Rabbi Akiva

Introduzione

Akiva ben Joseph (ebraico: עקיבא בן יוסף; c. 40 – c. 137 CE), ampiamente conosciuto come Rabbi Akiva (ebraico: רבי עקיבא), era un tanna (i saggi rabbinici le cui opinioni sono registrate nella Mishnah) della seconda parte del I secolo e l’inizio del II secolo (terza generazione tannaitica). Rabbi Akiva fu uno dei principali collaboratori della Mishnah e del Midrash Halakha. Nel Talmud è indicato come Rosh la-Chachamim (Capo di tutti i Saggi).

Riconobbe Bar Kokhba come Messia e fu giustiziato dai Romani nelle disastrose conseguenze della rivolta di Bar Kokhba.

Biografia

Akiva ben Joseph (scritto עקיבא nel Talmud babilonese, e עקיבה nel Talmud di Gerusalemme – un’altra forma per עקביה) era di umili origini. Quando sposò la figlia di Kalba Savu’a, un ricco cittadino di Gerusalemme, Akiva era un pastore senza istruzione alle dipendenze di Kalba Savua. Il nome di sua moglie non è indicato nelle prime fonti, ma una versione successiva della tradizione lo dà come Rachele (Ab. R. N. ed. S. Schechter, vi. 29). Ella rimase lealmente accanto a suo marito durante il periodo critico della sua vita in cui Akiva si dedicò allo studio della Torah. Rabbi Akiva ha molte citazioni famose nel Talmud babilonese.

Un’altra tradizione (Ab. R. N. l.c.) narra che all’età di 40 anni, Akiva frequentò l’accademia della sua città natale, Lod, presieduta da Eliezer ben Hyrcanus. Hyrcanus era un vicino di Giuseppe, il padre di Akiva. Il fatto che Eliezer sia stato il suo primo insegnante, e l’unico che Akiva designa in seguito come “rabbino”, è importante per stabilire la data di nascita di Akiva. Queste leggende fissano l’inizio dei suoi anni di studio a circa 75-80 anni. Oltre a Eliezer, Akiva studiò sotto Joshua ben Hananiah (Ab. R. N. l.c.) e Nahum Ish Gamzu (Ḥag. 12a). Era alla pari con Rabban Gamaliel II, che incontrò più tardi. Tarphon era considerato uno dei maestri di Akiva (Ket. 84b), ma l’allievo superò il suo maestro e divenne uno dei più grandi ammiratori di Akiva (Sifre, Num. 75). Akiva rimase a Lod (R. H. i. 6) finché Eliezer vi dimorò, e poi trasferì la sua scuola a Beneberak, a cinque miglia romane da Giaffa (Sanh. 32b; Tosef., Shab. iii. [iv.] 3). Akiva visse anche per qualche tempo a Ziphron (Num. xxxiv. 9), la moderna Zafrân (Z. P. V. viii. 28), vicino a Hamath.

Secondo il Talmud, Akiva era un pastore quando la figlia di Kalba Savu’a lo prese in simpatia. Lei acconsentì ad un fidanzamento segreto a condizione che lui da allora in poi si dedicasse allo studio. Quando il ricco suocero venne a sapere del loro fidanzamento, cacciò la figlia da casa sua e giurò che non l’avrebbe mai aiutata finché Akiva fosse rimasto suo marito. Akiva e sua moglie vivevano in una tale povertà che lei vendette i suoi capelli per permettere ad Akiva di proseguire i suoi studi. Una storia racconta che una volta, quando avevano solo un fascio di paglia per il letto, un povero uomo venne ad elemosinare della paglia per un letto per sua moglie malata. Akiva divise subito con lui i suoi scarsi averi e disse a sua moglie: “Vedi, figlia mia, ci sono persone più povere di noi! Questo finto povero non era altri che il profeta Elia, che era venuto per mettere alla prova Akiva (Ned. 50a).

D’accordo con sua moglie, Akiva passò dodici anni lontano da casa per proseguire i suoi studi. Tornato alla fine di quel periodo e sul punto di entrare nella sua casa, sentì sua moglie dire a un vicino che criticava la sua lunga assenza: “Se avessi il mio desiderio, dovrebbe rimanere altri dodici anni all’accademia”. Senza varcare la soglia, Akiva tornò all’accademia, tornando dodici anni dopo come famoso studioso, scortato da 24.000 discepoli. Quando sua moglie andò ad abbracciarlo, alcuni dei suoi studenti, non sapendo chi fosse, cercarono di trattenerla. Ma Akiva esclamò: “Lasciatela stare; perché quello che sono io, e quello che siete voi, è suo” (il merito è suo) (Ned. 50a, Ket. 62b e seguenti).

