eterna. L’autorità delle sacre Scritture confermerà la nostra sentenza. Non è vero che esse dicono di tutte le creature del Signore: « Tutte le cose che fece Dio erano molto buone » (Gn 1,32)? E ancora: « Tutte le cose che Dio ha fatto sono buone nel loro tempo » (Lv 39,16)? È vero dunque che le cose materiali son proclamate buone in relazione al tempo presente; né son proclamate buone semplicemente, ma molto buone, cioè buone superlativamente. In realtà, finché rimaniamo in questa terra, quelle cose che sono utili alle necessità della vita, conferiscono alla salute del corpo, ed hanno- molte altre utilità a noi sconosciute. La loro bontà si rivela anche dal fatto che ci aiutano a vedere « gli attributi invisibili di Dio attraverso le opere del mondo creato, e a contemplare la sua onnipotenza e la sua divinità » (R 1,20), nell’immensità armoniosa dell’universo creato e di tutti gli esseri che in esso sussistono. Ma quando si paragonano queste creature con quel secolo futuro, in cui i beni restano immutabili, e non c’è più da temere la perdita della vera felicità, si dovrà concludere che tutti i beni creati, a mala pena possono conservare il nome di beni. Ecco la descrizione del mondo futuro: « La luce della luna sarà come quella del sole, e la luce del sole brillerà sette volte di più, come la luce di sette giorni » (Is. 30, 26). Le cose di questo mondo, che pur sono grandi, belle, meravigliose a vedersi, appariranno nulla se confrontate a quelle che ci promette la fede come premio futuro. Dice David: « Tutte le cose invecchieranno come un vestito e tu le cambierai, Signore, come si cambia un mantello. Ma tu sei sempre lo stesso e i tuoi anni hanno fine » (Sal 101,27-28). Concludiamo dunque: se niente è duraturo per se stesso, se niente è immutabile, se niente è buono, all’infuori di Dio; se nessuna creatura può ottenere per se stessa felicità e stabilità eterna, ma può ottenerne una partecipazione modesta, e per grazia del suo Creatore, è evidente che tutta la bontà creata diventa nulla quando sia paragonata con la bontà del Creatore. IV – Bontà e giustizia umana non sono più buone se si paragonano con la bontà e la giustizia di Dio , Se vorremo, potremo trovare testimonianze più esplicite per confermare questa verità. Nel Vangelo, per esempio, molte cose son chiamate buone: si parla di un buon albero, di un buon tesoro; di un uomo buono, di un buon servo. « Non può un albero buono fare frutti cattivi » (Mt 7,18). « L’uomo buono tira fuori, dal tesoro del suo cuore, cose buone » (Mt 12,35). « Vieni servo buono e fedele » (Mt 25,21). Non c’è alcun dubbio sulla bontà di queste cose; tuttavia se guardiamo la bontà di Dio nessuna di queste cose potrà più esser chiamata buona. Dice infatti il Signore: « Nessuno è buono all’infuori di Dio » (Lc 18,19). In confronto con Dio, gli stessi Apostoli, che superavano di gran lunga la bontà comune degli uomini (per il dono della loro elezione) son dichiarati cattivi. Si rivolge infatti a loro quel discorso del Signore che dice: « Se voi che siete cattivi sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il vostro Padre che è nei cieli darà i veri beni a coloro che glieli domandano » (Mt 7,11). E come la nostra bontà diventa cattiveria, se confrontata con la bontà divina, così la nostra giustizia appare somigliante a un panno sporco, se si confronta con la giustizia di Dio. « Tutte le nostre giustizie — dice il profeta Isaia — assomigliano ad un panno immondo » (Is 64,6). Se si vuole una prova più evidente, si prenda la Legge. I suoi comandi sono precetti di vita, perché « Essa è stata data per mezzo degli angeli e per l’interposizione di mediatore » (Gal 3,19). San Paolo dice ancora, a proposito della Legge, che essa è « Santa e i suoi comandi son giusti e buoni » (Rm 7,12). Ma se la confrontiamo con la perfezione evangelica si scopre che per testimonianza di Dio è giudicata niente affatto buona: « Ho dato loro dei comandi che non son buoni, degli ordini nei quali non trovino la vita » (Ez 20, 25). San Paolo afferma pure che tutto lo splendore della Legge si oscura al confronto del Vangelo; dopo questo confronto la Legge non merita più di essere glorificata. « Ciò che una volta fu glorificato cessa di esser degno di gloria, al confronto di questa gloria superiore » (2 Cor 3,10). Anche la sacra Scrittura fa uso di comparazioni simili alle nostre, solo che essa segue la via opposta, in quanto mette a confronto peccati più gravi e meno gravi. In confronto con peccatori più perversi, essa giustifica coloro che hanno peccato più lievemente. Dice infatti: « Tu hai giustificato Sodoma »; e ancora: « Quale fu il peccato di Sodoma tua sorella? » (Ez 16, 52, 49). Altrove dice: « L’infedele Israele è apparso giusto in confronto con la perfidia di Giuda » (Ger 3, 11). Lo stesso avviene per tutte le virtù ricordate sopra: siano pure buone e preziose in se stesse, lo splendore della teoria le oscura. La ragione è che i santi, anche se occupati in opere buone, sono impediti dalle preoccupazioni terrestri dall’attendere completamente alla contemplazione del bene supremo. V – Nessuno può essere continuamente rivolto al bene sommo Ecco uno che « libera il debole dalle mani dei più forti, il povero e l’indigente da coloro che lo tiranneggiano » (Sal 34, 10); spezza le zanne degli ingiusti, strappa la preda dai loro denti » (Gb 29, 17). È possibile che costui, mentre esercita il suo ufficio di giustizia, possa elevare lo sguardo e la sua anima tranquilla verso la maestà divina? Un altro distribuisce elemosine ai poveri, riceve con squisita cortesia le turbe degli ospiti o dei visitatori che giungono… certamente fa bene, ma nel tempo in cui le necessità dei fratelli tengono occupato e preoccupato il suo spirito, sarà capace di indirizzare il suo sguardo all’oceano senza sponde della beatitudine celeste? Il suo cuore, così preso dalle inquietudini e dalle sollecitudini della vita presente, saprà elevarsi al disopra del contagio terrestre per contemplare la condizione del secolo futuro? Per queste ragioni David desidera stare continuamente unito al Signore e afferma che solo quella unione è buona per l’uomo « L’unica cosa buona per me è stare unito al Signore e porre in Lui la mia speranza » (Sal 72, 28). L’Ecclesiaste, poi, afferma che nessuno, sia pure un santo, è capace di attuare alla perfezione questo programma. « Non c’è sulla terra un uomo giusto che operi il bene senza mai peccare » (Sir 7, 21). Ora io domando: chi potrà credere di essere riuscito — pur restando in questo corpo mortale — a possedere immutabilmente il sommo Bene, a non distogliersi mai dalla contemplazione divina, a non lasciarsi distrarre neppure un istante dal contemplare Colui che solo è buono? Chi — fosse pure il più eccelso di tutti i giusti e di tutti i santi — può pensare di giungere a questa altezza? S’è mai trovato qualcuno che non si preoccupasse neppur minimamente del cibo, dell’abito e delle altre necessità corporali? Chi può dire di non essersi mai affannato per ospitare i fratelli, per cambiare dimora, per costruire una cella? Chi è che non ha mai desiderato il soccorso degli uomini, oppure non ha meritato — per un timore troppo forte natogli dalla sua povertà — quel rimprovero del Signore: « Non vi affannate per la vostra vita, pensando a ciò che mangerete, o per il vostro corpo pensando a ciò di cui vi vestirete » (Mt. 6, 25)? Perfino l’apostolo Paolo, che sorpassò coi suoi dolori le fatiche di tutti i santi, potè giungere a tanta perfezione. Dico ciò senza timore di esagerare, perché lo stesso Apostolo fa questa protesta dinanzi ai suoi discepoli, nel libro degli Atti: « Voi sapete che alle mie necessità e a quelle di coloro che sono con me, hanno provveduto queste mie mani » (Dt 20, 34). Scrivendo ai Tessalonicesi afferma di aver « lavorato notte e giorno con fatica e pena » (2 Ts Rm 9, 3-4). È vero che da questa condotta gli derivarono tesori di meriti; l’anima sua però — anche se sublime in santità — non poteva fare a meno di essere qualche volta separata dalla celeste teoria, a causa delle occupazioni terrestri. L’Apostolo riconosce da un lato i frutti preziosissimi che ottiene dalla vita attiva; dall’altro lato considera in cuor suo il bene della contemplazione; finalmente pone sopra un piatto della bilancia il frutto delle sue innumerevoli fatiche e sull’altro la delizia della contemplazione divina, per farne la stima. Dopo aver lungamente cercato di ridurre alla perfezione il suo giudizio, che era attratto verso una parte dal valore immenso delle sue fatiche e dall’altra dal desiderio della perfetta unione con Cristo che gli faceva desiderare perfino il dissolvimento della sua carne, alla fine esclama incerto: « Non so che cosa scegliere. Sono angustiato da due parti: desidero di vedere spezzati i legami della carne e di essere con Cristo, e questo è senza dubbio più bello; ma è più utile che io rimanga ancora in questa carne per il vostro vantaggio » (Fil 1,22-24). È chiaro che l’Apostolo pone la contemplazione ai disopra dei frutti prodotti con le sue fatiche apostoliche; tuttavia vi rinuncia in nome di quella carità senza la quale non si può aver parte col Signore. Per amore di coloro che egli nutre — a somiglianza di una madre — col latte del Vangelo, non ricusa la divisione da Cristo, dannosa per lui, ma utile agli altri. Lo spinge a questa scelta la sua intensissima pietà, quella stessa pietà che lo spinge a desiderare — se ciò fosse possibile — il male supremo, che è l’anatema, se ciò può tornare a vantaggio dei fratelli. « Desidero —- egli dice — essere anatema da Cristo per il bene dei miei fratelli, che sono i miei consanguinei secondo la carne, cioè gli Israeliti » (Rm 9,3-4). In altre parole l’Apostolo dice: io vorrei sottopormi non solo alle pene temporali, ma anche a quelle eterne, purché tutti godessero l’unione con Cristo. Sono infatti convinto che la salvezza di tutti gli uomini è più utile a Cristo, e anche a me, della mia stessa personale salvezza. Ma riprendiamo il nostro discorso. L’Apostolo, pur di ottenere il sommo bene, che consiste nel godere la visione di Dio e nel rimanere per sempre uniti a Cristo, bramerebbe vedere il suo spirito sciolto dai legami terrestri: il corpo1 infatti è caduco ed è impedito da molte debolezze derivanti dalla sua fragilità; per questo è impossibile che qualche volta non resti separato dall’unione con Cristo. Ma anche l’anima, finché è distratta da tanti affanni, finché è turbata da tante inquietudini moleste, è incapace di godere ininterrottamente l’unione con Dio. Quale santo è stato così perseverante, quale vita è stata così austera, da poter impedire ogni illusione all’astuto avversario? S’è mai conosciuto qualcuno il quale abbia così penetrato il segreto della solitudine, abbia talmente fuggito i contatti con gli uomini, da non abbandonarsi mai a pensieri superflui, o da non staccarsi mai dalla contemplazione divina — che sola è buona — attratto dalla vista delle cose mondane e occupato dalle azioni terrene? Chi potè conservare il fervore dello spirito fino al punto che mai lo turbassero pensieri pericolosi, che lo allontanano dalla preghiera e fanno improvvisamente precipitare dal cielo sulla terra? C’è qualcuno tra noi al quale non sia accaduto — per non parlare di altri momenti di distrazione — di esser preso da una certa indolenza proprio nel momento in cui pregava ed innalzava al cielo la sua mente, cosicché trovò motivo di offendere Dio proprio là dove sperava di trovare il perdono dei suoi peccati? Chi è tanto accorto e vigilante da non lasciarsi mai distrarre dal senso della sacra Scrittura, mentre sta cantando un salmo al Signore? Chi è tanto penetrato nell’intimità divina da poter dire di aver osservato per un giorno solo il comando dell’Apostolo: « pregate senza mai cessare » (1 Ts 5,17)? Queste imperfezioni sembrano cose da nulla a coloro che sono immersi nei vizi più grossolani, ma per coloro che conoscono il gran bene della perfezione, una tal moltitudine di imperfezioni — anche se di poca importanza — sembra gravissima. VI – Coloro che si credono senza peccato assomigliano ai ciechi Poniamo che in una casa, tutta ingombra di bagagli, di mobili, di vasi e altre cose, entrino due uomini di vista diversa: il primo ha occhi sani e penetranti, il secondo ha occhi ciechi e cisposi. Quest’ultimo, impedito di vedere ciò che gli sta dinanzi, a causa della sua vista annebbiata, dirà che là dentro vi sono armadi, letti, sedie, mense e altre cose di cui ha scoperto l’esistenza più col tatto che con la vista. Ma colui che ha occhi buoni, allorché un raggio di luce è penetrato negli angoli più nascosti, vi enumera una quantità di piccole cose che si possono appena contare, e che sorpasserebbero in volume — qualora si ammucchiassero insieme — gli stessi mobili che il nostro cieco aveva scoperto col tatto. La cosa si ripete pei santi: essi hanno davvero buona vista. Nel loro grande amore di perfezione scoprono in se stessi — con rara chiaroveggenza — tanto male; essi condannano senza pietà certe colpe che il nostro sguardo interiore, così accecato com’è, non saprebbe vedere. Là dove, a giudizio della nostra negligenza, un peccatuccio veniale non ha per nulla appannato il candore della nostra coscienza, bianca ancora come la neve, essi vedono tutto coperto di macchie. E non dico che si sentano così fortemente colpevoli perché un pensiero vano si è insinuato nell’intimità del loro spirito, basta per condannarsi severamente che il ricordo di un salmo da recitare li abbia leggerissimamente distratti durante la preghiera. Essi son soliti dire: Se ci rivolgiamo a qualche potente personaggio, non perché ci risparmi la vita, ma solo per avere qualche vantaggio temporale, noi stiamo fissi in lui con gli occhi e con tutta l’anima, rimaniamo come sospesi in attesa di un suo cenno, timorosi che una parola stonata o fuori posto ci possa far perdere la grazia del nostro ascoltatore. Immaginiamo anche di trovarci in tribunale, davanti ai giudici di questo mondo, mentre il nostro avversario ci sta di fronte. Se nel bel mezzo del dibattito ci prende la voglia di tossire, di sputare, di ridere, di muoverci, di dormire, non è vero che il nostro avversario sarà attentissimo ad eccitare la severità del giudice a nostro danno? Se così è, con quale attenzione, con quale fervore di preghiera, non dovremo implorare Colui che è il nostro giudice divino, affinché ci scampi dal pericolo di morte eterna di cui siamo minacciati da quel perfido seduttore e terribile accusatore che ci sta dinanzi? In verità si macchierebbe non di una lieve colpa, ma di un gravissimo delitto colui che innalzasse la sua preghiera a Dio e nel frattempo si sottraesse alla sua presenza e seguisse la vanità dei suoi sciocchi pensieri, come se Dio fosse cieco o sordo. Ma coloro che coprono gli occhi del proprio cuore con velo spesso di vizi e al dire del Signore: « vedendo non vedono, udendo non odono » (Mt. 13, 13), e a mala pena scorgono, nei recessi del loro cuore, le colpe gravi e capitali. Come dunque potranno avere quello sguardo penetrante che si richiede per conoscere l’apparizione insensibile dei cattivi pensieri, o dei moti fuggevoli e nascosti della concupiscenza, che feriscono l’anima con un colpo leggero e sottile; oppure le distrazioni che li tengono prigionieri? Costoro, sempre vaganti dietro ai pensieri vani, non si addolorano quando sono strappati alla divina contemplazione, che è cosa preziosissima. Non hanno neppur motivo di piangere per aver perduto qualcosa, perché dopo aver aperto tutta la loro anima ai pensieri che la inondano, non hanno un punto fisso da difendere con tenacia, o al quale far convergere tutti i loro desideri. VII – Coloro che sostengono la possibilità, per un uomo, di esser senza peccato, cadono in un doppio errore La causa che ci precipita in questo errore è che noi, completamente ignoranti di ciò che è l’anamarteton, o impeccabilità, pensiamo che dalle incursioni di questi pensieri oziosi e licenziosi non derivi colpa alcuna. Resi insensibili dalla nostra stoltezza, percossi da spirituale cecità, vediamo soltanto le colpe mortali e crediamo che sia sufficiente evitare quelle che sono condannate anche dalle leggi umane. Quando ci sentiamo appena liberi da quei gravi delitti, ci convinciamo che in noi non c’è alcun peccato. Segregati dal numero dei veggenti, incapaci di scoprire la moltitudine delle colpe leggere accumulate in noi, non abbiamo alcun sentimento di compunzione se ci accorgiamo che la malattia dell’accidia si è insinuata nell’anima nostra. Nessun dolore proviamo se le suggestioni della vanagloria ci assalgono, non versiamo una lacrima sulla nostra avversione alla preghiera, o sulla nostra tiepidezza. Se durante l’orazione o la salmodia ci viene alla mente qualche pensiero contrario all’orazione o al salmo, non lo stimiamo una colpa. Molte cose che ci vergogneremmo di dire o di fare davanti agli uomini, non ci vergogniamo di trattenerle in cuore •—- almeno qualche tempo — pur sapendo che Dio ci vede internamente. Non piangiamo con lacrime sincere i moti carnali che ci assalirono nel sonno; non piangiamo neppure le colpe che commettiamo nel distribuire le nostre elemosine. Talvolta, mentre ci accingiamo a sollevare le necessità dei nostri fratelli, o ad elargire l’obolo agli indigenti, un velo, prodotto dall’avarizia, viene ad oscurare la gioia del nostro volto. Eppure, non ci sentiamo in dovere di rammaricarci per aver dimenticato il pensiero di Dio e averlo sostituito con le preoccupazioni delle cose temporali e corruttibili. Valgono esattamente per il nostro caso le parole di Salomone: « Sono stato ferito ma non ho sentito dolore; sono stato ingannato ma non me ne sono accorto » (Pr 23,35 LXX). VIII. – Pochi son coloro che capiscono che cos’è il peccato Coloro invece che ripongono il colmo della gioia e della felicità nella contemplazione delle cose celesti, se per un istante sono strappati ai loro pensieri da qualche violenta distrazione, credono di aver commesso un sacrilegio e lo puniscono subito con una severa penitenza. Piangono a calde lacrime per aver preferito al Creatore una miserabile creatura. Si accusano quasi di empietà, e sebbene abbiano subito ricondotto lo sguardo della loro mente alla contemplazione della gloria divina, trovano insopportabile quelle brevi tenebre di pensieri terrestri da cui furono assaliti: hanno insomma un sacro terrore per tutto ciò che può allontanare la mente dalla luce di Dio. Questa era la disposizione di spirito che l’Apostolo Giovanni voleva far nascere in tutti i cristiani quando diceva: « Figliolini miei, non amate il mondo, né le cose che sono nel mondo. Se uno ama il mondo, sappia che l’amore di Cristo non è in lui, perché tutto ciò che è nel mondo è concupiscenza della carne, concupiscenza degli occhi e superbia della vita. Questi frutti avvelenati non vengono dal Padre ma dal mondo. Tuttavia il mondo si dissolve con le sue concupiscenze, colui invece che fa la volontà di Dio rimane in eterno » (Gv 