Perché alcuni ebrei scrivono D-O invece di scrivere il nome completo
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Nella nostra epoca di abbondanza digitale e di linguaggio casuale, può sembrare “strano” incontrare l’omissione deliberata di una singola lettera quando ci si riferisce al Divino: “D-O” invece di “DIO”. Per alcuni può sembrare superstizione, per altri riverenza. Ma per coloro che sono radicati nella tradizione ebraica, la scelta non è né banale né performativa; è la manifestazione di una visione del mondo profondamente spirituale, plasmata da testi sacri, principi halakhici e un profondo desiderio di onorare l’ineffabile.

Molti sono stati, e senza dubbio continueranno ad esserlo, i modi in cui le persone scelgono di scrivere, o più precisamente di non scrivere, il Nome Santo. Secondo la Sacra Scrittura, il Nome Divino non dovrebbe essere scritto invano, né trattato con “leggerezza”. La ragione è semplice, ma profonda: DIO è l’Altissimo, e gli esseri umani, nella loro finitezza, non possono comprenderlo appieno, tanto meno presumere di conoscere il Suo Nome nella sua pienezza. Questa verità trova un bellissimo riscontro nell’incontro tra Mosè e il Divino al roveto ardente, quando Mosè chiede il Nome di DIO e riceve l’enigmatica risposta: “Ehyeh Asher Ehyeh”“Io Sono Colui Che Sono” (Esodo 3:14). Non è un nome convenzionale, ma una rivelazione dell’esistenza stessa: senza tempo, senza limiti e al di là di ogni comprensione.

Per questo motivo, nel corso dei secoli, il popolo ebraico si è astenuto dal pronunciare o scrivere il Tetragramma, il Nome di DIO composto da quattro lettere, in segno di riverenza e umiltà. Al suo posto, ha utilizzato nomi e titoli alternativi, come Adonai o Hashem, e in molti contesti moderni, soprattutto al di fuori dei testi sacri, termini come “Dio” sono diventati comuni, per evitare la profanazione accidentale.

Qui all’Abrahamic Study Hall (ASH) seguiamo un simile spirito di rispetto scrivendo DIO, tutto in maiuscolo, per ricordare la sacralità del Nome Divino e come eco simbolica del Tetragramma. Tuttavia, ci asteniamo dal scrivere o dal tentare di pronunciare il vero Nome.

Secondo la tradizione ebraica, solo una persona, il Sommo Sacerdote, conosceva la corretta pronuncia del Tetragramma, e anche a lui era permesso pronunciarlo solo una volta all’anno, lo Yom Kippur, all’interno del Sancta Sanctorum del Tempio di Gerusalemme. Una tale e impressionante moderazione la dice lunga sulla sacralità del Nome Divino e sulla consapevolezza spirituale necessaria per avvicinarsi ad esso.

In quest’ottica, l’omissione di una sola lettera diventa un atto di devozione. Non si tratta di superstizione o di formalismo linguistico, ma di riconoscere l’infinito divario tra il Creatore e il creato, tra il Nome e Colui che esso designa.

L'avvertimento della Torah e la sacralità del nome

Il fondamento di questa pratica si trova nella stessa Torah. Nel Deuteronomio 12:3-4, agli Israeliti viene ordinato di cancellare i nomi degli dei stranieri dalla Terra d’Israele, seguito dall’imperativo: “Non farete lo stesso con il Signore vostro Dio”. Da ciò, i saggi hanno dedotto un divieto di distruggere o mancare di rispetto al Nome del Santo, benedetto sia Egli (Talmud, Shavuot 35a).

Tradizionalmente, questo divieto si applica più rigorosamente ai sette nomi sacri scritti in ebraico, come il Tetragramma (YHWH), Elohim ed El Shaddai, ma è emersa una divergenza di opinioni riguardo ai nomi di DIO scritti in lingue straniere, come “God” in inglese, “Gott” in tedesco o “Boga” nelle lingue slave. Alcune autorità, come l’Urim Vetumim, estendono il divieto a tutte le lingue, mentre altre, come lo Shach, lo considerano lodevole ma non obbligatorio per evitare di deturpare queste traduzioni del Nome Divino.