La tomba di Rabbi Akiva, Tiberiade

I più grandi tannaim della metà del II secolo provenivano dalla scuola di Akiva, in particolare Rabbi Meir, Judah ben Ilai, Simeon bar Yohai, Jose ben Halafta, Eleazar ben Shammai e Rabbi Nehemiah. Oltre a questi, Akiva aveva molti discepoli i cui nomi non sono stati tramandati, ma l’Aggadah dà variamente il loro numero come 12.000 (Gen. R. lxi. 3), 24.000 (Yeb. 62b), e 48.000 (Ned. 50a).

Akiva avrebbe preso parte alla rivolta di Bar Kokhba del 132-136. Nel 95-96 Akiva era a Roma (H. Grätz, Gesch. d. Juden, iv. 121), e qualche tempo prima del 110 era in Nehardea (Yeb. xvi. 7). Durante i suoi viaggi, si ritiene che abbia visitato importanti comunità ebraiche, La Baraita (Ber. 61b) afferma che subì il martirio a causa della sua trasgressione degli editti di Adriano contro la pratica e l’insegnamento della religione ebraica. Fonti ebraiche raccontano che fu sottoposto a una tortura romana in cui la sua pelle fu scorticata con pettini di ferro.

Modestia

Un esempio della sua modestia fu il suo discorso funebre su suo figlio Simone. Alla grande assemblea riunita per l’occasione da ogni parte, egli disse (Sem. viii., M. ḳ. 21b): “Fratelli della casa d’Israele, ascoltatemi. Non perché io sia uno studioso siete apparsi qui così numerosi, perché qui c’è chi è più dotto di me, né perché io sia un uomo ricco, perché ci sono molti più ricchi di me. La gente del sud conosce Akiva, ma da dove dovrebbe conoscerlo la gente di Galilea? Gli uomini lo conoscono, ma come si può dire che lo conoscano le donne e i bambini che vedo qui? Eppure so che la vostra ricompensa sarà grande, perché vi siete dati la pena di venire semplicemente per fare onore alla Torah e per compiere un dovere religioso”.

La modestia è uno dei temi preferiti di Akiva, ed egli vi ritorna continuamente. “Colui che si stima altamente a causa della sua conoscenza”, insegna, “è come un cadavere che giace sul ciglio della strada: il viaggiatore gira la testa altrove con disgusto e passa rapidamente oltre” (Ab. R. N., ed. S. Schechter, xi. 46). Un altro dei suoi detti, citato anche a nome di Ben Azzai (Lev. R. i. 5) è: “Prendi il tuo posto qualche posto sotto il tuo rango finché non ti venga chiesto di prendere un posto più alto; perché è meglio che ti dicano ‘Sali più in alto’ piuttosto che ti dicano ‘Scendi più in basso'”. (vedi Prov. xxv. 7).

Relazione con Gamaliele

Convinto della necessità di un’autorità centrale per il giudaismo, Akiva divenne un devoto aderente e amico di Gamaliele, che mirava a costituire il patriarca il vero capo spirituale degli ebrei (R. H. ii. 9). Ma Akiva era altrettanto fermamente convinto che il potere del patriarca dovesse essere limitato sia dalla legge scritta che da quella orale, la cui interpretazione era nelle mani dei dotti; ed era quindi abbastanza coraggioso da agire in questioni rituali nella casa di Gamaliele stesso, contrariamente alle decisioni di Gamaliele stesso. Per quanto riguarda le altre eccellenze personali di Akiva, come la benevolenza e la gentilezza verso i malati e i bisognosi, vedi Ned. 40a, Lev. R. xxxiv.16, e Tosef., Meg. iv. 16. Akiva ricopriva l’incarico di sorvegliante dei poveri.