2,15-17). Certamente i santi disprezzano tutte le cose del mondo, ma non è possibile che essi le disprezzino a tal punto da non essere portati verso di quelle, sia pure per qualche istante. Nessuno, fatta eccezione per il Signore nostro Gesù Cristo, ha potuto tenere così fìssa la mente mobile dell’uomo nella contemplazione divina, da non allontanarsene mai o da non cadere nel peccato di affetto verso le cose create. A tal proposito dice la Scrittura: « Neppure gli astri son puri dinanzi a Dio » (Gb 25,5). E ancora: « Egli non si fida dei suoi santi, e negli stessi angeli trova delle colpe » (Gb 15,15). Una versione più fedele dice però così in questo passo: « Tra i suoi santi nessuno è immutabile e i cieli non son puri al suo cospetto » (Gb 15,15). IX – Con quanta attenzione il monaco deve conservare il ricordo di Dio Mi vien voglia di paragonare i santi agli scenòbati, che noi chiamiamo con termine più comune funamboli. Il paragone è calzante. I santi infatti, per poter conservare continua- mente il ricordo di Dio, camminano come su funi tese nell’aria. Il funambolo, che affida la sua salvezza e la sua vita ad una sottilissima corda, sa bene di andare incontro a morte istantanea e crudele se una minima incertezza del piede gli fa perdere l’equilibrio e lo distoglie da quella direzione in cui sta la sua salvezza. Mentre egli, con arte ammirevole, compie le sue evoluzioni aeree, se non tiene prudentemente i piedi sulla via sottilissima che calca, può accadere che la terra — per tutti gli altri sostegno naturale e fondamento solido — gli diventi la rovina immediata e sicura e questo, non perché la terra cambia natura, ma perché il funambolo vi precipita con tutta la violenza del suo peso. Applichiamo il paragone. La bontà indefettibile e la sostanza immutabile di Dio non possono far danno alcuno, ma noi possiamo procurare la morte a noi stessi quando abbandoniamo le vette della contemplazione e scendiamo alle bassezze della terra. Dirò di più: il solo scostarsi da quelle altezze è già morte. Dice infatti il Signore: « Guai a loro perché si sono ritirati da me; essi saranno devastati perché hanno prevaricato contro di me » (Os 7,13). E ancora:« Guai a loro quando io mi ritirerò da essi! » (Os 9,12). E sta pure scritto: « Le tue iniquità ti puniscono, le tue infedeltà ti condannano. Impara e vedi quanto è amaro e funesto abbandonare il Signore tuo Dio » (Ger 2,19). « L’empio rimane prigioniero delle sue stesse colpe, ed è preso al laccio dai suoi peccati » (Pr 5,22). A coloro che si allontanano da Lui giustamente il Signore rivolge questo rimprovero: «Ecco, voi tutti che accendete un fuoco, o attizzate dei bracieri, gettatevi nella fiamma che voi preparate e sopra il braciere che avete acceso » (Is 50,11). E ancora: « Chi accende il male perirà » (Pr 19,9). X – Chi tende alla perfezione si umilia sinceramente e riconosce di aver bisogno della grazia di Dio I santi dunque si sentono ogni giorno pressati dal peso aggravante dei pensieri terrestri e allontanati dalle altezze sublimi della contemplazione; passano, contrariamente a quanto vogliono — anzi a loro insaputa — sotto la legge del peccato e della morte; sono allontanati dalla divina presenza a causa delle occupazioni enumerate sopra, le quali, per buone e giuste che possano essere, son tuttavia terrestri. E taccio di altre opere che buone non sono. Certamente i santi hanno buone ragioni per elevare gemiti al Signore, hanno motivi per confessarsi peccatori, per versare costantemente vere lacrime di pentimento e per chiedere ogni giorno perdono dei peccati nei quali incorrono continuamente, vinti dall’umana fragilità. Perciò essi si riconoscono perseguitati, fino all’ultimo momento della vita, da assalti che sono motivo di continuo e acuto dolore, né possono offrire al Signore le loro stesse preghiere senza che ad esse si uniscano pensieri di timore. Convinti, a causa della pesantezza della carne, di non poter raggiungere con le proprie forze il fine desiderato; convinti anche di non potersi unire — come vorrebbe il loro cuore —- al sommo bene, a causa delle distrazioni che li distolgono dalla contemplazione divina e li fanno schiavi delle cose mondane, essi ricorrono alla grazia di quel Dio che giusti- fica gli empi e dicono con l’Apostolo: « Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte? La grazia di Dio, per mezzo di Gesù Cristo Signor nostro » (Rm 7,24-25). Si accorgono infatti di non poter fare il bene che vorrebbero fare e di cadere invece nel male che vorrebbero evitare e che detestano. In una parola: sono continuamente presi dal turbine dei pensieri e dalle preoccupazioni delle cose carnali. XI – Spiegazione delle parole: « Mi compiaccio della legge di Dio secondo l’uomo interiore… » I santi si rallegrano certamente nella legge di Dio, secondo i gusti di quell’uomo interiore che, passando sopra a tutte le cose esteriori, cerca di vivere in continua unione con Dio solo. Tuttavia sentono nelle loro membra (cioè inserita nella natura umana) un’altra legge, che si oppone a quella dello spirito (Rm 7,23). Essa assoggetta il loro spirito alla legge violenta del peccato, sottraendolo al Bene sommo e assoggettandolo ai pensieri terrestri. Pur ammettendo che certe occupazioni umane sono utili e necessarie, specialmente quando ci sono imposte dalla virtù della religione, per sovvenire alle necessità del prossimo, messe a confronto col sommo bene, che fa gioire il cuore di tutti i santi, quelle occupazioni appaiono un male da evitare. La ragione sta nel fatto che distolgono, sia pure per breve tempo, dalla gioia della beatitudine perfetta. È veramente una legge di peccato quella introdotta nel mondo dalla disobbedienza del primo uomo. Per quella colpa giustamente risonò la sentenza del Giudice divino: « La terra sarà maledetta per cagion tua; con lavoro faticoso ricaverai da quella il tuo nutrimento; essa ti produrrà triboli e spine; col sudore della fronte mangerai il pane » (Gn 3,17-19). Questa, dico io, è la legge inserita nelle membra di tutti gli uomini, una legge contraria a quella dello spirito e capace di allontanarci dalla contemplazione di Dio. A causa di quella legge — dopo che l’uomo ebbe conosciuto il bene e il male — la terra, maledetta per il nostro peccato, incominciò a produrre i triboli e le spine dei pensieri. Quelle spine soffocano i germi naturali delle virtù e impediscono che noi possiamo mangiare il pane che vien dal cielo (Gv 6,33) e fortifica il cuore dell’uomo (Sal 103,15), senza aver prima versato il sudore della nostra fronte. Tutti gli uomini, senza eccezione alcuna, sono sottoposti a questa legge. Nessuno — neppure i santi — può mangiare questo pane senza il sudore della fronte e senza una vigilante custodia del cuore. Quando invece si tratta del pane comune, vediamo che esistono molti ricchi i quali se ne nutrono senza alcun sudore della loro fronte. XII – Sul versetto paolino che dice: « Sappiamo che la Legge è spirituale… » La Legge è spirituale: ce lo dice l’Apostolo. « Sappiamo infatti che la Legge è spirituale, ma io sono carnale, venduto quasi come schiavo al peccato » (Rm 7,14). Sì la legge che ci comanda di mangiare col sudore della nostra fronte il pane disceso dal cielo è spirituale, ma per il fatto di essere « venduti al peccato », noi siamo carnali. Io mi domando: di quale peccato si tratta? Chi lo ha commesso? Si tratta senza dubbio del peccato di Adamo. La sua ribellione, il suo commercio (lasciatemi dire così) rovinoso e fraudolento, ci ha fatti diventare venduti. Quando, sedotto dalla persuasione del serpente, Adamo mangiò il frutto proibito, sottopose tutta la sua discendenza al giogo di una schiavitù senza fine. Questa è la consuetudine che regola i rapporti tra venditore e compratore: chi desidera farsi schiavo di un altro domanda al suo compratore una somma che serva a compensarlo della perdita della propria libertà e dell’accettazione di una schiavitù perpetua. La consuetudine qui descritta non fu smentita dal patto intercorso tra il serpente e Adamo: Adamo infatti riceve il prezzo della sua libertà mangiando il frutto proibito. Da quel momento egli perse la libertà naturale e scelse di farsi schiavo di colui che gli aveva pagato il prezzo mortale del frutto proibito. C’è di peggio: con quel patto Adamo stabilì per sempre nello stato di schiavitù tutta la sua discendenza. Un matrimonio tra schiavi potrebbe generare dei figli che non fossero schiavi? Che dire allora? È forse vero che quell’astuto e perfido compratore ha strappato il diritto di possesso al padrone vero e legittimo? Certamente no! Il demonio, con un inganno, non ha potuto strappare a Dio tutto il suo tesoro, fino al punto che il vero padrone abbia perduto ogni diritto di proprietà. Anzi, lo stesso compratore e nemico di Dio, quantunque fuggitivo e ribelle, è costretto a stare al servizio di Dio. Va però osservato che alle creature ragionevoli Dio aveva dato il libero arbitrio; non era perciò conveniente che riconducesse alla libertà originale coloro che si erano venduti per un miserevole peccato di gola, senza che essi lo avessero desiderato con pentimento. Tutto ciò che è contrario alla bontà e alla giustizia ripugna all’Autore della giustizia e della bontà. Non sarebbe stato conveniente che Dio avesse ritolto all’uomo il dono della libertà; non sarebbe stato giusto che Dio ostacolasse la libertà dell’uomo e la tenesse schiava con la sua onnipotenza, senza più permetterne il naturale esercizio. Il Signore volle perciò riservare la salvezza dell’uomo ai secoli lontani, affinché il suo disegno si compisse nella pienezza dei tempi. Era conveniente che la discendenza di Adamo rimanesse nella condizione ereditata dal padre fino al momento in cui Dio stesso non l’avesse sciolta dalle antiche catene e ristabilita nel primitivo stato di libertà, per mezzo della sua grazia e a prezzo del suo sangue. È certo che Dio avrebbe potuto salvare il genere umano subito dopo il peccato, ma non lo volle. La sua giustizia non gli permetteva di infrangere i suoi stessi decreti. Vuoi ora sapere perché sei stato venduto? Ascolta Dio stesso che te lo dice chiaramente per bocca del profeta Isaia: « Dov’è il libello di ripudio della vostra madre, con il quale io l’ho ripudiata? Ovvero, qual è il mio creditore, al quale io vi ho venduti? Per le vostre iniquità voi foste venduti, e vostra madre fu ripudiata per i vostri peccati » (Is 50,1). Vuoi anche sapere perché Dio non ti volle strappare dal giogo della schiavitù con la sua potenza? Ascolta le parole con le quali egli rimprovera gli schiavi del peccato per essersi volontariamente venduti. « Il mio braccio sarebbe dunque troppo corto per liberarvi, e non ho forza abbastanza per liberare? » (Is 50,2). Ma ecco che lo stesso profeta dice che cosa è stato che si è continuamente opposto alla misericordia onnipotente del Signore: « Ecco: la mano del Signore non è troppo corta per salvarvi, né il suo orecchio tanto duro da non sentire; ma furono le vostre iniquità che hanno scavato un abisso tra voi e il vostro Dio. A causa dei vostri peccati egli si copre la faccia per non udirvi » (Is 59,1-2). XIII – Sulle parole: « So che il bene non abita in me, cioè nella mia carne… » Divenuti carnali, condannati alle spine e ai triboli della prima maledizione di Dio, venduti da nostro padre con un pessimo commercio, siamo incapaci di fare il bene che vogliamo. Quando la nostra mente si occupa di Dio, ecco che la necessità ci strappa a quel pensiero per tirarci alle occupazioni della debolezza umana. Mentre ci sentiamo accesi di amore per la purezza, ci assalgono le tentazioni della carne, che noi vorremmo ignorare completamente. Tutto questo ci persuade che il bene non abita in noi, e quando dico « il bene », intendo quella contemplazione perpetua e tranquilla di cui ho parlato già prima. In noi si è operato un lacrimevole e dannoso divorzio. Con la mente vorremmo servire la legge di Dio e non staccare mai i nostri occhi dalla luce divina; ma dato che siamo immersi nelle tenebre della carne, la legge del peccato ci stacca violentemente al bene che abbiamo conosciuto. Dalle altezze della vita spirituale precipitiamo nelle preoccupazioni e nei pensieri di questa terra. A questo ci condanna la legge del peccato, vale a dire la sentenza pronunciata da Dio contro il primo peccatore. Questa è la ragione per cui il beato Apostolo, pur confessando apertamente la necessità e l’inevitabilità del peccato che tiene prigioniero lui e gli altri santi, dice coraggiosamente che nessuno dei santi è perciò da condannare: « Non c’è dunque nessuna condanna per coloro che sono in Cristo Gesù. La legge infatti dello spirito di vita, che è in Cristo Gesù, mi ha liberato dalla legge del peccato e dalla morte » (Rm 8,1-2). È come dire: la grazia che Gesù Cristo spande ogni giorno sopra ai suoi santi, li assolve da ogni colpa. Quando essi implorano il perdono delle loro colpe, vengono liberati dalla legge del peccato e dalla morte, alle quali li assoggetta per sempre — anche se contro loro voglia — l’antico castigo. Vedete dunque che san Paolo parlava in nome dei santi e dei profeti, non già dei peccatori, quando diceva: « Io non facico il bene che voglio; ma al contrario faccio il male che non voglio » (Rm 7,19). Oppure: « Vedo nelle mie membra un’altra legge, che lotta contro la legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato, che è nelle mie membra » (Rm 7,23). XIV – Obiezione: le parole dell’Apostolo: « Io non faccio il bene che voglio… » non convengono né agli infedeli né ai santi, A nostro avviso le parole ora riferite non convengono né a coloro che vivono nel peccato mortale, né all’Apostolo e a coloro che al par di lui vivono da perfetti. Noi crediamo che debbano applicarsi piuttosto a coloro i quali dopo aver ricevuto la grazia divina e conosciuta la verità, vorrebbero sì liberarsi dai vizi della carne, ma si vedono ancora attratti verso le antiche concupiscenze da una abitur dine inveterata e forte, che li domina, li tiranneggia, come una legge naturale. Infatti l’abitudine e la ripetizione degli atti cattivi creano una specie di legge della natura. Conficcata nelle carni della povera umanità, quella legge assoggetta a sé, per condurle al vizio, le inclinazioni di un’anima non ancora perfettamente formata alla pratica della virtù: un’anima — se così posso dire — di castità ancor tenera e nuova. Ma tale legge sottomette quest’anima debole — in forza di una legge antica — alla morte e al giogo tirannico del peccato, senza permetterle di appropriarsi il bene desideratissimo della purezza, costringendola invece a fare il male che quella detesta. XV – Risposta all’obiezione Teona. Le vostre opinioni hanno già progredito molto. Ma voi stessi affermate che quelle parole della sacra Scrittura non son dette a nome di coloro che sono peccatori nel senso più grave del termine, ma si addicono a coloro che cercano di tenersi lontani dai peccati della carne. Penso però che, dopo aver separato i destinatari di quelle parole dalla turba dei peccatori più orrendi, voi giungerete adagio adagio ad ammettere che le parole dell’Apostolo son rivolte anche ai fedeli e ai santi. Quali sono, secondo voi quei peccatori che dopo il battesimo possono commettere delle colpe dalle quali li può liberare la grazia che il Signore dona ogni giorno; quale credete che sia quel corpo di morte di cui parla l’Apostolo quando dice: « Me infelice, chi mi libererà da questo corpo di morte? La grazia di Dio per mezzo di Gesù Cristo Signore nostro » (Rm 7,24-25)? Non vi par chiaro? Non vi sembra che la verità stessa vi spinga a dire non trattarsi qui di tutte quelle colpe mortali dalle quali deriva la morte eterna? Voglio dire: omicidio, fornicazione, adulterio, ubriachezza, furto, rapina? No: si tratta di quel corpo del peccato di cui abbiamo parlato più sopra, e al quale porta rimedio ogni giorno la grazia del Signore. Chiunque, dopo aver ricevuto il battesimo e l’illuminazione di Dio, si abbandona al vecchio corpo di morte, sappia che il suo peccato non sarà assolto dalla grazia quotidiana del Signore, cioè da quel perdono facile che Dio accorda su nostra richiesta, alle colpe di poca entità. Chi è reo di tali peccati dovrà assoggettarsi al dolore di lunghe penitenze e di grandi espiazioni, a meno che non voglia essere condannato, nella vita futura al supplizio del fuoco eterno. È proprio l’Apostolo che ci assicura di ciò: « Attenti a non illudervi: né fornicatori, né idolatri, né adulteri, né effeminati, né fornicatori, né ladri, né avari, né ubriaconi, né maldicenti, né rapinatori, saranno eredi del regno di Dio » (1 Cor 6,9-10). Ora io domando: qual è questa legge che milita nella nostra carne e lotta contro il nostro spirito? Quale questa legge che, dopo averci fatto schiavi — nonostante la nostra resistenza — del peccato e della morte, lascia tuttavia che con lo spirito serviamo il Signore? Io non credo davvero che per legge del peccato si debbano intendere quelle colpe gravissime di cui abbiamo parlato sopra. Se uno si macchiasse di tali peccati, non potrebbe più — con lo spirito — servire la legge di Dio. Prima di commettere uno di questi peccati nella sua carne, l’uomo dovrebbe fare spiritualmente divorzio da Dio. Che cosa vuol dire, infatti servire la legge del peccato, se non fare quello che il peccato comanda? E qual è il peccato di cui possa sentirsi schiavo un santo come l’Apostolo, senza per questo dubitare di esserne liberato dalla grazia quotidiana di Cristo? Dice infatti l’Apostolo: « Infelice che sono! Chi mi libererà da questo corpo di morte? La grazia di Dio, per mezzo di Gesù Cristo Signore nostro » (Rm 7,24-25). Io domando ancora: quale sarà, secondo voi, questa legge nelle nostre membra, la quale strappandoci alla legge del peccato, ci fa infelici, ma non colpevoli? Per essa, non siamo condannati al supplizio eterno, ma soltanto sospiriamo per il timore di vedere interrotta la gioia della nostra beatitudine. Per questo —- per essere ristabiliti nella beatitudine — gridiamo con l’Apostolo: « Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte? ». Esser fatto schiavo della legge del peccato, che altro significa se non rimanere effettivamente nel peccato? E qual è il bene sommo, quello che neppure i santi possono ottenere se non la perpetua contemplazione, dinanzi alla quale tutti gli altri beni impallidiscono, come abbiamo dimostrato sopra? In questo mondo ci sono molti beni, lo riconosciamo volentieri. Basti dire la castità, la continenza, la sobrietà, l’umiltà, la giustizia, la misericordia, la temperanza, la pietà. Ma questi non possono essere paragonati con il bene supremo: quelli son beni raggiungibili, non solo dagli Apostoli, ma dalle stesse anime mediocri. È vero che se quei beni non saranno da noi rispettati, meriteremo il castigo eterno, o il dolore di un lungo purgatorio, ma dopo l’offesa di quei beni o di quelle virtù non possiamo sperare il perdono dalla grazia quotidiana di Cristo. Conveniamone ormai: non resta che applicare le parole dell’Apostolo alle