Oltre la legge: l'appello alla riverenza

A parte le sfumature legali, il nocciolo della questione sta nel kavod, ovvero la riverenza. Anche se cancellare “DIO” in italiano non trasgredisce tecnicamente la legge halakhiche, la tradizione ebraica attribuisce grande importanza al non trattare tali espressioni di santità in modo irrispettoso o casuale.

Il rabbino Schneur Zalman di Liadi ha sottolineato questo punto, osservando che anche i nomi di DIO nelle lingue secolari non dovrebbero essere pronunciati in luoghi sporchi, poiché farlo è degradante. Sebbene non vi sia alcuna santità intrinseca legata a questi nomi in lingue straniere, essi partecipano comunque alla realtà divina, soprattutto se usati con intenzione e benedizione. Come insegna il Talmud: “Qualsiasi benedizione che non contenga il nome di DIO è invalida” (Berachot 40b). Quindi, quando si benedice usando “DIO” in italiano, quell’invocazione è considerata spiritualmente valida.

Perché il trattino? Stampa, carta e tradizione

Questo ci porta al trattino. L’uso di “Dio” ha acquisito importanza tra gli editori ebrei ortodossi nell’Europa pre-Olocausto, motivato da una semplice preoccupazione: giornali o opuscoli stampati recanti il Nome potevano finire nella spazzatura, per terra o comunque profanati. Il trattino era quindi un modo pratico per mitigare la potenziale mancanza di rispetto, peccando per eccesso di cautela. Questa pratica, nata dalla riverenza, alla fine si è estesa oltre la stampa al regno digitale, in particolare perché le pagine stampate dai siti web possono ancora essere maneggiate fisicamente o scartate.
I testi sacri, tuttavia, come i siddurim (libri di preghiera) o i chumashim (Bibbie), di solito scrivono il nome di DIO per intero, dato che si presume che questi volumi saranno trattati con dignità.

Il dibattito: la tradizione incontra il dissenso ponderato

Naturalmente, in una comunità intellettualmente ricca come quella ebraica, non tutti accettano questa pratica senza riflettere. Alcuni sostengono, filosoficamente e teologicamente, che il Creatore, infinito e al di là dei limiti umani, non può essere mancato di rispetto da semplici lettere su una pagina. Una voce ci paragona alle formiche che cercano di insultare un essere umano strisciando sui suoi rifiuti. “Tutta la creazione è sacra”, dicono, “anche il mucchio di spazzatura”, e quindi l’idea di offendere DIO attraverso una parola stampata e gettata in discarica è, come dicono loro, “idolatria di sé stessi”.

Altri fanno notare che “Dio” è un titolo generico, non un nome personale. Dopotutto, cristiani, musulmani e altri usano la stessa parola. Non è lo shem ha-meforash (nome esplicito) che si trova nella Torah, come in Esodo 3:14-15, dove DIO dichiara: “Questo è il mio nome eterno, da ricordare per tutte le generazioni”.

Eppure, anche in questo caso, il giudaismo tradizionale risponderebbe: nel nostro contesto di alleanza, “Dio” non è solo un termine, ma diventa santificato attraverso l’uso, l’intenzione, la benedizione. Non è il Nome che santifica l’espressione, ma piuttosto l’espressione, quando è sincera, che invoca il Nome.

Considerazioni conclusive: rispetto anziché rigidità

In definitiva, questo dibattito non è uno di giusto contro sbagliato, ma di profondità contro ampiezza. Per coloro che sono immersi nella tradizione halakhica, scrivere “Dio” è un atto di umiltà, di cautela e di riverenza. Per altri, il rispetto per DIO può essere espresso in modo diverso, magari attraverso parole scritte per intero ma pronunciate con timore reverenziale.

Come insegnò il profeta Michea:

“Il SIGNORE ti chiede solo di agire con giustizia, amare la misericordia e camminare umilmente con il tuo DIO” (Michea 6:8)

Sia che si scriva “DIO”, “D-O” o si usi il Tetragramma in un contesto sacro, il criterio ultimo non è la tipografia, ma il cuore. Possano tutte le nostre parole riflettere riverenza e possano tutti noi, nella nostra lingua e tradizione, elevare il Nome con amore e cura.

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