anime dei santi. Essi, sottomessi ogni’ giorno alla legge del peccato — a quella da noi spiegata e non all’altra che fa commettere peccati mortali — conservano la fiducia della loro salvezza. Non cadono in colpa grave, ma secondo quel che abbiamo detto più volte, di-i scendono dalla contemplazione divina alle preoccupazioni della terra, e si trovano continuamente stornati dalla vera beatitudine. Se invece fosse vero che per questa legge, agglutinata con la loro carne, i santi son travolti ogni giorno in peccati mortali, non dovrebbero essi lamentarsi d’aver perduto la beatitudine, ma l’innocenza, e l’apostolo Paolo non dovrebbe dire: « Me infelice! », ma piuttosto: « Impuro e scellerato che sono! ». In tal caso l’Apostolo non dovrebbe augurarsi la liberazione da questo corpo di morte, cioè dalla condizione umana, ma piuttosto la liberazione dai delitti della carne. Non è invece così. Vedendosi schiavo e incline alla sollecitudine delle cose carnali, a causa della fragilità umana, l’Apostolo piange su questa legge di peccato alla quale è oggetto contro la sua volontà e ricorre a Cristo perché la sua grazia lo salvi con pronto intervento. Tutto quello che la legge del peccato ha prodotto nel cuore dell’Apostolo: spine, triboli, sollecitudini carnali; la legge della grazia lo toglie totalmente. « La legge dello spirito di vita, che è in Cristo Gesù, mi ha liberato dalla legge del peccato e della morte » (Rm 8,2). XVI – Che cos’è il corpo di peccato? Questo è dunque l’inevitabile corpo di morte, nel quale i perfetti ricadono ogni giorno, pur avendo gustato « quanto è buono il Signore » (Sal 33,9); e così provano anch’essi « quanto sia amaro e funesto abbandonare il Signore »(Ger 2,19). Questo è quel corpo di morte che ritrae i giusti dalla contemplazione celeste e li fa piombare nelle cose terrestri. È questo corpo che, mentre essi recitano i salmi o stanno inginocchiati in preghiera, richiama alla loro memoria forme umane, parole, affari, azioni inutili. Questo è il corpo di morte per il quale, desiderando imitare la santità degli angeli o starsene per sempre uniti al Signore, non riescono a raggiungere un sì alto bene e fanno il male che non vorrebbero perché trasportati dal pensiero verso quelle cose che non giovano né al progresso spirituale né alla perfezione della virtù. Infine il beato Apostolo, per farci chiaramente intendere che vuol parlare dei santi, dei perfetti, di coloro insomma che assomigliano a lui, aggiunge subito dopo: « E questo è vero anche per me » (Rm 7,25). È come se dicesse: quando vi parlo così, io scopro i segreti della mia coscienza, non quelli della coscienza altrui. È abituale a san Paolo far uso di simili modi di dire quando vuole accennare a se stesso. Dice ad esempio: « Io Paolo, vi scongiuro per la mansuetudine e la modestia di Cristo » (2 Cor 10,1). E in altra occasione: « Per quanto mi riguarda, io non ho voluto esservi di peso » (2 Cor 12,13). E ancora: « E sia pure; io non vi sono stato d’aggravio » (2 Cor 12,16). E altrove: « Sono io, Paolo, che ve lo dico: se vi fate circoncidere, Cristo non vi gioverà a nulla » (Gal 5,2). E infine ai Romani: « Desideravo essere anatema io stesso per i miei fratelli » (Rm 9,3). Si può dunque ragionevolmente pensare che l’Apostolo abbia inteso sottolineare con enfasi la sua affermazione: « Così io stesso » (Rm 7,25). Pare voler dire: io che son da voi conosciuto come Apostolo di Cristo; io trattato da voi con ogni riverenza e rispetto; io stimato da voi così eccellente e perfetto; io che sono il portatore di Cristo, perché Egli parla in me, confesso che mentre con lo spirito son sottomesso alla legge di Dio, con la carne resto soggetto alla legge del peccato. Le distrazioni inseparabili dalla condizione umana, mi obbligano spesso a scendere dal cielo alla terra: dalle altezze, in cui sarebbe bello rimanere sospesi, l’anima mia discende alle preoccupazioni delle cose basse e meschine. È la legge del peccato — lo riconosco — che mi soggioga ad ogni istante; e quantunque i miei desideri rimangano invariabilmente orientati a Dio, mi sento incapace a liberarmi da questa schiavitù tremenda, perciò ricorro incessantemente alla grazia del Salvatore. XVII – Tutti i santi hanno sinceramente riconosciuto di esser impuri e peccatori. I santi son costretti a sospirare continuamente per colpa della loro umana debolezza. Quando considerano la svagatezza dei loro pensieri, o vanno in fondo alle pieghe riposte della loro coscienza, esclamano in tono supplichevole: « Signore, non chiamare in giudizio il tuo servo, perché nessun vivente è giusto innanzi a te » (Sal 142,2). Oppure: « Chi può dire: ho purificato il mio cuore, son dunque libero da ogni peccato » (Pr 20,9)? Ancora: « Non esiste in terra un uomo giusto che faccia il bene senza mai peccare » (Sir 7,21 LX). Oppure: « Chi è capace di conoscere le sue colpe? » (Sal 18,13). Per tal modo i santi hanno sempre pensato che la giustizia dell’uomo è imperfetta, debole e sempre bisognosa della misericordia divina. Dio purificò una volta i peccati di un grande santo (Isaia) con un carbone acceso, preso dall’altare. E quello stesso santo profeta, dopo aver goduto una teofania, dopo aver contemplato i serafini fiammanti e ricevuta la rivelazione dei più sublimi misteri, esclama: « Ahimè! Sono perduto, perché sono un uomo di labbra impure e vivo in mezzo a un popolo dalle labbra impure » (Is 6,5). Io credo che il profeta non avrebbe avvertito l’impurità delle sue labbra se non avesse imparato a conoscere, attraverso la contemplazione di Dio, ciò che costituisce la Vera e integra purezza della perfezione. Quando ebbe la visione di Dio conobbe immediatamente in sé quelle brutture che prima gli rimanevano nascoste. Isaia infatti parla della impurità delle sue labbra, non già della impurità del popolo, quando dice: « Misero me! Io sono un uomo di labbra impure ». La prova della validità di questa interpretazione sta nelle parole che seguono: « …E abito in mezzo ad un popolo dalle labbra impure ». C’è di più. Allorché il profeta confessa, nella sua preghiera, l’impurità dei peccati che imbrattano la terra, non prega soltanto pei grandi peccatori, ma abbraccia con loro anche la schiera dei giusti e dice: « Ecco tu eri adirato perché noi peccavamo, trascinati dalle nostre infedeltà e passioni. E noi tutti eravamo impuri e tutte le nostre opere buone sono come un panno macchiato » (Is 64,4-5). Ora io domando: che cosa può darsi di più chiaro di questa sentenza? Il profeta non ha considerato qualcuna delle nostre opere buone, ma le ha considerate tutte, poi ha considerato quali possono essere per noi le cose più stomachevoli e rivoltanti e non avendo trovato nulla di più sordido o più sporco di un panno pieno d’immondizie, a quello ha raffigurato le nostre opere buone. È inutile dunque che vi ostiniate ad opporre la vostra piccola obiezione alla evidenza dei fatti. Voi poc’anzi dicevate così il vostro pensiero: se nessuno è senza peccato, nessuno è santo; ma se nessuno è santo nessuno si salverà. Questa difficoltà si può sciogliere con le parole stesse del profeta. Egli dice al Signore: « Ecco che tu sei irritato e noi siamo caduti in colpa » (Is 64,5). Ciò significa: quando tu, Signore, hai allontanato il tuo sguardo dalla superbia del nostro cuore e dalle nostre negligenze, ci hai come privati del tuo soccorso, e subito la voragine ci ha ingoiati. È come se dicesse all’astro splendente del sole: ecco che tu ti sei ritirato al disotto dell’orizzonte e noi siamo stati avvolti da una oscurità tenebrosa. Ma quantunque Isaia dica che i santi hanno peccato, e non solo hanno peccato ma son rimasti altresì nella loro colpa, non giunge a disperare della loro salvezza: « Noi, dice, siamo sempre stati nel peccato, ma saremo salvati » (Is 64,5). Ora vorrei accostare la sentenza d’Isaia: « Ecco che tu ti sei irritato, o Signore, e noi abbiamo peccato », a quella dell’Apostolo: « Misero me! Chi mi libererà da questo corpo di morte? ». Quando il profeta soggiunge, cioè: « Noi siamo sempre stati nel peccato, ma saremo salvati », concorda bene con quanto soggiunge san Paolo dopo la sua esclamazione: « Mi salverà la grazia di Dio, per mezzo di Gesù Cristo Signor nostro ». Anche altre parole del profeta sembrano accordarsi con quelle di san Paolo: intendo dire di quella frase: « Misero me! Io sono un uomo di labbra impure e abito in mezzo a un popolo dalle labbra impure » e dell’altra: « Infelice che sono! Chi mi libererà da questo corpo di morte? ». Finalmente il profeta continua: « Ecco che uno dei serafini volò verso di me, e aveva in mano un carbone acceso (o una pietra) di fuoco, che aveva preso con le forbici di sull’altare. Con quello toccò le mie labbra e disse: Ecco, con questo ho toccato la tua bocca e la tua iniquità sarà tolta e il tuo peccato sarà cancellato » (Is 6,6-7). Queste parole hanno grandissima somiglianza con quelle di san Paolo: « Mi libererà la grazia di Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore » (Rm 7,25). Vedete dunque che i santi non hanno parlato in nome del popolo peccatore, ma in nome proprio, e si son riconosciuti veramente peccatori. Nello stesso tempo, però, mai hanno disperato della propria salvezza. La piena giustizia, che non sperano di ottenere con le loro forze (a causa della fragilità umana) la sperano dalla grazia del Signore e dalla sua misericordia. XVIII – Neppure i santi e i giusti sono senza peccato L’insegnamento stesso del Salvatore divino ci assicura che nessuno, sia santo quanto si vuole, può andare esente dal debito del peccato. Quando il Signore insegna ai suoi discepoli la formula della preghiera perfetta, fra tanti comandi che non potrebbero convenire ai cattivi e agli infedeli, perché son dati soltanto ai fedeli e ai perfetti, include anche il comando di pregare così: « Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori » (Mt 6,12). Se questa preghiera non suona stonata sulla bocca dei santi, come si deve credere indubbiamente, si potrà trovare un uomo così sciocco e presuntuoso, tanto gonfio di superbia diabolica, da proclamarsi immune da peccato? Non è vero che questo equivarrebbe a dichiararsi superiore all’apostolo Paolo? Ma che dico? Questa dichiarazione equivarrebbe a riprendere il Salvatore medesimo come reo di ignoranza o di leggerezza. Perché i casi son due: o il Signore non sapeva che ci potevano essere al mondo uomini senza debiti di sorta, oppure insegnò qualcosa di falso a coloro che conosceva non bisognosi di questo rimedio. Quando i santi, obbedendo al comando del loro re, dicono ogni giorno: « Rimetti a noi i nostri debiti », può darsi che dicano il vero, e in tal caso è provato che nessuno è senza colpa; oppure può darsi che dicano il falso, e in questo caso resta vero che non sono immuni dalla colpa di menzogna. Anche il sapientissimo Ecclesiaste — dopo aver considerato mentalmente tutte le azioni e occupazioni degli uomini, — afferma senza alcuna eccezione: « Non c’è un giusto sopra la terra, il quale faccia il bene senza mai peccare » (Sir 7,21 LXX). In altri termini: non si è mai trovato un uomo di tale santità, di tale diligenza e attenzione, da poter restare continuamente unito al bene vero, senza dover registrare ogni giorno qualche colpa di distrazione. Però, mentre dice che questo uomo non è immune da peccato, il libro Sacro nega che sia giusto. XIX – Anche nel momento in cui ci diamo all’orazione, mal si può evitare il peccato Chi vuole attribuire alla natura umana l’anamarteton, cioè l’impeccabilità, non porti contro di me delle parole vane, ma produca la testimonianza della sua coscienza e si dichiari senza peccato, se ha la consapevolezza di non essere mai stato separato dal bene supremo. Più ancora. Chiunque, interrogando seriamente la sua coscienza, potrà affermare di aver celebrato senza distrazioni una sola sinassi (e non dico di più), si faccia avanti e si proclami senza peccato. Confessiamo che la nostra mente svolazzante non sa fare a meno di incorrere in pensieri vani e superflui: per questo siamo pronti a riconoscere in tutta verità che nessuno è immune totalmente dal peccato. Per quanto uno sia attento a difendere il suo cuore non lo difenderà mai quanto richiede lo spirito, che è per natura sua diametralmente opposto alla carne. Quanto più l’anima progredisce, tanto più grande è la purezza della contemplazione in cui viene a trovarsi, ma è altresì più grande la consapevolezza della propria impurità, vista nello specchio della divina purezza. Quando l’anima è protesa verso le più sublimi visioni, e desidera cose assai più perfette di quelle che compie, necessariamente è portata a disprezzare come vili e di poco conto le azioni che sta compiendo. Un occhio sano vede più cose di quello malato; chi vive senza meritare rimprovero rimprovera se stesso con maggior dolore; chi corregge i suoi costumi e vigila attentamente per acquistare le virtù, moltiplica gemiti e sospiri. Insomma, nessuno, che sia veramente spirituale, è contento del grado al quale si trova. Più la sua anima è pura, e più si vede indegno e trova in sé ragioni per umiliarsi; mai trova motivo’ d’esaltarsi. Più uno vola rapidamente verso le vette della perfezione, più vede aumentare il cammino da percorrere. Anche l’Apostolo prediletto, colui « che Gesù amava » (Gv 13,23), quando posò il capo sul petto del Signore, estrasse da quel cuore divino questa parola: « Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi, e la verità non è in noi » (1 Gv 13,23). Dunque, quando diciamo di essere senza peccato non abbiamo in noi la verità, cioè non abbiamo in noi il Cristo.1E allora che cosa guadagniamo con questa affermazione? Una triste cosa: da semplici peccatori diventiamo empi e scellerati. XX – Da chi si deve imparare a liberarsi dal peccato e a divenire perfetti nella virtù Ma se proprio ci preme approfondire la questione e sapere esattamente se l’impeccabilità è possibile ad una natura umana, nessuno potrà meglio istruirci su tale argomento di coloro che « hanno crocifisso la loro carne coi vizi e le concupiscenze » (Gal 5,23), e pei quali « il mondo è crocifisso » (Gal 6,14) veramente. Questi santi, dopo essersi sradicati dal cuore tutti i vizi, mentre cercano di allontanare dalla mente persino il pensiero e il ricordo del peccato, confessano lealmente e continuamente di non poter rimanere per un’ora sola senza macchia di peccato. XXI – Benché convinti di non essere senza peccato, noni, dobbiamo astenerci dalla santa comunione Non dobbiamo astenerci dalla comunione del corpo del Signore perché abbiamo coscienza d’esser peccatori, dobbiamo al contrario cercarla avidamente, per trovare in essa la salute dell’anima e la purezza dello spirito. Sì, con sentimento d’umiltà e di fede, pur giudicandoci indegni d’una grazia sì grande, dobbiamo andare alla comunione, per aver un rimedio alle nostre ferite. Se aspettassimo di esser degni non faremmo la comunione neppure una volta all’anno. Eppure, molti di coloro che vivono nei monasteri hanno l’abitudine di comunicarsi una sola volta all’anno! Si son fatti un tal concetto della santità e della grandezza dei divini misteri, che secondo loro si può andarli a ricevere solo se siamo santi e senza macchia, non già per santificarsi e liberarci da ogni macchia. Essi pensano di evitare così ogni presunzione d’orgoglio e invece cadono in un orgoglio più grande, perché, almeno nel giorno in cui si comunicano si ritengono degni della comunione. Quanto è meglio ricevere i sacri misteri ogni domenica, come un rimedio alle nostre infermità! Conviene accostarsi all’Eucaristia con umiltà di cuore, con la persuasione e la protesta che non siamo degni di una tal grazia, e non gonfiarci della stolta presunzione che una volta all’anno ne siamo degni. Per ben comprendere questi insegnamenti e per conservarne un salutare ricordo, imploriamo fervorosamente la misericordia del Signore e diciamogli che ci aiuti a metterli in pratica. Nel caso nostro non si tratta di scienze umane che s’imparano con l’insegnamento verbale: qui valgono soprattutto la pratica e l’esperienza. Con ciò non intendo negare che di questi argomenti convenga fare uno studio attento nelle Conferenze con uomini spirituali; ma vai più approfondirli con esempi e pratiche quotidiane. Se non si fa così, gl’insegnamenti cadono in dimenticanza, o sono sopraffatti dalla nostra negligenza. CONFERENZA DELL’ABATE ABRAMO SULLA MORTIFICAZIONE Indice dei capitoli III. Carattere dei luoghi che devono scegliere gli anacoreti. VII. Domanda: perché la vicinanza dei genitori debba essere stimata dannosa agli altri monaci e non a quelli che dimorano in Egitto. VIII. Risposta: tutto non va bene per tutti. XII. Utilità del lavoro e danni dell’ozio. XIII. Favola del barbiere, inventata per scoprire le illusioni diaboliche. XIV. Domanda: qual è l’origine dei pensieri dannosi? XVI. La parte ragionevole dell’anima nostra è corrotta. XVII. La parte più debole dell’anima è la prima a soccombere dinanzi agli assalti del diavolo. XVIII. Domanda: se il desiderio di un silenzio più intenso ci avvicini al cielo. XIX. Risposta sulla illusione del diavolo che consiste nel promettere la pace come frutto di una solitudine più vasta. XXI. Come san Giovanni evangelista ha dimostrato l’utilità del riposo. XXII. Come vanno intese le parole evangeliche: «Il mio giogo è soave e il mio peso è leggero»? XXIII. Spiegazione di quelle parole. XXIV. Perché il giogo del Signore sembra amaro e pesante. XXV. Utilità delle tentazioni. XXVI. In qual senso è promesso il centuplo in questo mondo a chi opera perfetta rinunzia. Inizio, con l’aiuto del Signore, la ventiquattresima Conferenza, quella dell’abate Abramo, che sarà l’ultima della serie. Con questa si concludono gl’insegnamenti dei vecchi monaci. Quando, con l’aiuto delle vostre preghiere, io avrò terminato questo lavoro, crederò di aver mantenuto le mie promesse e di aver simbolicamente richiamato i ventiquattro vegliardi dell’Apocalisse, che offrivano le loro corone all’Agnello. Se i ventiquattro vegliardi delle nostre Conferenze meritano una corona di gloria, per la loro bella dottrina, l’offriranno anch’essi, con la testa chinata nella polvere, all’Agnello divino, che è stato immolato per la salvezza del mondo. È lui — l’Agnello divino — che ha donato ai vecchi monaci qui ascoltati la dottrina sublime, e a me una certa capacità di riprodurne la profondità. È un dovere riferire il merito dei nostri doni all’Autore d’ogni bene, verso il quale tanto più siamo debitori quanto più cerchiamo di sdebitarci. Portammo all’abate Abramo la confessione ansiosa della lotta ingaggiata contro di noi dai pensieri che ci spingono continuamente a tornare a casa per rivedere i nostri familiari. Il motivo che più d’ogni altro alimenta simili pensieri è il ricordo della religione e della pietà dei nostri genitori: siamo sicuri che essi non vorrebbero mai esser di ostacolo alla nostra forma di vita. Anzi, pensiamo continuamente che dal contatto prolungato con loro ci può derivare un profitto. Nessuna preoccupazione per le cose materiali, nessun affanno per provvederci il vitto quotidiano verrebbe più a turbarci, qualora essi stessi, con grande gioia, ci provvedessero del necessario. Va anche detto che noi pascevamo la nostra mente con vane gioie e vane speranze. La nostra fantasia ci dipingeva la conversazione di molti nostri conoscenti che sarebbero stati chiamati alla via della salvezza dal nostro esempio e dai nostri ammonimenti. La stessa amenità dei luoghi che furono possesso dei nostri antenati, ci si spiegava davanti agli occhi incantati: una distesa solitaria dolce e invitante, dove un monaco avrebbe trovato segrete foreste e cibi spontanei. Noi rivelammo al santo vegliardo tutti questi pensieri, come ci dettava la coscienza. Gli dicemmo anche, piangendo, che non eravamo più capaci di sostenere questi assalti, se la grazia del Signore non veniva ad aiutarci con un rimedio che attendevamo dalla sua conferenza. Udito questo, il vecchio abate rimase alquanto pensieroso, poi prese a dire così, dopo un profondo sospiro. Voi non avete ancora rinunciato ai desideri del mondo, né avete ancora mortificato le vostre antiche passioni: si nota chiaramente dai pensieri che manifestate. La leggerezza del vostro cuore corre dietro ai capricci di desideri fluttuanti: solo col corpo, e non con lo spirito, avete intrapreso il grande viaggio e vi siete separati dai vostri familiari. Se voi sapeste che cos’è la rinuncia e qual è il motivo della nostra vita solitaria, a quest’ora codesti pensieri sarebbero completamente morti, del tutto sradicati dal vostro cuore. Mi accorgo che soffrite di un male che si chiama oziosità. Di quel male il libro dei Proverbi dice: «L’ozio è pieno di desideri» (Pr 13, 4: LXX). E ancora: «I desideri uccidono il pigro» (Pr 21, 25). A me non sarebbero mancati gli aiuti e i comodi carnali di cui avete parlato, tuttavia non pensai che fossero convenienti alla vita monastica, né stimai che la dolcezza dei mezzi umani potesse giovarmi quanto mi giova l’asprezza di questi luoghi e la penitenza corporale. Non è poi vero che siamo sprovvisti completamente dell’aiuto dei nostri familiari. Essi sarebbero lieti di aiutarci con le loro largizioni, se noi non ricordassimo quelle parole del Signore che escludono tutto quanto può solleticare i gusti della carne: «Chiunque non lascia — anzi non odia — il padre e la madre, i fratelli e le sorelle, non può essere mio discepolo» (Lc 1,26). Ma anche se fossimo totalmente privi dell’aiuto dei nostri familiari, non ci potrebbero mancare i favori dei potenti del mondo, i quali sarebbero lieti di provvederci il necessario alla vita, e lo farebbero ringraziandoci di aver accettato il loro dono. Noi potremmo ben accettare una simile munificenza e liberarci così da ogni preoccupazione del vitto quotidiano, se non ci fossero a spaventarci ed a ritrarci le parole del profeta: «Sia maledetto l’uomo che pone la sua speranza in un altro uomo» (Ger 17, 5: LXX), e ancora: «Non abbiate fiducia negli uomini potenti» (Sal 146 (145), 2). Io avrei potuto costruire la mia cella lungo le sponde del Nilo per aver così l’acqua a portata di mano; questo mi avrebbe risparmiato la fatica di portarmela a spalle da quattro miglia di lontananza. Ma c’è la parola di S. Paolo che ci esorta ad essere infaticabili e a cercare la fatica: «Ciascuno — egli dice — riceverà la ricompensa secondo la fatica» (1 Cor 3,8). Anche in questa regione esistono luoghi incantevoli ed appartati, lo so benissimo. Là c’è abbondanza di frutti, amenità e fertilità di giardini da cui potremmo ottenere, senza lavoro, il necessario alla vita. Ma in tal caso temeremmo di meritare il rimprovero del Vangelo: «Hai ricevuto la tua ricompensa mentre eri ancor vivo» (Lc 16,25). Noi monaci invece abbiamo disprezzato e reputato zero tutte queste comodità e tutti i piaceri del mondo. La nostra preferenza va ai luoghi aridi e deserti. A tutte le gioie anteponiamo la dura solitudine di questo deserto; le più attraenti ricchezze della terra ci sembrano spregevoli se messe a confronto con queste sabbie abbandonate. Noi infatti non cerchiamo i transitori guadagni del corpo, ma il guadagno dell’anima, che dura per tutta l’eternità. Non basta che un monaco rinunci una sola volta, che disprezzi cioè le cose del mondo solo al momento della sua conversione: egli deve ripetere ogni giorno la sua rinuncia. Noi dobbiamo dire col profeta, fino all’ultimo della nostra vita: «Tu sai o Signore, che io non ho desiderato il giorno dell’uomo» (Ger 17, 16). Anche il Signore nel Vangelo ha detto: «Se uno vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda ogni giorno la sua croce e mi segua» (Lc 9, 23). III. – Carattere dei luoghi che devono scegliere gli anacoreti È spiegato in tal modo perché colui che vuol tener continuamente desta la sollecitudine dell’uomo interiore, deve cercare dei luoghi che non lo mettano in tentazione per motivo della loro ricchezza e fertilità, né gl’impediscano di rimanere fisso nella sua cella, obbligandolo continuamente a lavorare all’aria aperta. Se vivesse sempre all’aperto, i suoi pensieri cambierebbero direzione e lo sguardo dell’anima si rivolgerebbe a molti oggetti distraenti, dopo essersi allontanato da Dio. Questi pericoli non possono essere evitati da alcuno — sia pure vigilante e sollecito — se non si terrà continuamente chiuso, col corpo e con lo spirito, entro le pareti della sua cella. Il monaco, così, assomiglia ad uno spirituale pescatore che si procura il cibo secondo l’arte imparata dagli Apostoli. Fermo e attento, egli osserva nelle profondità tranquille del suo cuore le torme naviganti dei suoi pensieri. Poi, come da uno scoglio prominente, abbassa fino a fondo uno sguardo penetrante, e distingue con occhio esperto quali di quei pensieri deve tirare a sé con l’amo, e quali deve lasciar correre o disprezzare come dannosi. Chi è perseverante nella custodia del cuore, mette bene in pratica quel che dice con molta chiarezza il profeta Abacuc: «Io starò al mio posto d’osservazione, salirò sopra la pietra e osserverò per vedere cosa si potrà dire contro di me, e che cosa potrò rispondere al mio accusatore» (Ab 2, 1: LXX). Ma un tal modo di vivere è pieno di fatica e di difficoltà: lo dimostrano chiaramente le esperienze di coloro che vivono nel deserto di Calamo o di Porfirione. La solitudine che li separa dalla città e dai luoghi abitati dagli uomini è più vasta di quella che si riscontra per il deserto di Scito. Quei monaci devono fare sette o otto giorni di cammino, attraverso un deserto che non finisce mai, per arrivare al luogo in cui son situate le loro celle. Nonostante ciò essi si dedicano all’agricoltura e non stanno nelle loro celle. Ma quando vengono nei nostri luoghi, oppure vanno nella solitudine di Scito, sono assaliti da tale turbine di pensieri, sono oppressi da tante ansietà di animo, che a guisa di novellini, del tutto ignari degli esercizi della solitudine, non sanno sopportare la permanenza in cella, né il silenzio del riposo. Così li vediamo uscir di cella e agitarsi come pazzi. Ciò avviene perché non hanno imparato a dominare i movimenti dell’uomo interiore, né ad acquietare le tempeste dei loro pensieri, con una continua vigilanza e una perseverante attenzione. Per il fatto che lavorano e s’affaticano tutto il giorno fuori della cella, il loro corpo e la loro anima sono in continua agitazione esteriore, i loro pensieri s’intonano coi loro movimenti incessanti e si disperdono in tutte le direzioni. Pur tuttavia essi non si accorgono della incostante leggerezza del loro cuore e non hanno la forza di frenarne le divagazioni capricciose. Non sopportano la compunzione dello spirito e stimano insopportabile perfino la continuità del silenzio. Proprio loro, che non si lasciano domare dai lavori pesanti dei campi, sono vinti dalla quiete: la continuità del riposo li annienta. Quando il monaco se ne sta nella sua cella, non c’è da meravigliarsi se anche i suoi pensieri son come costretti in una clausura forzata e l’opprimono con la loro ansietà. Se il monaco esce di cella, i pensieri si precipitano fuori del luogo che li teneva costretti e incominciano a galoppare in tutte le direzioni, a somiglianza di cavalli sfrenati. Nel momento in cui i pensieri si sfrenano l’anima prova una breve e amara consolazione. Poi bisogna tornare in cella e anche la turbolenta schiera dei pensieri deve rientrare al suo luogo, e di là, secondo l’abitudine di una indisciplinatezza inveterata, suscita stimoli più dolorosi. Quelli che non sanno, o non vogliono, resistere alle istigazioni della loro volontà, quando l’accidia fa sentire con più violenza i suoi assalti al cuore non temprato, escono, (per superare l’ansietà) fuori della cella. Ma se infrangono l’austerità della regola e si concedono la libertà di uscire molto spesso, susciteranno contro se stessi una peste più micidiale, proprio con quel mezzo nel quale credevano di trovare un rimedio. Così fanno anche certi ammalati, i quali credono di estinguere gli ardori della febbre bevendo acqua fresca, ma è chiaro che accendono, invece di spegnere il fuoco che hanno dentro. A quel momentaneo sollievo, seguirà un dolore più grave. Il monaco dunque deve tener fissa la sua attenzione sempre ad un solo scopo, che è il ricordo di Dio: a quello farà convergere tutti i pensieri che nascono o si agitano nel suo cuore. Il monaco assomiglia all’architetto che vuole costruire la volta di un’abside. Egli deve tracciarne l’intera circonferenza partendo dal centro, che è un punto molto delicato; poi deve calcolare, con esattezza infallibile, la perfetta rotondità e la forma della costruzione. Colui che pretendesse di compier bene una tale opera senza l’esatta determinazione del punto centrale, anche se fosse abile fino alla genialità, si verrebbe a trovare nell’impossibilità d’avere un disegno regolare e perfetto. Non potrebbe accorgersi, così ad occhio, in quale misura il suo errore ha impedito la bellezza che deve risultare da una perfetta rotondità. Per giudicare esattamente è necessario riferirsi al punto che permette di stabilire le giuste proporzioni e poi, secondo le indicazioni che vengono da quel punto, conviene determinare con precisione l’ambito esterno ed interno della costruzione. Un solo punto dunque è il sostegno e il centro di tutta la mole. Lo stesso va detto per l’anima nostra. Se il monaco non pone nell’amor di Dio il centro fisso attorno al quale fa girare tutte le sue opere; se non raddrizza e talvolta non respinge i suoi pensieri, facendosi guidare, per dir così dal compasso esattissimo della carità, non potrà mai costruire con vera abilità quell’edificio spirituale del quale l’apostolo Paolo è l’architetto. Non potrà conoscere neppure la bellezza di quel tempio interiore che David voleva offrire a Dio quando diceva: «Signore, ho amato la bellezza della tua dimora e il luogo nel quale risiede la tua gloria» (Sal 26 (25), 8). In cambio, quel monaco costruirà maldestramente nel suo cuore un tempio senza bellezza, indegno dello Spirito Santo e destinato a franare assai presto. Invece di aver la gioia di abitarvi dentro, in compagnia dell’Ospite divino, sarà schiacciato miseramente sotto le sue rovine. VII. – Domanda: perché la vicinanza dei genitori debba essere stimata dannosa agli altri monaci e non a quelli che dimorano in Egitto Germano. È bene che sia stabilito per precetto il genere di opere che son da compiere dentro la cella. A parte l’esempio della tua Beatitudine, che noi vediamo fondata nell’imitazione degli Apostoli, ci convince di ciò la nostra stessa esperienza, che ci ha resi consapevoli della necessità di quel precetto. Ma per quanto riguarda la vicinanza dei familiari ci restano dei dubbi; non vediamo perché noi dovremmo fuggirli, dal momento che voi restate vicino a loro. Voi che vivete irreprensibili nella via della perfezione, conducete vita monastica nel vostro stesso paese; anzi conosciamo alcuni monaci che stanno nei pressi del loro stesso borgo natale. Se questo non è dannoso a voi, perché dovrebbe esserlo per noi? VIII. – Risposta: tutto non va bene per tutti Abramo. Capita abbastanza spesso che da una cosa buona si tirano conseguenze cattive. Qualche presuntuoso pretende d’imitare il suo prossimo senza avere gli stessi sentimenti, gli stessi propositi, la stessa virtù. Così il presuntuoso si perderà tra i lacci dell’errore e della morte, là dove gli altri hanno trovato i frutti della vita eterna. Sarebbe capitato così anche a David — che era per altro un giovane fortissimo — nel combattimento col gigante Golia, supposto che avesse accettato di rivestire la pesante armatura di Saul, che era fatta per un uomo. Un uomo più robusto di David, rivestito delle armi di Saul, avrebbe gettato a terra intere schiere nemiche, ma quel giovinetto avrebbe trovato in quelle armi la sua rovina sicura. Fu così che David seppe scegliere, con discrezione prudente, ciò che si confaceva alla sua età. Andò contro un sì terribile nemico munito di quelle armi con le quali sapeva di poter combattere; lasciò la corazza e lo scudo di cui vedeva rivestiti gli altri guerrieri. Anche noi dobbiamo similmente considerare le nostre forze e, secondo quelle, scegliere il genere di vita che ci conviene. Tutte le vocazioni son buone, ma non son buone per tutti. Buona è la vita eremitica, ma noi non la riteniamo conveniente per tutti: a molti può riuscire infruttuosa e perfino dannosa. Ammettiamo volentieri che la vita cenobitica e la convivenza fraterna sono cose belle e sante, tuttavia non crediamo che tutti debbano diventare cenobiti. Inoltre, l’opera di chi riceve in ospitalità stranieri e pellegrini produce frutti bellissimi, ma tutti non potrebbero dedicarsi a quest’opera senza che la pazienza ne ricevesse danno. Ora voi dovete paragonare gli usi delle vostre regioni con quelli della nostra regione; poi dovete considerare in ciascuna regione le forze che gli abitanti hanno acquistato, con la continua pratica della virtù o del vizio. Vedrete allora che una cosa difficile per gli abitanti di una certa regione può essere diventata facile e naturale agli abitanti dell’altra, a causa di una lunga consuetudine. Ci son popoli separati dalla diversità più grande del clima che son capaci di sopportare, senza la protezione degli abiti, i più rigidi freddi e i più ardenti calori del sole. Quelli però che non hanno fatto l’esperienza di un clima così forte non possono sopportare temperature tanto insolite, anche se sono molto robusti. Così è anche per voi, che in questi luoghi vi sforzate a tutto potere di combattere la natura della vostra patria. Considerate attentamente se nelle vostre contrade, così fredde e quasi agghiacciate da un infido inverno [1], potreste sopportare la nudità che si trova qui da noi. Nel nostro paese la stessa antichità della vita monastica ha fatto diventare quasi naturale la perseveranza nel santo proposito. Se ritenete di possedere uguale costanza e uguale virtù, non siete più obbligati a fuggire la vicinanza dei vostri genitori e dei vostri fratelli. Perché possiate avere una regola sicura nel giudicare esattamente le vostre forze, voglio raccontarvi l’esempio che ha come protagonista un vecchio abate di nome Apollo. Se, dopo avere scrutato in profondità il vostro cuore, potrete dire a voi stessi di non essere inferiori a lui, né alla sua virtù, vi sarà possibile senza alcun danno della vostra professione e del vostro proposito, abitare nella vostra terra, a contatto con i vostri familiari. Vi sarà possibile, dico, perché avrete ormai la certezza che l’austera rinuncia della nostra vita (di cui volete essere seguaci per libera scelta e con la permanenza in questa regione), non potrà essere sopraffatta dagli affetti familiari, o dalla amenità dei luoghi. Era circa mezzanotte quando venne alla cella di Apollo suo fratello, il quale lo pregava piangendo di uscir dal monastero per aiutarlo ad estrarre un bove che gli era rimasto sommerso in un pantano. «Vieni ad aiutarmi — diceva il fratello — perché da solo non riesco nell’impresa». Rispose Apollo: «Perché non ti sei rivolto al nostro fratello minore, che abita proprio lungo la strada da te percorsa per venire al monastero?». L’altro pensò tra sé: si è dimenticato, il poveretto, che quel nostro fratello è morto e sotterrato da tanto tempo: si vede che la lunga penitenza e la solitudine gli han fatto perdere la testa. Poi rispose: come potevo chiamare dalla sua tomba un uomo che è morto da cinque anni?». «Bravo! — rispose l’abate Apollo — e non lo sai che io sono morto da vent’anni? Io sono morto al mondo, e dalla tomba della mia cella non posso esserti di alcun aiuto per quanto riguarda gli affari materiali. Potrebbe il Signore approvare anche una piccola sospensione alla mia vita di mortificazione, per aiutarti a tirar fuori il tuo bove? Ricorda che Gesù non concesse il tempo di andare a seppellire il proprio padre, ed era un affare più svelto e più degno di quello che tu mi proponi». Ora esaminate il mistero del vostro cuore e chiedetevi sinceramente se voi sareste capaci di usare coi vostri familiari altrettanta austerità. Se vi sentite uguali a quel vecchio abate, in fatto di mortificazione interiore, sappiate che la vicinanza dei genitori e dei fratelli non potrà recarvi danno, perché — pur restando loro materialmente vicini — vi riterrete morti per loro e non acconsentirete a prestar loro il vostro aiuto o a ricevere aiuto da essi. Germano. Su questo argomento non ci hai lasciato il minimo dubbio. Lo vediamo bene, se fossero vicini i nostri familiari non saremmo capaci di vestire così miseramente, o di andare in giro a piedi scalzi, come facciamo in questi luoghi. Neppure potremmo tanto faticare per procurarci le cose necessarie alla vita, come ad esempio, portare l’acqua a spalle da tre miglia di distanza. La vergogna, il timore di far arrossire i nostri parenti, c’impedirebbero d’agire così sotto i loro occhi. Mi pare però che non sarebbe un ostacolo al nostro proposito l’ipotesi di attendere unicamente alla lettura e alla preghiera, dopo essere stati liberati dalle preoccupazioni del cibo per intervento dei nostri familiari. Il lavoro che qui esercitiamo è per noi una distrazione; se fosse soppresso, potremmo dedicarci con più intensità ai soli esercizi spirituali. Abramo. A questo proposito non voglio dirvi il mio parere personale, ma quello del beato Antonio. Una volta che un monaco era vittima della tiepidezza, Antonio lo scosse dal suo torpore in maniera tale da poter dare, con le sue parole, la giusta risposta alla domanda posta da voi. Quel monaco dunque si presentò un giorno al beato Antonio e gli disse che la vita eremitica non meritava tutta l’ammirazione di cui veniva circondata: era segno di più alta virtù praticare la perfezione cristiana in mezzo al mondo che nel deserto. Il beato Antonio gli domandò: «Dove abiti?». Quello rispose: «Sto vicino ai miei genitori e da loro sono provvisto di tutto ciò che mi abbisogna. In tal modo sono libero da ogni preoccupazione o inquietudine che possa derivare dalla necessità quotidiana, e posso — continuava con una certa compiacenza — applicarmi alla preghiera continua senz’alcun motivo di distrazione». Antonio allora domandò: «Dimmi, caro fratello, senti tristezza nelle disgrazie che capitano ai tuoi familiari? Provi gioia quando la fortuna li assiste?» Il monaco ammise che era turbato sia dal bene che dal male riguardante i suoi familiari. Allora Antonio concluse: «Sappi dunque che nel secolo futuro tu sarai annoverato fra coloro coi quali qui sulla terra hai diviso guadagni e perdite, gioie e dolori». Non contento di questa sentenza, il beato Antonio allargò gli orizzonti del monaco interrogante. «Quello di cui ho parlato — proseguì — non è il solo danno che ti arreca la tiepidezza in cui vivi. Tu del resto non sei capace neppure di conoscere questo primo danno, e sembri dire col libro dei Proverbi: «Mi feriscono e io non sento male; mi ingannano e io non me ne accorgo» (Pr 23, 35). Oppure col profeta: «I nemici hanno divorato la sua forza ed egli non se n’è accorto» (Os 7,9). C’è anche da considerare il danno consistente nel fatto che la tua anima cambia tutti i giorni secondo gli eventi che si succedono, e si trova continuamente sommersa in pensieri terrestri. La tua tiepidezza produce un altro danno: ti priva del frutto che tu produrresti col lavoro, e della ricompensa connessa con la fatica. Di tutto provvisto dalla generosità dei tuoi genitori, ti dimentichi di provvedere alle tue necessità con l’opera delle tue mani, come stabilisce la regola del beato Apostolo, il quale nel fare le sue ultime raccomandazioni agli anziani della chiesa di Efeso fa notare come egli anche durante il santo lavoro di predicatore del Vangelo, non ha trascurato di procacciare a se stesso e ai suoi ausiliari il necessario sostentamento quotidiano. «Voi sapete che queste mie mani hanno provveduto tutto ciò che era necessario a me e a coloro che erano con me» (At 20, 34). Poi, per dimostrare che agiva così per dare a noi un esempio da seguire, l’Apostolo soggiunge: «Noi non siamo stati in ozio quando eravamo tra voi; ma abbiamo piuttosto lavorato notte e giorno, con dolore e fatica, per non essere a carico di qualcuno di voi. Non è che non avessimo diritto al sostentamento da parte vostra, ma volevamo darvi un esempio da imitare» (2 Ts 3, 10). XII. – Utilità del lavoro e danni dell’ozio Anch’io avrei potuto usufruire dell’assistenza dei miei genitori, ma ho preferito a tutte le ricchezze questa nudità in cui mi vedi. Invece di appoggiarmi sull’assistenza dei miei genitori ho preferito guadagnare il cibo quotidiano per il corpo, col sudore della mia fronte. Questa mia è una dolorosa indigenza, ma la stimo superiore alla vana meditazione della sacra Scrittura e alle sterili letture che tu esalti tanto. Né devi credere che avrei sdegnato di seguire il tuo metodo se mi fosse stato dimostrato come migliore dall’esempio degli Apostoli e dalla consuetudine dei nostri Anziani. È bene poi che tu sappia di un altro danno, non certo più leggero di quello già descritto, col quale ti sei caricato: tu, sano e robusto quale sei, ti fai mantenere con l’elemosina, che è riservata ai soli invalidi per il lavoro. In certo senso tutto il genere umano — eccezion fatta per quei monaci obbedienti al comando di san Paolo, che vivono col lavoro delle loro mani — aspetta il suo sostentamento dalla fatica di altri. Non solo coloro che si gloriano di vivere con le elargizioni dei loro genitori, o del lavoro dei loro servi, o dei frutti dei loro possedimenti, ma anche i re di questo mondo sono mantenuti con elemosine. Parla di ciò quella regola dei nostri Anziani che dice: quanto si attribuisce al nostro vitto quotidiano e non viene dal lavoro delle nostre mani è da riferirsi alla carità degli altri. In questo caso i Padri nostri seguivano l’insegnamento di san Paolo che nega agli oziosi ogni elemosina. «Chi non lavora — dice l’Apostolo — non mangi» (2 Ts 3,10). Questa fu la risposta di Antonio a quel monaco; il suo esempio c’insegna a fuggire le dannose liberalità dei genitori e di tutti coloro che vorrebbero donarci — per pura carità — i cibi necessari alla vita o un soggiorno piacevole in luoghi ameni. Il beato Antonio ci insegna ancora a preferire queste sabbie amare e sterili a tutte le ricchezze del mondo; a compiacerci di queste terre bruciate dalle inondazioni dell’acqua marina, sulle quali nessun uomo vivente esercita un diritto di proprietà. Abbiamo scelto questi luoghi, com’è evidente, per evitare la presenza degli uomini, protetti da una solitudine impervia, ma anche perché la fertilità del terreno non ci sollevi a forme molto impegnate di agricoltura, nelle quali l’anima, dopo essersi distratta dal suo fine essenziale, si condannerebbe alla sterilità spirituale. XIII. – Favola del barbiere, inventata per scoprire le illusioni diaboliche Vi dimostrate desiderosi di ritornare in patria perché avete speranza di convertire là molti vostri conoscenti e far così una grande conquista. Ascoltate in proposito una favola del beato Macario composta con arte e sapienza insieme. Quel santo monaco la raccontava un tempo a certi solitari che soffrivano del vostro stesso male, e la raccontava allo scopo di guarirli. C’era una volta, in una città, un barbiere bravissimo che rasava i suoi avventori al prezzo di tre soldi l’uno. Quantunque il prezzo fosse molto basso, ne ricavava di che vivere e di che riporre ogni giorno cento danari nella sua borsa. Mentre era intento a questo risparmio venne a sapere che in una città lontana i barbieri prendevano una moneta d’oro per ogni avventore. A quella notizia disse a se stesso: fino a quando me ne starò contento di questa paga da pezzente? Starò qui a prendermi tre soldi per ogni barba, quando potrei recarmi in quella città e arricchirmi in poco tempo? Subito si decise: prese gli arnesi del mestiere e, dopo avere spesi per il viaggio tutti i denari che aveva risparmiati, arrivò con gran fatica in quella città ricchissima. Fin dal primo giorno del suo lavoro ricevette da ogni cliente il prezzo che aveva sentito dire, e la sera — con la borsa ben rigonfia — se n’andò al mercato per fare la spesa. Ma là tutto si comprava a peso d’oro. Dopo aver speso tutto, fino all’ultimo centesimo, per comperarsi il cibo, se ne tornò a casa senza un soldo in tasca. Si accorse allora che spendeva ogni giorno l’intero guadagno e invece di ammassare qualche poco di risparmio, a mala pena riusciva a campare. Incominciò pertanto a pensare così: ritornerò nella città in cui abitavo prima e ricomincerò a lavorare per la stessa modesta mercede. Era certo una piccola paga, ma dava a sufficienza di che vivere e mi lasciava ogni giorno qualche avanzo con cui mettevo da parte un capitale per i bisogni della vecchiaia. Il risparmio quotidiano era modesto, ma aumentava continuamente e a lungo andare avrebbe fatto un bel gruzzolo. Per me era più vantaggioso quel guadagno di pochi soldi che questa ricompensa in monete d’oro. I guadagni favolosi di qui, oltre a non lasciarmi nulla per il risparmio, bastano a stento alle spese quotidiane». Anche per noi è preferibile il piccolissimo guadagno che ci è concesso in questa solitudine. Né le preoccupazioni secolaresche, né le occupazioni mondane, né i tumori della superbia potranno mettere in pericolo il nostro guadagno, come non potranno diminuirlo le necessità quotidiane. «Meglio il piccolo patrimonio del giusto che le grandi ricchezze del peccatore» (Sal 37 (36), 16). Perché desiderare guadagni più alti? Anche ammesso che possiamo ottenerli, producendo molte conversioni, la vita che si osserva nel mondo e le distrazioni giornaliere ce li faranno perdere ben presto. Dice Salomone: «Meglio una manciata nel riposo, che due manciate nella fatica e nell’affanno» (Qo (Eccle) 4, 6). Ma tutti i deboli son soggetti a queste pericolose illusioni. Non ancora sicuri della loro salvezza, bisognosi ancora di formarsi alla scuola degli altri, sono invitati da un artificio diabolico ad occuparsi della conversione e della guida del prossimo. Ammesso però che riescano a fare qualche conquista, a convertire delle anime, si vedrà poi che la loro impazienza, la loro condotta sregolata, rovinerà tutto. Si avvererà in loro quel che dice il profeta Aggeo: «Chi ammassa tesori li mette in un sacco sfondato» (Ag 1,6). Mette davvero i suoi guadagni in una borsa sfondata colui che perde con l’intemperanza del cuore e la continua distrazione, ciò che aveva acquistato con la conversione di qualche anima. Infine, questi monaci intraprendenti, mentre credono di guadagnare molto istruendo gli altri, mandano all’aria tutto il lavoro della loro riforma personale. «Ci sono alcuni che si dicono ricchi e non posseggono nulla, e ci son quelli che si tengono umili pur essendo molto ricchi» (Pr 13, 7: LXX). E ancora: «È preferibile un povero che basta a se stesso ad uno che è in dignità ma è privo di pane» (Pr 12, 9:LXX). XIV. – Domanda: qual è l’origine dei pensieri dannosi? Germano. I tuoi ragionamenti hanno rivelato molto opportunamente gli errori che c’ingannano. Ora però vorremmo sapere le cause e i rimedi del nostro errore. Vorremmo insomma sapere qual fu l’origine del nostro inganno. Nessuno infatti potrà negare che è possibile curare il proprio male soltanto a chi ne ha scoperto la causa. Abramo. Tutti i vizi hanno una stessa sorgente, un’identica origine, ma il nome del vizio varia a seconda della parte dell’anima, o del membro spirituale che ne è infetto. Si hanno così le diverse passioni o malattie spirituali, che si denominano per analogia coi difetti e le malattie corporali. Anche per i mali del corpo la causa è una sola, ma si distinguono molte specie di malattie secondo le membra che ne sono colpite. Se un umore dannoso penetra nel capo, che è come la fortezza di tutto il corpo, si ha la cefalgia; se lo stesso umore prende le orecchie o gli occhi, si avrà l’otalgia o l’oftalmia; se va alle giunture o alle articolazioni delle mani, si ha il male articolare o la chirargia; se l’umore scende ai piedi, il male cambia nome e si chiama podagra. Una stessa sorgente, cioè l’umore maligno, dà origine a tanta varietà di nomi, a seconda delle parti o delle membra che raggiunge. Se dalle cose visibili passiamo a quelle invisibili, possiamo ritenere che tutta la forza dei vizi si trovi raccolta nelle varie parti o potenze dell’anima. I filosofi ci avvertono che nell’anima umana ci sono tre zone o facoltà distinte: quella ragionevole, quella irascibile, quella concupiscibile. Qualcuna di queste potenze dovrà essere alterata quando un male si impadronirà di noi. Allorché una passione funesta attacca qualcuna delle varie potenze dell’anima, vi produce una alterazione: da quell’alterazione prende nome un particolare vizio. Se una peste spirituale s’impossessa della parte ragionevole, vi produce la vanagloria, la sostenutezza, la superbia, la presunzione, la contenzione, l’eresia. Se ferisce la parte irascibile, genera furore, impazienza, tristezza, accidia, pusillanimità, crudeltà. Se infetta la parte concupiscibile, produce golosità, impurità, avarizia, amore del denaro, desideri nocivi e terrestri. XVI. – La parte ragionevole dell’anima nostra è corrotta Se volete conoscere la sorgente del male che vi affligge ricordate prima che è stata colpita una parte dell’anima vostra ed è proprio da quella che derivano i vizi della presunzione e della vanagloria. È quindi necessario curare quest’organo principale, cioè la potenza dell’anima, col giudizio della retta discrezione e con la virtù dell’umiltà. È stato infatti a causa di questa alterazione che voi, immaginando di essere arrivati al colmo della perfezione e stimandovi capaci di formare gli altri, siete stati presi dalla vanagloria e trasportati in quei vani pensieri che non avete confessato. Potrete facilmente troncare queste sciocche vanità se sarete ben fondati, come vi ho detto sopra, nell’umiltà della vera discrezione. In tal caso, compunti dal dolore, comprenderete quanto sia faticosa e dolorosa per ciascuno l’opera della salvezza. Potrete anche convincervi che, invece d’insegnare la perfezione agli altri, avete bisogno voi stessi di un maestro che vi aiuti. XVII. – La parte più debole dell’anima è la prima a soccombere dinanzi agli assalti del diavolo Applicate perciò al membro o alla parte dell’anima che abbiamo detto particolarmente ammalata il rimedio dell’umiltà. Questa virtù, per il fatto di essere più debole delle altre, cede per prima agli attacchi del demonio. Anche nelle malattie dello spirito avviene come in quelle del corpo: le parti più deboli, se sono assalite da una fatica insolita o da un’aria recante infezione, sono le prime a cedere e a soccombere. Quando poi la malattia si è insinuata in quella parte, raggiunge di là anche le parti che erano rimaste sane. Così avviene per le anime nostre. Quando soffia il vento pestilenziale del vizio, l’anima ne è toccata nel suo lato più delicato e più debole, nel lato cioè che presenta minor resistenza agli assalti del nemico. Così l’anima è in pericolo di essere espugnata da quella parte in cui una difesa poco attenta apre un varco più facile al tradimento. Basandosi su questo ragionamento Balaan capì per segni sicuri che il popolo di Dio poteva essere ingannato, e dette il consiglio di tendere i lacci da quella parte in cui vedeva che i figli d’Israele erano più deboli. Egli non dubitò minimamente della loro pronta caduta, se ad essi fosse stata offerta una occasione di lussuria: sapeva bene che la parte concupiscibile della loro anima era la più debole e pronta a corrompersi. Questa è pure la tattica usata dalla perfida malignità delle potenze infernali quando ci tentano. Tendono soprattutto le loro reti insidiose da quelle parti in cui sanno che l’anima è già ammalata. Se vedono che in noi è viziata la parte ragionevole, cercano d’ingannarci con lo stratagemma usato dai Siri col re Acab. Ecco come lo racconta la sacra Scrittura: «Noi sappiamo che i re d’Israele sono buoni, rivestiamoci dunque di sacco, poniamo le funi al nostro collo, andiamo dal re d’Israele e diciamogli: il tuo servo Benadab parla così: risparmia, te ne prego, la mia vita». Acab, non per vera compassione, ma perché commosso dal discorso adulatorio, rispose: «Se il vostro re vive ancora, sia mio fratello» (1 Re 20, 31-32). In modo simile cercano i demoni di ingannare la parte razionale dell’anima nostra, per farci offendere Dio con quegli atti dai quali ci attendevamo di ricevere una ricompensa e di ottenere il premio della nostra clemenza. Così anche noi meritiamo il rimprovero rivolto ad Acab: «Poiché ti sei lasciato sfuggire di mano un uomo che meritava la morte, la tua vita sostituirà la sua vita, il tuo popolo sostituirà il suo popolo» (1 Re 20, 42). Anche quando lo Spirito maligno dice: «Uscirò e sarò spirito di menzogna sulla bocca di tutti i suoi profeti» (1 Re 22, 22), è evidente che il demonio tende le sue reti dalla parte razionale dell’anima, perché la conosce più indifesa di fronte alle sue insidie mortali. Anche sul conto di nostro Signore il maligno s’era fatta una idea di questo genere, perciò lo tentò nelle sue tre facoltà dell’anima, infatti è sempre da una di queste porte che entra il male a far prigioniero il genere umano. Ma tutti gli assalti diabolici con Gesù furono vani. Fu attaccata la parte concupiscibile quando il tentatore disse: «Comanda che queste pietre diventino pane» (Mt 4, 3); fu attaccata la parte irascibile quando satana spinse il Signore a desiderare la potenza del mondo presente e i regni della terra; fu assalita la parte ragionevole quando il tentatore disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gettati giù» (Mt 4, 6). Ma tutti i tentativi diabolici son vani, perché — contrariamente a quel che il tentatore aveva pensato — in Gesù non c’era nulla che fosse intaccato dal vizio. Per questo nessuna parte dell’anima sua acconsentì alle insidie del nemico tentatore. «Ecco che viene il principe di questo mondo — dice il Signore — ma in me non troverà nulla» (Gv 14, 30). XVIII. – Domanda: se il desiderio dì un silenzio più intenso ci avvicini al cielo. Germano. Erano una follia le illusioni e gli errori che ci avevano accesi del desiderio di rivedere la nostra patria e ci sollecitavano — come la tua Beatitudine ha messo bene in chiaro — con la vana speranza di trovarvi vantaggi spirituali. Fra tutte le nostre illusioni primeggia questa: i confratelli che qui ci vengono a visitare, di tempo in tempo, ci impediscono di esser completamente soli e di conservare, come noi vorremmo, un continuo silenzio. Oltre a ciò siamo anche costretti, quando arriva da noi un ospite, a rompere la regola della quotidiana astinenza e ad aumentare la misura del nostro cibo, mentre il nostro desiderio sarebbe quello di restar fedeli alla regola, per meglio castigare il nostro corpo. Ci pare che questo inconveniente non si dovrebbe verificare nella nostra regione, perché là non s’incontra nessuno, che professi il nostro genere di vita. XIX. – Risposta sulla illusione del diavolo che consiste nel promettere la pace come frutto di una solitudine più vasta Abramo. Il desiderio di non ricevere mai una visita è un segno di severità irragionevole e sciocca; peggio ancora: è segno di gravissima tiepidezza. Quel monaco che cammina a passi lenti per la via intrapresa e sente vivere ancora in sé l’uomo vecchio, è bene che non sia visitato né dai santi, né dalle persone comuni. Ma se siete accesi dal vero e perfetto amore di Dio, se siete al seguito del Signore, che è carità, con un fervore sincero, potrete ben fuggire nei luoghi più inaccessibili che si possono trovare, gli uomini verranno sempre a trovarvi. Più la fiamma dell’amore divino vi avvicinerà a Dio, più grande sarà la moltitudine di santi che verrà a trovarvi. Ci dice che è così anche la sentenza del Signore: una città posta sul monte non può rimanere nascosta. «Coloro che mi amano — dice il Signore — io li glorificherò, ma coloro che mi disprezzano saranno senza onore» (1 Sam 2, 30). Ricordatevi che l’astuzia più sottile del diavolo, il trabocchetto più occulto nel quale precipitano le anime imprudenti, consiste nel rubare ad esse il necessario guadagno del progresso quotidiano, mentre promette beni più considerevoli. Esorta a cercare solitudini più nascoste e più vaste, che dipinge come ornate di ammirevoli bellezze; presenta persino immagini di luoghi ignorati, neppur reali, e i monaci li contemplano come se fossero veri, li trovano belli, pronti ad accoglierli, tutti disponibili per loro, senza che ci sia difficoltà a prenderne possesso. Riguardo agli abitanti della zona, il menzognero li presenta gentili, facilmente persuasibili ad intraprendere la via della salvezza; assicura che il monaco potrà cogliere là frutti abbondantissimi. Ma col miraggio di queste promesse non tende ad altro che ad impedire il progresso reale e possibile in quel momento. Se il monaco darà ascolto a queste vane speranze, si vedrà svanire tutte le larve che si era dipinto in cuor suo; sarà come uno che si sveglia da un sonno profondo e non trova più nulla di quel che aveva sognato. Il demonio lo legherà poi con lacci più forti e inestricabili: le necessità della vita presente lo avvolgeranno come una rete. Non avrà più neppure il tempo per sospirare i beni che aveva sperato di raggiungere. Ha voluto sfuggire le visite dei suoi confratelli, rare e tutte piene di spirito soprannaturale, ed ecco che ora è stretto tutto il giorno dalle visite dei secolari. Non sa più trovare, neppure per breve tempo, la calma e la regolarità della vita eremitica. Quel momento di gentile riposo che ci procura il dovere dell’ospitalità, quando viene a trovarci un confratello, sento che a voi sembra una noia da evitare, mentre è al contrario un’occasione molto utile, sia per il corpo che per l’anima. Fate un poco attenzione a quel che ne dirò. Spesso capita, non solo ai novizi e ai deboli, ma anche ai monaci giunti alla perfezione, un momento difficile. Se una certa varietà di vita non porta al loro spirito, sempre occupato in cose serie, un poco di sollievo, essi cadono nella tiepidezza, oppure la loro salute subisce un danno pericoloso. Perciò anche gli eremiti, se sono prudenti e perfetti, devono fare qualcosa di meglio che sopportare con pazienza le visite dei confratelli: devono riceverle gioiosamente. Quelle visite ci stimolano a desiderare sempre più ardentemente il segreto della solitudine. Potrebbe sembrare che ritardassero il nostro corso, ma in realtà salvaguardano la sua indefettibile continuità. Infatti se non ci fosse mai un ostacolo a farci segnare il passo, non potremmo andare sino in fondo con la stessa velocità. Inoltre quelle visite ci offrono, insieme col frutto dell’ospitalità, un supplemento di cibo che fa bene al nostro povero corpo e ci fa progredire di più che se avessimo perseverato nel proposito dell’astinenza. Ora voglio dirvi su questo argomento una similitudine che mi pare calzante: è vecchia e conosciuta quasi dovunque. XXI. – Come S. Giovanni evangelista ha dimostrato l’utilità del riposo. Si dice che il beato evangelista Giovanni accarezzasse dolcemente una pernice, quando si vide venire incontro un filosofo in tenuta da cacciatore. Quello si meravigliò molto che un uomo così celebrato e stimato si abbassasse ad atti così piccoli, a così umili passatempi. Gli disse perciò: «Sei tu il famoso Giovanni, quello tanto rinomato e illustre fra tutti gli uomini, quello che io ho ardentemente desiderato di conoscere? Perché ti perdi in un passatempo così basso?». Il beato Giovani gli rispose: «Che cosa hai in mano?» Disse il filosofo: «Un arco». «E perché — soggiunse l’Evangelista — non lo porti sempre teso?». Il filosofo allora: «Perché un arco sempre teso si allenta e perde vigore. Se dovessi scagliare una freccia più potente contro qualche animale — supposto che l’arco avesse perduto vigore a causa della tensione continua — il colpo non partirebbe più con la forza necessaria». «Allora — concluse Giovanni — tu non devi meravigliarti che io conceda al mio spirito questo breve e innocente sollievo. Se di tempo in tempo non lo faccio riposare con un poco di ricreazione, lo sforzo lo indebolirà e non potrà più obbedire all’impulso della parte razionale, quando ciò sarà richiesto». XXII. – Come vanno intese le parole evangeliche: «Il mio giogo è soave e il mio peso è leggero» Germano. Ora che tu hai dato il conveniente rimedio a tutte le nostre illusioni; ora che la tua dottrina ha svelato tutti quegli inganni diabolici che prima ci agitavano così violentemente, ti preghiamo di spiegarci quelle parole di nostro Signore: «Il mio giogo è dolce, il mio peso è leggero» (Mt 11, 30). Queste parole sembrano contrastare con le altre del profeta: «In conseguenza delle parole delle tue labbra io ho tenuto vie dure» (Sal 17 (16), 4). C’è poi anche san Paolo che dice: «Tutti coloro che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù, dovranno soffrire persecuzione» (2 Tm 3, 12). Ciò che è duro e irto di persecuzioni, come può essere leggero e soave? XXIII. – Spiegazione di quelle parole Abramo. La parola del Signore e Salvatore nostro è perfettamente vera: ce lo attesta la stessa nostra esperienza. Per conoscerne la verità basta entrare nella via della perfezione nel modo conveniente e secondo la volontà di Cristo. Ciò significa mortificare tutti i nostri desideri; contrariare le nostre voglie cattive; non permettere che ci rimangano beni di questa terra, che darebbero un punto d’appiglio al demonio per angariarci e lacerarci a suo piacere. Più ancora: significa convincerci che noi non dobbiamo essere noi stessi, ma dobbiamo compiere nella sua perfezione quella parola di san Paolo che dice: «Io vivo, ma non sono io che vivo, è Cristo che vive in me» (Gal 2, 20). Che cosa potrebbe essere grave o duro per colui che ha accettato il giogo di Cristo con tutta l’anima, si è fondato nella vera umiltà, tiene l’occhio sempre fisso ai dolori del crocifisso, si rallegra di tutte le ingiurie che gli possono essere arrecate, e dice con l’Apostolo: «Io mi compiaccio nelle debolezze, nelle offese, nelle privazioni, nelle persecuzioni, nelle difficoltà, sopportate per Cristo? Quando sono debole, allora sono forte»! (2 Cor 12, 10). Quale danno dei beni di fortuna potrà far soffrire colui che, lieto di essersi spogliato d’ogni cosa per amore del Signore, ha rifiutato tutte le ricchezze di questo mondo e stima tutte le concupiscenze simili a letame, pur di poter acquistare l’unione con Cristo? Un tal uomo disprezza e scaccia dal cuore ogni dolore che potrebbe venirgli dalla perdita dei beni terreni, e medita continuamente le parole del Signore: «Che giova all’uomo guadagnare tutto il mondo, se poi perde l’anima sua? Che cosa può dare l’uomo in cambio dell’anima?» (Mt 16, 26). Quale privazione potrà rattristare colui per il quale tutto ciò che altri possono rapirgli è cosa che non gli appartiene? Egli dice infatti con invincibile coraggio: «Niente abbiamo portato in questo mondo ed è certo che niente potremo portarcene via» (1 Tm 6, 7). Quale povertà potrà fiaccare la forza di uno che non vuole avere né bisaccia per il viaggio, né denaro nella cintura, ma si vanta con l’Apostolo «Nei molteplici digiuni, nella fame, nella sete, nel freddo, nella nudità» (2 Cor 11, 27)? Quale fatica, o quale duro comando di un superiore, potrà turbare la tranquillità di cuore di chi, dopo aver rinunciato alla propria volontà, affronta ciò che gli viene comandato non solo con pazienza, ma anche con gioia? Costui segue l’esempio del Signore: non vuol più fare la volontà propria, ma quella del Padre; perciò dice con Gesù: «Non come voglio io, ma come vuoi tu» (Mt 26, 33). Quali ingiurie, quali persecuzioni potranno atterrire; o meglio: quale supplizio non farà contento, colui che in mezzo a tutte le piaghe esulta e si rallegra continuamente come gli Apostoli, perché è stato trovato degno di soffrire persecuzione per il nome di Cristo? XXIV. – Perché il giogo del Signore sembra amaro e pesante Se il giogo di Cristo non ci sembra né leggero né soave, è colpa della nostra resistenza ostinata. Sono la sfiducia e la mancanza di fede a metterci contro il comando — o meglio contro il consiglio — di colui che ha detto: «Se vuoi essere perfetto, va’, vendi tutto quello che hai (vendere vuol dire lasciare), poi vieni e seguimi» (Mt 9, 21). In altre parole: la colpa è di chi vuol conservare i beni della terra. Da questa volontà traggono origine infinite catene con le quali il demonio ci tiene attaccati alla terra. La conseguenza che ne deriva è funesta. Per allontanarci dalle gioie spirituali il nemico ci farà soffrire delle diminuzioni, o delle perdite totali, della nostra ricchezza. Tutte le sue astuzie mirano a questo scopo: quando la nostra concupiscenza viziosa ci avrà reso pesante il dolce giogo del Signore e dura la sua lievità; dopo che saremo tornati schiavi delle ricchezze che abbiamo ricercato per nostro riposo e nostra consolazione, ci perseguiterà incessantemente coi flagelli delle preoccupazioni terrene, troverà in noi stessi i motivi per batterci. E questo avviene perché «ogni uomo è legato coi lacci del suo peccato» (Pr 5, 22: LXX). Anche il profeta dice: «Voi tutti che accendete il fuoco e vi circondate di fiamme, gettatevi nel vostro fuoco e nelle fiamme che avete acceso» (Is 50, 11). Salomone, a sua volta, dice qualcosa di simile: «Ognuno è punito con quelle cose che gli hanno servito a peccare» (Sap 11, 17). I piaceri da noi cercati diventano il nostro tormento; le gioie e le consolazioni del corpo si rivoltano contro di noi a somiglianza di carnefici. Il monaco che conta su questi beni e su questi aiuti della sua prima vita, non raggiungerà la perfetta umiltà del cuore, né la sincera mortificazione dei piaceri peccaminosi. Con l’aiuto delle virtù proprie alla vita monastica si possono invece ben sopportare le strettezze della vita presente; le stesse perdite che il nemico c’infligge si sopportano, non con pazienza soltanto, ma con gioia sincera. L’assenza di quelle virtù, invece, produce un innalzamento dannoso che al più piccolo urto ci fa precipitare nei vortici mortali dell’impazienza. Allora il profeta Geremia ci rivolge queste parole: «E ora, che cosa cerchi sulla via d’Egitto? Vuoi andare a bere l’acqua torbida? Che cosa cerchi sulla via dell’Assiria? Forse di bere l’acqua del fiume? La tua malizia ti accuserà, la tua infedeltà ti sarà di rimprovero. Sappi e comprendi quale male amaro è stato per te aver abbandonato il Signore Dio tuo e aver cacciato da te il suo timore» (Ger 2, 18-19). Se ci pare amara la soave leggerezza del giogo del Signore, è segno che noi vi mescoliamo amarezza coi nostri tradimenti. Se l’amabile levità del peso impostoci da Dio ci diventa pesante, è segno che noi, con la nostra presunzione orgogliosa, disprezziamo il soccorso di Colui che ci aiuta a portarlo. Questo insegna la sacra Scrittura: «Se camminassero per vie diritte, troverebbero dolci i sentieri della giustizia» (Pr 2, 20). Siamo noi, soltanto noi, che facciamo diventare impraticabili, con le pietre dei nostri desideri duri e cattivi, le vie dritte e agevoli del Signore. Siamo noi che abbandoniamo scioccamente la via regia, costruita con le pietre apostoliche e profetiche, spianata dai passi santi del Signore, per seguire vie contorte, piene di precipizi. Accecati dai miraggi dei piaceri terrestri, ci arrampichiamo per vie tutte spinose, coi ginocchi rotti alle pietre del vizio, con la veste nuziale fatta in brandelli. Così, non solo siamo punti dalle spine acutissime, ma siamo preda dei serpenti e degli scorpioni che per quella via hanno i loro nascondigli. Sta scritto infatti: «Nelle vie perverse ci sono spine e agguati, ma chi teme il Signore ne va immune» (Pr 22, 5: LXX). In altro luogo il Signore parla così per bocca del profeta: «Il mio popolo si è dimenticato di me, ha fatto sacrifici vani, ha camminato per le sue vie, per i sentieri del mondo, ha intrapreso un cammino che non era agevole» (Ger 18, 15). Salomone dice ancora: «Le vie dei pigri sono lastricate di spine, quelle dei forti sono bene sgombre» (Pr 15, 19). Certamente chi si allontana dalla via regia, non potrà giungere alla città santa, alla città-madre, dove il nostro viaggio dovrebbe essere continuamente indirizzato. L’Ecclesiaste presenta bene queste verità: «La fatica degli stolti è afflizione per loro: essi non conoscono neppure la via per andare alla città» (Qo (Eccli) 10, 15). E vuol dire naturalmente «quella Gerusalemme celeste che è madre di tutti noi» (Gal 4, 26). Chi invece ha rinunciato sinceramente al mondo e ha preso sopra di sé il giogo di Cristo, ha imparato da lui, con la sopportazione quotidiana delle ingiurie, ad essere «dolce e umile di cuore» (Mt 11, 29). Costui rimarrà irremovibile in mezzo a tutte le tentazioni e «tutte le cose concorreranno al suo bene» (Rm 8, 28). Dice infatti il profeta Abdia: «Le parole di Dio sono con colui che cammina per la via retta» (Mi 2,7). E ancora: «Le vie del Signore sono diritte e i giusti camminano in esse, i cattivi invece in esse cadono» (Os 14, 10). XXV. – Utilità delle tentazioni La grazia del Signore, sempre generosa con noi, ci procura una corona di gloria, attraverso la lotta contro le tentazioni, più bella di quella che avremmo meritato se fossimo stati dispensati dal combattimento. È segno di virtù sublime ed eccellente conservare la propria fermezza intrepida, rimanere fino all’ultimo confidenti nell’aiuto divino, pur in mezzo a un turbine di persecuzioni e di prove. È segno di alta virtù trionfare degli assalti degli uomini, rivestiti della corazza di una virtù invincibile, e riportare vittoria sull’impazienza, quasi trasformando in una virtù la nostra stessa debolezza. È detto infatti nel libro Sacro: «Ecco che io ti ho stabilito in questo giorno come una città fortificata, come una colonna di ferro e un muro di bronzo su tutto il popolo della regione. Ti assaliranno, ma non vinceranno, perché io sono con te per liberarti, dice il Signore» (Ger 1, 18-19; Cfr. 2 Cor 12, 9). Concludiamo dunque che secondo le testimonianze divine la via regia è breve e soave, anche se appare dura e aspra. Quando i servi buoni e fedeli avranno preso sopra di sé il giogo del Signore, impareranno ad imitare Lui, che è mite e umile di cuore. Si libereranno così dal peso delle passioni terrestri e, con l’aiuto di Dio, troveranno pace, non fatica, per le loro anime. È quel che Dio stesso promette per bocca del profeta Geremia: «State sulla via e osservate; interrogatevi sul vostro passato cammino; domandatevi qual è la via buona e camminate per quella: così troverete quiete per le anime vostre» (Ger 6, 16). Per costoro, subito «le vie tortuose saranno raddrizzate e le vie aspre saranno appianate» (Is 40, 4). Allora gusteranno e vedranno «quanto è buono il Signore» (Sal 34 (33), 9). All’udire il Signore che nel Vangelo esclama: «Venite a me, voi tutti che siete affaticati e aggravati da un peso; venite e io vi ristorerò (Mt 11, 28), essi si sbarazzano dal peso dei loro vizi; così possono meglio intendere le parole seguenti: «Il mio giogo è soave e il mio peso è leggero» (Mt 11, 30). Certamente la via del Signore è facile, basta camminarvi secondo la legge del Signore. Siamo noi a procurarci dolori e tormenti con le nostre preoccupazioni sproporzionate e confuse; e questo avviene perché preferiamo seguire le vie tortuose del mondo, anche a costo di gravissimi pericoli e immense difficoltà. Quando con una simile condotta abbiamo fatto diventare duro e pesante il giogo del Signore, lo spirito di bestemmia ci induce a lamentarci del giogo, o del Signore stesso che ce l’ha posta sopra le spalle. Meritiamo così quel rimprovero: «La stoltezza dell’uomo corrompe le sue vie, ma in cuor suo l’uomo accusa Dio» (Pr 19, 3). Se noi diremo — come si legge nel profeta Aggeo: — «La via del Signore non è diritta» (Ez 18, 25), Dio ci risponderà: «La via del Signore non è diritta? Non è vero, piuttosto, che le vie vostre sono storte?» (Ez 18, 25). Se si paragona il fiore soavemente profumato della verginità e l’infinita delicatezza della castità, con l’odore tetro e fetido dei piaceri carnali; se si paragona il riposo e la quiete dei monaci, con i pericoli e le disgrazie da cui sono sommersi gli uomini di mondo; la pace della nostra povertà, con le tristezze divoranti e le preoccupazioni continue che struggono giorno e notte i ricchi, con pericolo per la loro stessa vita, ci sarà facilissimo ammettere che il giogo del Signore è dolcissimo e il suo peso è molto leggero. XXVI. – In qual senso è promesso il centuplo in questo mondo a chi opera una perfetta rinunzia In questo senso giustissimo, verissimo e conforme alla fede, va intesa la promessa fatta dal Signore di pagare col centuplo in questa vita chi fa una perfetta rinunzia: «Chi lascia la casa, i fratelli, le sorelle, il padre, la madre, la moglie, i figli, i campi, per il mio nome, riceverà il centuplo e avrà la vita eterna» (Mt 19, 20). Queste parole son prese da molti in un senso errato; dànno così occasione per affermare che i santi godranno, per un millennio dopo la morte, il centuplo di ciò che abbandonarono in vita [2]. Quando però questi eretici affermano che il felice millennio avverrà dopo la risurrezione, manifestano chiaramente che quel periodo sarà ben diverso dal tempo presente. Ma il nostro pensiero è molto più credibile e chiaro. Se uno, per seguire la chiamata di Cristo, avrà disprezzato affetti e ricchezze terrestri, dai fratelli che troverà nella vocazione da lui seguita, avrà in questa vita un amore cento volte più grande di quello lasciato. Infatti l’amore che nasce qui sulla terra dall’amicizia e dalla parentela, come quello tra genitori e figli, fratelli e sorelle, sposo e sposa, appare fragile e di breve durata. Quando i figli son cresciuti può darsi che si allontanino — anche se buoni e obbedienti — dalla casa paterna e dal patrimonio degli avi; il legame coniugale talvolta è rotto, anche per motivi onesti; si vedono i fratelli dividersi i loro beni con liti e processi. Soltanto i monaci rimangono per tutta la vita in una strettissima unione, e posseggono ogni cosa in comune. Ognuno stima suo ciò che appartiene ai fratelli; stima proprietà dei fratelli ciò che appartiene a lui. Se si paragona la bellezza dell’amore fraterno vigente nei monasteri, con gli affetti che derivano dai legami carnali, si scorge che l’amore dei monaci è di gran lunga più dolce e sublime. Anche la continenza monastica sarà cento volte più soave e più bella della gioia che traggono gli sposi dall’unione coniugale. Oltre a ciò si veda quale abbondanza e quale centuplo di ricchezze costituisca aver lasciato un campo, o una casa, per passare all’adozione dei figli di Dio e possedere come proprio tutto ciò che appartiene al Padre celeste, Quale ricchezza, poter dire veramente e dal profondo del cuore, ad imitazione del Figlio eterno: «Tutto ciò che è di mio Padre, è mio!» (Gv 16, 15). Senza più sentire le dolorose inquietudini della vita mondana, il cuore del monaco è tranquillo e contento, dappertutto si trova come a casa sua, ogni giorno sente risuonare al suo orecchio la parola dell’Apostolo: «Tutto è vostro: il mondo, le cose presenti e quelle future!» (1 Cor 3, 22). Oppure quelle di Salomone: «L’uomo fedele è padrone del mondo e delle ricchezze» (Pr 17, 6: LXX). Si ha dunque una ricompensa centuplicata nella quantità del premio e nella superiore sua qualità. Se per una certa quantità di bronzo, o di ferro, o di qualche altro metallo, uno vi desse uno stesso peso d’oro, non pensereste forse che egli vi ha dato più che il centuplo? Così, quando in cambio del disprezzo dei pensieri e degli affetti terreni, vi è data la gioia spirituale e la contentezza della preziosissima carità, la quantità dello scambio può restare identica da una parte e dall’altra, ma è vero che il centuplo dato da Dio è cento volte più grande e prezioso. Ma voglio ripetermi, per rendere più chiaro il mio concetto. Figuriamoci un tale che ama sua moglie con tutti gl’impeti della concupiscenza, poi — passato alla vita religiosa — l’ama nell’amore e nella santità della vera carità; la sposa è la stessa, ma il valore dell’amore è salito cento volte più in alto. Paragonate anche le perturbazioni dell’ira e del furore con la costante dolcezza della pazienza; il tormento degli affanni e delle preoccupazioni, col riposo della tranquillità; la tristezza infruttuosa del mondo presente, col frutto di quella tristezza penitenziale che produce salvezza; la vanità delle soddisfazioni temporali, con l’abbondanza della gioia spirituale: in questo scambio il centuplo vi apparirà evidente. Così pure se si paragona col breve e fuggevole piacere del vizio il merito della opposta virtù, la gioia che dalle virtù deriva in abbondanza, ci dirà che abbiamo ricevuto il centuplo. Il numero 100 si ottiene passando dalla mano sinistra alla mano destra, e quantunque la figura formata con le dita sia identica, la quantità significata è immensamente più grande [3]. Finché stiamo a sinistra siamo tra i caproni, quando passiamo a destra diventiamo pecore. Consideriamo ora la quantità di quei beni che il Signore ci rende, già in questo mondo, per aver noi disprezzato le comodità della terra. Il testo del Vangelo di san Marco ci persuade a fare questo conteggio, là dove dice: «Nessuno ha lasciato la casa, i fratelli, le sorelle, la madre, il padre, i figli, i campi, per me e per il Vangelo, senza che qui riceva, in questo tempo, il centuplo in case, fratelli, sorelle, madri, figli, campi, insieme con la persecuzione. Nel secolo futuro avrà poi la vita eterna» (Mc 10, 29-30). È chiaro dunque che colui il quale rinuncia in nome del Signore, all’amore di un padre, d’una madre, di un figlio, per entrare nella vera e pura carità verso tutti i servi del Signore, riceve una quantità cento volte più grande di fratelli e di genitori. Invece di un solo padre e di un solo fratello, ne avrà in seguito una vera moltitudine, e tutti gli saranno uniti con un affetto più ardente e più alto. Costui vedrà anche moltiplicarsi le sue case e i suoi campi, perché dopo aver lasciato per amore di Cristo una sola casa, avrà a sua disposizione innumerevoli monasteri, nei quali potrà entrare come padrone, in qualunque parte del mondo si trovi. Si potrà dire che non riceve il centuplo e anche più del centuplo — se è lecito fare un’aggiunta alla parola del Signore — colui che, dopo aver rinunciato al servizio poco sicuro e poco spontaneo di dieci o venti schiavi, si vede poi attorniato dalle amorose attenzioni di tante persone libere e di nobile origine? Ora la vostra personale esperienza vi attesta che questo fenomeno si avvera con frequenza. Per un padre, una madre, una casa, che potete aver lasciato, avete trovato, in ogni parte del mondo in cui vi siete trovati, padri, madri, fratelli senza numero. Avete altresì ottenuto, senza fatica o affanno, molte case, molti campi, servi fedelissimi che vi accolgono, vi amano, vi offrono i loro servigi, vi rispettano come se foste i loro veri padroni, vi esprimono i segni del più sincero onore. Ma di questi servigi io penso che potranno rallegrarsi veramente solo quei santi che per primi hanno tutto abbandonato — perfino se stessi — per consacrarsi al servizio dei fratelli in volontario sacrificio. Secondo la promessa del Signore, essi riceveranno infallibilmente ciò che hanno donato agli altri. Colui invece che non avrà dato tutto ai fratelli, con umiltà sincera, non accetterà con pazienza il dono degli altri. In certi atti di servizio sentirà più un peso che una consolazione, perché egli ha preferito esser servito piuttosto che servire. Il vero monaco, infine, non godrà tutti questi doni in una calma pigra e in una gioia sciocca; li godrà in mezzo alle afflizioni della vita presente, fra le angosce e le prove dolorose. Dice così anche il saggio: «Chi vive nella gioia e senza dolore, sarà in povertà»(Pr 14, 23: LXX). Ciò equivale a dire che il regno dei cieli è possesso dei violenti, non già dei pigri, dei deboli, dei delicati, dei flessibili. E chi sono questi fortunati «violenti»? Coloro che fanno una gloriosa violenza alla loro stessa vita: non agli altri; coloro che, con un furto onorevole, privano la propria anima del piacere che deriva da tutte le cose del mondo. Questi sono quei ladri gloriosi dei quali parla il Signore; essi penetrano a forza — per mezzo di questa rapina — nel regno dei cieli. «Il regno dei cieli — dice Gesù — si prende con la violenza e solo i violenti se ne impossessano» (Mt 11, 12). Certo, son violenti coloro che fanno violenza alla loro perdizione. Sta scritto infatti che l’uomo «in mezzo ai dolori, fa il suo vantaggio e impedisce con la violenza la sua perdizione» (Pr 16, 26: LXX). La nostra perdizione è la gioia della vita presente, o per dirla in maniera più chiara, è il soddisfacimento dei nostri desideri e dei nostri gusti. Colui che allontana da sé, con la mortificazione, questi gusti personali, fa davvero una violenza gloriosa e utile alla sua perdizione, perché rinuncia a ciò che ha di più caro. Son proprio questi nostri gusti che la parola del Signore molte volte condanna per bocca del profeta: «La vostra volontà trionfa nei giorni del vostro digiuno» (Is 58, 3). E ancora: «Se non ti metti in cammino in giorno di sabato; se rinunci a far la tua volontà nel giorno che mi è consacrato; se onori quel giorno rinunciando completamente a seguire le tue vie, a far la tua volontà, a dire parole vane…» (Is 58, 13). A chi agisce così, lo stesso profeta dice subito dopo quale felicità è promessa: «Allora troverai nel Signore la tua gioia; io ti innalzerò al disopra di tutte le altezze terrestri e ti nutrirò con l’eredità di Giacobbe tuo padre. Così ha parlato la bocca del Signore» (Is 58, 14). Per offrirci un modello di questa rinuncia alla nostra volontà, Gesù, Signore e Salvatore nostro, disse: «Io non son venuto per fare la mia volontà, ma la volontà di Colui che mi ha mandato» (Gv 6, 38). E ancora: «Padre, non si faccia come voglio io, ma come vuoi tu» (Mt 26, 39). Questa virtù della rinuncia alla propria volontà la praticano soprattutto coloro che vivono nelle case cenobitiche. L’autorità d’un Anziano li guida; essi non fanno nulla di propria elezione: in tutto li guida l’autorità d’un altro abate. E prima di chiudere questa Conferenza lasciatemi dire una cosa: non è chiaro che i servi fedeli di Cristo sono compensati col centuplo, dal momento che i più alti personaggi della terra li onorano per rispetto al nome di Cristo? Un vero servo di Dio non cerca certamente la gloria umana, ma con tutto ciò egli è oggetto di rispetto per principi e per potenti, anche in mezzo alle angustie della persecuzione. Se quel monaco ora rispettato dai prìncipi fosse rimasto nella vita del mondo, forse l’umiltà dei suoi natali, o la sua condizione di schiavo, lo avrebbero fatto apparire spregevole anche alla gente di poco conto. La milizia di Cristo lo ha invece nobilitato. Nessuno osa più deridere la sua condizione sociale, nessuno gli rinfaccia la bassezza delle sue origini. C’è di più: la bassezza delle origini, che di solito è motivo di disonore e confusione per gli altri uomini, diventa un titolo di nuova nobiltà e di maggior gloria per il servitore di Cristo. Tutto questo si può vedere applicato con molta chiarezza nell’abate Giovanni, che vive nel deserto, presso la città di Lico. Egli era nato da genitori oscurissimi, ma il nome di Cristo lo ha fatto degno d’ammirazione presso tutto il genere umano. I dominatori della terra, coloro che detengono il dominio e il governo di questo mondo, coloro che fanno tremare con la potenza gli stessi re della terra, lo venerano come loro Signore, mandano dai luoghi più lontani ad interrogarlo, affidano alle sue preghiere la loro sovranità, la loro vita, l’esito delle loro battaglie. ★ Questa fu la conferenza dell’abate Abramo sull’origine e il rimedio delle nostre illusioni. In tal modo furono messi a nudo, davanti ai nostri occhi, gli inganni nascosti dal demonio nei pensieri che ci aveva suggeriti. Nello stesso tempo fu acceso nel nostro cuore il desiderio della mortificazione. Questo stesso desiderio infiammerà anche molti altri cuori di monaci, sebbene io abbia riferito in forma inelegante l’insegnamento dell’abate Abramo. È vero: le mie parole coprono d’una cenere appena tiepida le parole tutte fuoco di tanti eminentissimi Padri, tuttavia io spero che attraverso questa lettura molti potranno riaccendersi di fervore; basterà che scostino la cenere delle mie parole e suscitino la fiamma dei pensieri che vi stanno nascosti sotto. Non intendo però dire, o miei fratelli, che vi spedisco questo fuoco (portato dal Signore sulla terra e destinato per volontà sua a bruciare senza misura) con la presunzione o con la pretesa di animare, con questo fuoco nuovo, il vostro proposito che so tanto fervente. Vorrei soltanto che la vostra autorità ne fosse rafforzata presso i vostri figli, i quali vedranno confermati—attraverso i precetti dei Padri più grandi e più antichi — quegli insegnamenti che voi impartite: e li impartite, non già con parole smorte e inefficaci, ma con esempi di vita. Resta ora che io, dopo essere stato fin qui agitato dalla più pericolosa tempesta, sia accompagnato dal soffio spirituale delle vostre preghiere, nel porto munitissimo del silenzio. [1] Nota del redattore del sito. Il testo originale recita: “dall’inverno dell’infedeltà”. [2] I millenaristi erano una setta che ammetteva un millennio fa la risurrezione e l’inizio della vita celeste. In quel millennio gli uomini sarebbero in uno stato di perfetta felicità naturale. [3] Cassiano allude qui ad un uso degli antichi di indicare le cifre con segni della mano. La sinistra contava fino a 90, la destra – con gli stessi segni – contava da 100 in su.
Dopo avere ricevuto un’eccellente formazione classica (Cfr. Coll., 14,12), ancora molto giovane egli disdegnò “il suolo della sua patria„ e “le delizie del mondo„ (Coll., 1,2) e partì con il suo amico Germano con il quale era “uno spirito ed un’anima in due corpi„ (Coll., 1,1). Si recano in un monastero di Betlemme (Inst., 3,4), nella Provincia romana della Siria “che non è distante dalla grotta dove il Nostro Signore ha voluto nascere dalla Vergine„ (Inst., 4,31; Cfr. Coll., 11,1; 20,1).
Questo primo contatto con il monachesimo cenobitico – che durò soltanto due anni (Coll., 19,2) – gli permise di arricchirsi della tradizione cenobitica del monachesimo palestinese. Ma desiderò vivamente fare l’esperienza del monachesimo egiziano: “La nostra vita monastica incominciò in un monastero di Siria. Là imparammo i primi elementi della fede e facemmo qualche progresso; però ben presto sentimmo il desiderio di una perfezione più alta e decidemmo di recarci in Egitto„ (Coll., 11,1).
Il monachesimo palestinese non aveva tradizioni mistiche, contrariamente all’evoluzione apportata al monachesimo egiziano dal monaco Evagrio. Così Cassiano ed il suo amico desiderarono recarsi in Egitto. Dopo i molti anni passati in Egitto, Cassiano parlerà “della mediocrità della vita quotidiana„ nel suo monastero di Betlemme.
Cassiano chiede dunque il permesso di partire per l’Egitto, mentre era ancora adolescente (Coll., 14,9), probabilmente a seguito di una visita dell’abate Pinufio nel suo monastero. Quest’ultimo fuggiva dal suo monastero dove era troppo conosciuto, per nascondersi: “Abbiamo veduto di persona l’abate Pinufio. Quando ancora egli era prete in un grande monastero dell’Egitto, posto non lontano dalla città di Panefisi. (…) E così, salito su di una nave, cercò di raggiungere i territori della Palestina, credendo di potervi dimorare più nascosto se fosse riuscito a portarsi in luoghi, nei quali perfino il suo nome mai era stato udito. Quando vi fu arrivato, subito raggiunse il nostro monastero, situato non lontano dalla grotta, nella quale s’era degnato di nascere dalla Vergine nostro Signore Gesù Cristo. Ma non poté rimanervi nascosto se non per un tempo molto breve […] Infatti alcuni fratelli, giunti fino ai Luoghi Santi dall’Egitto per pregare, lo riconobbero e a forza di preghiere e di suppliche riuscirono a ricondurlo al loro monastero “ (Inst., 4,30-31).Le conferenze spirituali: come imparare dall’esperienza dei nostri padri
I CONFERENZA
II CONFERENZA
I – Esordio dell’abate Mosè sulla grazia della discrezione;
II – I vantaggi che il monaco può trovare nella sola discrezione, e discorso del beato Antonio su tale argomento;
III – Errore in cui caddero Saul e Acab per non aver avuto conoscenza della discrezione;
IV – Testimonianze della sacra Scrittura sul valore della discrezione;
V – La morte del vecchio Erone;
VI – Due monaci vanno incontro alla morte per ignoranza della discrezione;
VII – Illusione in cui cadde un altro monaco per ignoranza della discrezione;
VIII – Caduta di un monaco della Mesopotamia che si lasciò ingannare;
IX – Domanda sui mezzi per acquistare la vera discrezione;
X – Risposta sul modo di acquistare la vera discrezione;
XI – Parole dell’abate Serapione. I cattivi pensieri perdono il loro veleno se manifestati. Pericolo della confidenza in noi stessi;
XII – Domanda sulla vergogna che ci fa arrossire nel rivelare i nostri pensieri agli anziani;
XIII – Risposta sul dovere di calpestare la falsa vergogna e sul pericolo di non avere compassione;
XIV – La vocazione di Samuele;
XV – La vocazione dell’apostolo Paolo;
XVI – Dovere di tendere all’acquisto della discrezione;
XVII – Digiuni e veglie senza discrezione;
XVIII – Domanda sulla misura del mangiare e del digiunare;
XIX – Quale sia la misura ottima del cibo quotidiano;
XX – Obiezione: l’astinenza non è difficile se si possono avere due pagnotte al giorno;
XXI – Risposta: l’astinenza – se fedelmente osservata – è difficile;
XXII – Quale sia la regola generale dell’astenersi e del mangiare;
XXIII – Come regolare la sovrabbondanza degli umori;
XXIV – Fatica che richiede una regola costante nel mangiare, golosità del monaco Beniamino;
XXV – Domanda: come si possa tener sempre la stessa misura;
XXVI – Risposta: nel mangiare non si deve mai oltrepassare la misura stabilita.
Mi ricordo che io stesso ho più volte concepito un tale disprezzo del cibo, da stare fino a due o tre giorni senza toccarne, cosicché non mi veniva più neppure il pensiero di mangiare. Ma si trattava di suggestioni diaboliche. Mi ricordo anche che il demonio riuscì qualche volta a impedirmi compieta- mente di dormire, cosicché, per più giorni e più notti, dovetti implorare il Signore che concedesse un poco di quiete ai miei occhi. In tutte queste occasioni mi son dovuto accorgere che l’avversione al cibo e al sonno mi recavano più pericolo che la golosità e la sonnolenza.
Dobbiamo dunque essere doppiamente attenti: prima per non cadere nella colpa della gola, come chi mangia fuori tempo e fuori della giusta misura, poi attenti a prendere cibo e sonno alla giusta ora, anche se la nostra natura a ciò si rifiutasse. I due contrari assalti vengono dal demonio, ma è più grave il danno che ci può procurare un digiuno esagerato, di quello che può derivarci da un appetito soddisfatto: infatti, dopo aver mangiato con un certo eccesso, possiamo tornare alla consueta austerità con un atto di pentimento salutare, mentre dal male dell’eccessiva astinenza non è possibile riaversi.
XVIII – Domanda sulla misura del mangiare e del digiunare
Germano – Qual è la regola dell’astinenza che noi dobbiamo osservare, per passare indenni tra i due eccessi opposti?
XIX – Quale sia la misura ottima del cibo quotidiano
Mosè – Posso dirvi che i nostri Padri hanno molto discusso su questo argomento. Dopo aver osservato il metodo di non pochi solitari, i quali eran sempre vissuti di legumi, d’erbe, di frutti, i Padri stimarono preferibile l’uso del solo pane, e stabilirono che la giusta misura giornaliera era quella di due « passamazi », che sono pagnottelle di circa mezza libbra ciascuna.
XX – Obiezione: l’astinenza non è difficile se si possono avere due pagnotte al giorno
A queste parole ci rallegrammo molto e rispondemmo che una tale misura non ci pareva gravosa, anzi ci pareva indegna di chiamarsi astinenza. Noi, per esempio non saremmo mai riusciti, in un giorno, a mangiare una simile quantità di pane.
XXI – Risposta: l’astinenza – se fedelmente osservata – è difficile
Mosè – Se volete provare quanto costi al monaco la dieta sopra suggerita, mettetevi ad osservarla fedelmente, senza aggiungere alcunché di cotto, alla domenica o al sabato, o quando vi si presenti in visita qualche confratello. L’aggiunta di un cibo cotto, non solo permette che nei giorni seguenti si possa vivere con minor quantità di nutrimento, ma consente pure di poter digiunare senza alcuna difficoltà, perché il corpo continua a risentirsi il vantaggio di quel supplemento che gli è stato concesso.
Chi invece si atterrà fedelmente alla razione da me consigliata non sarà capace di rimanere un giorno senza mangiare. Mi risulta che i nostri Padri – e noi stessi lo abbiamo sperimentato personalmente più volte – trovarono grandissima difficoltà a sopportare una simile dieta e dovettero fare tanta violenza al loro appetito, da levarsi ogni volta da tavola con visibile dispiacere e non senza qualche gemito di tristezza.
XXII – Quale sia la regola generale dell’astenersi e del mangiare
La regola generale, in materia d’astinenza, si enuncia così: «ognuno deve prendere tanto cibo quanto ne occorre per sostentarlo, non per satollarlo».
In ogni eccesso c’è ugualmente grave danno, sia per dai obbliga il corpo ad un digiuno troppo rigoroso, sia per chi concede al corpo un cibo troppo abbondante. La mente nostra, illanguidita per mancanza di nutrimento, prega stancamente: perché essendo aggravata dalla pesantezza del corpo, si sente premere da involontaria sonnolenza. Ma anche un eccessivo nutrimento grava l’anima e le impedisce di levare a Dio preghiere pure e vivaci.
Per chi non è regolato nel cibo, diventa difficile anche l’osservanza della castità. Persino nei giorni in cui la carne potrà sembrare soggiogata dalla penitenza, avverrà che la sottrazione del cibo farà divampare più potente il fuoco della concupiscenza.
XXIII – Come regolare la sovrabbondanza degli umori
Quegli umori che si son raccolti nelle nostre carni, in conseguenza di una alimentazione sovrabbondante, è necessario che siano espulsi, come vuole una legge di natura, per la quale gli umori superflui non possono rimanere nel corpo in cui sarebbero eccessivi e nocivi. Noi dobbiamo perciò castigare il nostro corpo secondo una disciplina ragionevole ed uguale, cosicché, pur non potendo, per la nostra condizione umana, sottrarci a certe necessità della carne, molto raramente almeno, e non più di tre volte nel corso di un anno, abbiamo a trovarci inquinati dalle immondizie che fuoriescono dal corpo. Ed è pur necessario che un tale fenomeno si produca senza eccitazione alcuna, durante la quiete del sonno, in assenza di ogni immaginazione lubrica, che sarebbe segno di una voluttà nascosta.
Ecco dunque la regola aurea dell’astinenza, secondo il giudizio dei Padri e nostro: un pasto di solo pane ogni giorno, ma tale da lasciare sopravvivere un po’ di fame. In tal modo l’anima e il corpo rimangono in uno stato uniforme: né abbattuti dal digiuno, né appesantiti dalla sazietà. Con un regime di tal sorta si arriva al punto che il monaco, verso l’ora del tramonto, non si ricorda più e non si accorge più d’aver mangiato.
XXIV – Fatica che richiede una regola costante nel mangiare, golosità del monaco Beniamino
Il regime da noi consigliato è tanto difficile che alcuni monaci, ignari della perfetta discrezione, preferiscono digiunare un giorno intero e serbare una doppia razione di pane per il giorno seguente, al fine di potersi concedere, col pasto che fanno, la desiderata sazietà. Questo, come voi ben sapete, è il metodo costantemente seguito da un vostro compatriota, il monaco Beniamino. Per sottrarsi a una penitenza sempre uguale e ad una sobrietà snervante, egli preferiva digiunare due giorni di seguito, ma quando si metteva a mangiare, voleva soddisfare, con una razione aumentata, tutta la sua voracità. Quattro pagnotte gli consentivano di soddisfare il suo appetito e di ben riempirsi il ventre, mentre i due giorni di digiuno facevano da giusto contrappeso a una solenne scorpacciata.
Per la ostinazione pertinace a vivere secondo il proprio capriccio, voi sapete che bella fine ha fatto il monaco Beniamino: ha lasciato il deserto per correre dietro alla falsa filosofia del mondo e alle vanità del secolo. La sua defezione serva di esempio e confermi la validità della tradizione trasmessaci dai Padri. La sua caduta insegni che chiunque si fa guidare dalla propria inclinazione e dal proprio personale giudizio, non arriverà mai al culmine della perfezione. Anzi, non potrà far a meno di essere ingannato dalle pericolose illusioni del demonio.
XXV – Domanda: come si possa tener sempre la stessa misura
Germano – E come sarà possibile osservare questa regola senza mai contravvenire? Talvolta, dopo aver rotto il digiuno all’ora di nona, il monaco si troverà a dover ricevere un ospite, e in tal caso, per non venir meno ai doveri tanto raccomandati della cortesia, sarà necessario che prenda con quello un supplemento alla quotidiana razione di cibo.
XXVI – Risposta: nel mangiare non si deve mai oltrepassare la misura stabilita
Mose – Bisogna osservare contemporaneamente l’uno e l’altro dovere. Da una parte conviene osservare scrupolosamente l’astinenza nel cibo, per amore della temperanza e della purezza; d’altra parte, per dovere d’ospitalità, d’aiuto fraterno e di carità, conviene ricevere gentilmente i fratelli che arrivano. Sarebbe poi veramente assurdo che, ricevendo un fratello alla nostra mensa, anzi ricevendo Cristo nella persona del fratello, non prendessimo cibo con lui e assistessimo al suo pasto come estranei. Ecco perciò il metodo da seguire: non esser meritevoli di condanna né in uno né in altro senso.
All’ora nona dobbiamo mangiare una sola delle due pagnotte che dalla regola ci son concesse: la seconda la serberemo alla sera, in vista dell’ospite che potrebbe arrivare, Se l’ospite arriverà realmente, noi mangeremo con lui il pane dell’amicizia, senza nulla aggiungere alla consueta razione giornaliera. In tal modo l’arrivo di un fratello, che deve sempre essere cosa lieta, non potrà arrecarci alcuna tristezza, perché potremo rendergli gli onori dell’ospitalità senza nulla sottrarre al rigore della nostra disciplina. Se invece non avremo visite, potremo da soli mangiare tranquillamente il nostro pane: esso ci è dovuto e ne abbiamo il diritto. Se all’ora di nona avremo mangiato una sola pagnotta, l’aggiunta di una seconda verso l’ora del tramonto, non ci graverà lo stomaco, come avviene talvolta a certi monaci i quali – credendo di osservare un’astinenza più rigorosa – mangiano tutta la razione alla sera. Così il nutrimento abbondante, preso da poco, rende la loro mente appesantita e distratta durante la recita del vespro e della preghiera notturna.
La consuetudine di prender cibo all’ora di nona ha innegabili vantaggi: non solo lo spirito del monaco si sente libero e pronto per le preci notturne, ma si trova ben disposto anche per la recita di vespro, in quanto a quell’ora è già avvenuta la digestione.
Per due volte il venerabile Mosè ci aveva nutriti della sua parola: con la seconda conferenza ci aveva fatto conoscere la virtù della discrezione, con la prima ci aveva già fatto conoscere il carattere della rinuncia, nonché il fine prossimo e quello remoto della vita monastica. Così, quel che prima noi cercavamo alla cieca, mossi solo dal fervore dello spirito e dallo zelo di Dio, ci appariva ora più chiaro del sole. Vedevamo bene ormai che fino a quel momento eravamo andati vagando, lontani dalla purezza del cuore e dalla via retta. Questa persuasione si faceva ancor più viva quando riflettevamo che anche le attività materiali della vita mondana, per arrivare allo scopo che si propongono, richiedono conoscenza del fine e riflessione attenta sul modo atto a raggiungerlo.III CONFERENZA
II – Discorso del vecchio abate e nostra risposta;
III – Proposizioni dell’abate Panuzio sulle tre rinunzie;
IV – Le tre vocazioni;
V – La vocazione più sublime non giova al pigro e la meno nobile non nuoce al generoso;
VI – Le tre rinunzie;
VII – Bisogna portare al grado perfetto ognuna delle tre rinunzie;
VIII – Ricchezze che conferiscono bellezza e bruttura all’anima;
IX – Tre generi di ricchezze;
X – Nessuno può essere perfetto se si ferma al primo grado di rinunzia;
XI – Domanda sulla grazia e il libero arbitrio;
XII – Risposta: la grazia divina non toglie il libero arbitrio;
XIII – La guida nostra è Dio;
XIV – Dio è il nostro maestro: con la sua luce noi conosciamo la Legge;
XV – Ci vengono da Dio sia l’intelligenza per conoscere i comandamenti di Dio, sia gl’impulsi della buona volontà per seguirli;
XVI – La stessa fede è una grazia di Dio;
XVII – Dio misura le tentazioni e dà la grazia per superarle;
XVIII – La perseveranza nel santo timore è dono di Dio;
XIX – Inizio e termine della buona volontà vengono da Dio;
XX – In questo mondo niente si fa senza Dio;
XXI – Obiezione derivante dal libero arbitrio;
XXII – Risposta: il nostro libero arbitrio ha sempre bisogno dell’aiuto divino.IV CONFERENZA
II – Domanda: come avviene l’improvviso passaggio da una gioia ineffabile a una nera tristezza?;
III – Risposta alla domanda precedente;
IV – Doppia spiegazione della condotta di Dio in questa prova;
V – Il nostro impegno e la nostra industria non possono nulla senza l’aiuto di Dio;
VI – È utile per noi essere qualche volta abbandonati da Dio;
VII – Utilità di quel combattimento che l’Apostolo chiama « lotta tra carne e spirito »;
VIII – Domanda: perché l’Apostolo, nel testo citato, dopo aver presentato la carne e lo spirito in lotta tra loro, parla in terzo luogo della libertà?;
IX – Risposta: saper interrogare è segno d’intelligenza;
X – La parola « carne » non è usata univocamente;
XI – Che cosa significa « carne » per san Paolo, e che cosa sia la concupiscenza della carne;
XII – Che cosa sia la volontà che vien situata tra la concupiscenza della carne e quella dello spirito;
XIII – Utilità della lentezza che nasce dalla lotta tra carne e spirito;
XIV – Malizia incorreggibile degli spiriti malvagi;
XV – In che cosa ci giova la concupiscenza della carne contro lo spirito;
XVI – Le nostre cadute sarebbero più miserevoli se gli impulsi della carne non fossero tanto umilianti;
XVII – Tiepidezza di coloro che son casti per difetto naturale;
XVIII – Domanda: quale differenza passa tra un uomo carnale e uno spirituale?;
XIX – Risposta sul triplice stato delle anime;
XX – Coloro che hanno mal rinunciato al mondo;
XXI – Coloro che, dopo aver lasciato le cose grandi, si fanno dominare da quelle piccole.
V CONFERENZA
VI CONFERENZA
II – L’abate Teodoro risponde alla questione proposta;
III – Tre categorie in cui si dividono le cose esistenti in questo mondo: le buone, le cattive, le indifferenti;
IV – Non si può far male a chi non vuole;
V – Obiezione: come mai si dice che Dio ha creato il male;
VI – Risposta all’obiezione proposta;
VII – Domanda: Siccome il giusto riceve il premio della sua morte, è proprio colpevole colui che l’uccide?;
VIII – Risposta alla domanda precedente;
IX – Esempio di Giobbe tentato dal demonio, e del Signore tradito da Giuda. Prosperità e avversità giovano al giusto per la sua salvezza;
X – Virtù dell’uomo perfetto, che è chiamato figuratamente ambidestro;
XI – Due specie di tentazioni che si presentano in tre modi diversi;
XII – Il giusto non deve somigliare alla cera, ma al sigillo di diamante;
XIII – Domanda: può l’anima rimanere continuamente nel medesimo stato?;
XIV – Risposta alla domanda;
XV – A quali danni va incontro chi si allontana dalla cella;
XVI – Anche le virtù vanno soggette a mutazione;
XVII – Nessuno cade all’improvviso.VII CONFERENZA
II – Domanda del santo vecchio sullo stato dei nostri pensieri;
III – Nostra risposta riguardante la volubilità dello spirito;
IV – L’abate tratta dello stato dell’anima e delle sue capacità;
V – La perfezione dell’anima spiegata con la figura del centurione evangelico;
VI – Della perseveranza nel custodire i nostri pensieri;
VII – Domanda sulla volubilità dello spirito e sugli assalti che ci muovono gli spiriti del male;
VIII – Risposta sull’aiuto di Dio e le facoltà del libero arbitrio;
IX – Domanda sull’unione dell’anima coi demoni;
X – Risposta sul modo in cui gli spiriti immondi si uniscono con l’anima umana;
XI – Obiezione: Possono, gli spiriti immondi, penetrare nell’anima di coloro che hanno infestato e unirsi con quella?;
XII – Risposta sul modo in cui gli spiriti immondi dominano gli energumeni;
XIII – Uno spirito non può penetrare un altro spirito. Dio solo è assolutamente incorporeo;
XIV – Obiezione tendente a dimostrare che i demoni vedono i pensieri degli uomini;
XV – Risposta: ciò che i demoni possono e ciò che non possono sopra i pensieri dell’uomo;
XVI – Una comparazione con la quale si dimostra come i demoni conoscono i pensieri degli uomini;
XVII – Ogni singolo demonio non suggerisce all’uomo tutte le passioni;
XVIII – Domanda: È vero che i demoni hanno un ordine nei loro attacchi e che ciascuno di loro ha un suo compito particolare?;
XIX – Risposta: in qual modo i demoni si accordino sull’ordine dei loro attacchi;
XX – I demoni non hanno tutti la stessa forza e non possono tentarci come vogliono;
XXI – I demoni si affaticano nel combattimento con gli uomini;
XXII -1 demoni non hanno facoltà di nuocere come e quanto a loro piace;
XXIII – La potenza dei demoni è diminuita;
XXIV – Come i demoni si preparino l’ingresso nel corpo degli ossessi;
XXV – Coloro che son posseduti dai vizi son più miserabili di coloro che son posseduti dal demonio;
XXVI – Morte violenta di un profeta sedotto; malattia dell’abate Paolo, da lui meritata a scopo di purificazione;
XXVII – Tentazione dell’abate Mosè;
XXVIII – Non si possono disprezzare coloro che sono in potere degli spiriti immondi;
XXIX – Obiezione: perché coloro che son posseduti dagli spiriti immondi sono esclusi dalla comunione eucaristica?;
XXX – Risposta alla domanda;
XXXI – Sono più miserabili coloro che non meritano di esser sottoposti a queste prove temporali;
XXXII – Diversità di gusti e d’inclinazioni che si riscontrano negli spiriti dell’aria;
XXXIII – Domanda: da dove ha origine una sì grande diversità tra i demoni?;
XXXIV – Si rimanda ad altro tempo la soluzione della questione proposta.VIII CONFERENZA
II – Domande sulle diversità che si riscontrano tra gli spiriti maligni;
III – Risposta: la sacra Scrittura racchiude diversi alimenti;
IV – Nella interpretazione della sacra Scrittura si possono avere due sentenze diverse;
V – La risposta al quesito proposto è da computarsi tra le opinioni liberamente dibattute;
VI – Dio non ha creato nulla che sia cattivo;
VII – Origine dei Principati o Potestà;
VIII – Della caduta del diavolo e degli angeli;
IX – Obiezione: la caduta del diavolo incomincia con la seduzione di Eva;
X – Risposta riguardante l’origine della caduta del diavolo;
XI – Il castigo riservato a chi inganna e a chi è ingannato;
XII – Demoni che a schiere popolano l’aria e loro movimenti;
XIII – Le schiere degli angeli buoni e di quelli malvagi esercitano tra loro le stesse battaglie che suscitano tra gli uomini;
XIV – Da dove è derivato il nome di Principati e Potestà agli spiriti maligni;
XV – Non senza una ragione gli spiriti celesti hanno ricevuto il nome di Angeli e Arcangeli;
XVI – La sottomissione che i demoni osservano nei confronti dei loro capi viene dimostrata attraverso la visione di un monaco;
XVII – Ogni uomo ha due angeli attorno a sé;
XVIII – Due filosofi dimostrano la diversità di malizia esistente tra gli spiriti maligni;
XIX – Niente possono i demoni contro gli uomini, se prima non s’impossessano della loro mente;
XX – Domanda riguardante quegli angeli ribelli dei quali si legge, nel libro del Genesi, che ebbero rapporti con le figlie degli uomini;
XXI – Soluzione della questione proposta;
XXII – Come si può imputare ai figli di Seth la loro unione con le figlie di Caino, se quella unione non era stata proibita in antecedenza?;
XXIII – Risposta: fin dall’inizio dei tempi la legge naturale rese gli uomini passibili di giustizia e di pena;
XXIV – Coloro che peccarono prima del diluvio furono puniti giustamente;
XXV – Come si deve intendere il Vangelo quando dice che il demonio è « bugiardo e padre della menzogna » [1].
X CONFERENZA
XI CONFERENZA
II. Il vescovo Archebio.
III. Il deserto in cui vivevano Cheremone, Nestero e Giuseppe.
IV. L’abate Cheremone e la scusa da lui addotta per non tenerci la conferenza richiesta.
V. Nostra risposta.
VI. Proposizione dell’abate Cheremone: i vizi si vincono in tre modi.
VII. Per quali gradi si giunge alla vetta della carità. Stabilità di questa virtù.
VIII. Eccellenza di coloro che sfuggono ai vizi per mezzo della carità vissuta.
IX. La carità non solo ci trasforma da servi in figli, ma imprime in noi l’immagine e la somiglianza di Dio.
X. La perfezione della carità consiste nel pregare per i nemici; da qual segno si può riconoscere che un’anima non è ancora purificata.
XI. Perché i sentimenti di timore e di speranza son giudicati imperfetti?
XII. Risposta sui diversi gradi di perfezione.
XIII. Il timore che nasce dall’abbondanza della carità.
XIV. Domanda sulla castità perfetta.
XV. La risposta è rinviata ad altro tempo.XII CONFERENZA
XIII CONFERENZA
XIV CONFERENZA
XV CONFERENZA
XVI Conferenza
II. Discorso del vecchio abate sulle amicizie infedeli.
III. Da dove nasce un’amicizia indissolubile.
IV. Domanda: se sia bene compiere qualche azione utile, anche contro il desiderio del fratello.
V. Risposta: l’amicizia duratura può esistere soltanto tra i perfetti.
VI. In qual modo un’amicizia si può conservare inviolabile.
VII. Niente va apprezzato più della carità, niente va disprezzato più dell’ira.
VIII. Per qual motivo nascono le divisioni fra gli uomini spirituali.
IX. Bisogna troncare le cause spirituali che generano discordia.
X. Il modo migliore per cercare la verità.
XI. Chi si fida del proprio giudizio cadrà infallibilmente nelle illusioni del diavolo.
XII. Perché non si debbono disprezzare gli inferiori nelle Conferenze.
XIII. La carità non è soltanto una cosa divina, ma è Dio stesso.
XIV. I gradi della carità.
XV. Coloro che dissimulano aumentano così la commozione propria e quella dei fratelli.
XVI. Dio rifiuta l’offerta delle nostre preghiere se abbiamo inimicizia con qualche fratello.
XVII. Quelli che si tengono obbligati ad essere pazienti verso i secolari più che verso i loro confratelli.
XVII. Coloro che si fingono pazienti e provocano all’ira i loro fratelli.
XIX. Quelli che digiunano per sdegno.
XX. Coloro che simulano pazienza e presentano a chi li percuote l’altra guancia.
XXI Come è possibile obbedire ai comandi del Signore e non acquistare la perfezione evangelica?
XXII. Il Signore non guarda soltanto all’atto ma anche all’intenzione.
XXIII. È forte e sano chi sa piegarsi all’altrui volontà.
XXIV. I deboli son pronti all’ingiuria ma non sopportano di essere ingiuriati.
XXV. Come può essere forte chi non sa sopportare sempre un debole?
XXVI. Il debole non permette che lo si sopporti.
XXVII. Come reprimere l’ira.
XXVIII. Le amicizie nate da patti segreti non sono durature.XVII CONFERENZA
XVIII CONFERENZA
IXX CONFERENZA
XX Conferenza
XXI CONFERENZA
XXII CONFERENZA
XXIII Conferenza
II. Delle virtù che si trovarono nell’Apostolo.
III. Quale sia il bene vero che l’Apostolo dice di non aver condotto alla perfezione.
IV. Bontà e giustizia umana non sono più buone se si paragonano con la bontà e giustizia di Dio.
V. Nessuno può essere continuamente rivolto al bene sommo.
VI. Coloro che si credono senza peccato assomigliano ai ciechi.
VII. Coloro che sostengono la possibilità, per un uomo, di esser senza peccato, cadono in un doppio errore.
VIII. Pochi son coloro che capiscono che cos’è il peccato.
IX. Con quanta attenzione il monaco deve conservare il ricordo di Dio.
X. Chi tende alla perfezione si umilia sinceramente e riconosce di aver sempre bisogno della grazia di Dio.
XI. Spiegazione delle parole: «Mi compiaccio della legge di Dio secondo l’uomo interiore… » (Rm 7,22).
XII. Sul versetto paolino che dice: « Sappiamo che la legge spirituale… » (Rm 7,22).
XIII. Sulle parole: « So che il bene non abita in me, cioè nella mia carne.. » (Rm 7,18).
XIV. Obiezione: le parole dell’Apostolo: « Io non faccio il bene che vedo… » non convengono né agli infedeli né ai santi.
XV. Risposta all’obiezione.
XVI. Che cos’è il corpo di peccato?
XVII. Tutti i santi hanno sinceramente riconosciuto di esser impuri e peccatori.
XVIII. Neppure i santi e i giusti sono senza peccato.
XIX. Anche nel momento in cui ci diamo all’orazione, mal si può evitare il peccato.
XX. Da chi si deve imparare a liberarsi dal peccato e a divenire perfetti nella virtù.
XXI. Benché convinti di non essere senza peccato, non dobbiamo astenerci dalla santa comunione.XXIV CONFERENZA