Canone biblico

Akiva fu determinante nella stesura del canone della Tanakh. Protestò fortemente contro la canonicità di alcuni Apocrifi, la Sapienza del Siracide, per esempio (Sanh. x. 1, Bab. ibid. 100b, Yer. ibid. x. 28a), nei cui passaggi קורא è da spiegare secondo ḳid. 49a, e חיצונים secondo il suo equivalente aramaico ברייתא; così che l’enunciato di Akiva recita: “Chi legge ad alta voce nella sinagoga da libri non appartenenti al canone come se fossero canonici”, ecc. Ma egli non era contrario alla lettura privata degli Apocrifi, come risulta dal fatto che egli stesso fa un uso frequente del Siracide (W. Bacher, Ag. Tan. i. 277; H. Grätz, Gnosticismus, p. 120). Akiva difese strenuamente, tuttavia, la canonicità del Cantico dei Cantici e di Ester (Yad. iii.5, Meg. 7a). Le affermazioni di Grätz (Shir ha-Shirim, p. 115, e Kohelet, p. 169) riguardo all’atteggiamento di Akiva verso la canonicità del Cantico dei Cantici sono errate, come I.H. Weiss (Dor, ii. 97) ha in parte dimostrato. Allo stesso motivo alla base del suo antagonismo verso gli Apocrifi, cioè il desiderio di disarmare i cristiani – specialmente i cristiani ebrei – che traevano le loro “prove” dagli Apocrifi, deve essere attribuito anche il suo desiderio di emancipare gli ebrei della Dispersione dal dominio della Septuaginta, i cui errori e imprecisioni spesso distorcevano il vero significato delle Scritture, ed erano persino usati come argomenti contro gli ebrei dai cristiani. Aquila era un uomo secondo il cuore di Akiva; sotto la guida di Akiva diede agli ebrei di lingua greca una Bibbia rabbinica (Girolamo su Isa. viii. 14, Yer. ḳid. i. 59a). Akiva probabilmente provvide anche ad una revisione del testo dei Targum; certamente, alla base essenziale del Targum Onkelos, che in materia di Halakah riflette completamente le opinioni di Akiva (F. Rosenthal, Bet Talmud, ii. 280)

Akiva come sistematizzatore

Akiva lavorò nel campo della Halakah, sia nella sistematizzazione del suo materiale tradizionale che nel suo ulteriore sviluppo. La condizione della Halakah, cioè della prassi religiosa, e in effetti del giudaismo in generale, era molto precaria alla fine del primo secolo dell’era comune. La mancanza di una raccolta sistematizzata delle Halakot accumulate rendeva impossibile qualsiasi presentazione di esse in forma adatta a scopi pratici. Anche i mezzi per lo studio teorico della Halakah erano scarsi; sia la logica che l’esegesi – i due pilastri della Halakah – erano concepiti diversamente dai vari tannaim dominanti, e diversamente insegnati. Secondo una tradizione che ha una conferma storica[citazione necessaria], fu Akiva che sistematizzò e mise in ordine metodico la Mishnah, o codice della Halakah; il Midrash, o l’esegesi della Halakah; e le Halakot, l’amplificazione logica della Halakah (Yer. SheḲ. v. 48c, secondo il testo corretto dato da Rabbinowicz, DiḲduḲe Soferim, p. 42; confrontare Giṭ. 67a e Dünner, in Monatsschrift, xx. 453, anche W. Bacher, in Rev. Ét. Juives, xxxviii. 215). La Mishna di Akiva, come il suo allievo Meir l’aveva presa da lui, divenne la base dei Sei Ordini della Mishna.

Il δευτερώσεις τοῦ καλουμένου Ραββὶ Ακιβά citato da Epifanio (Adversus Hæreses, xxxiii. 9, e xv., fine), così come le “grandi Mishnayot di Akiva” nel Midr. Cant. R. viii. 2, Eccl. R. vi. 2, non sono probabilmente da intendersi come Mishnayot indipendenti (δευτερώσεις) esistenti a quel tempo, ma come gli insegnamenti e le opinioni di Akiva contenuti nelle Mishnayot e Midrashim ufficialmente riconosciuti. Ma allo stesso tempo è giusto considerare la Mishnah di Judah ha-Nasi (chiamata semplicemente “la Mishnah”) come derivata dalla scuola di Akiva; e anche la maggior parte dei Midrashim halakici oggi esistenti sono da accreditare così.

Johanan bar Nappaḥa (199-279) ha lasciato la seguente importante nota relativa alla composizione e alla redazione della Mishnah e di altre opere halakiche: “La nostra Mishnah viene direttamente da Rabbi Meir, la Tosefta da R. Nehemiah, la Sifra da R. Judah, e la Sifre da R. Simon; ma tutti hanno preso Akiva come modello nelle loro opere e lo hanno seguito” (Sanh. 86a). Si riconosce qui la triplice divisione del materiale halakico che emanò da Akiva: (1) La Halakah codificata (che è la Mishnah); (2) la Tosefta, che nella sua forma originale contiene una concisa argomentazione logica per la Mishnah, un po’ come il Lebush di Mordecai Jafe sullo Shulḥan ‘Aruk; (3) il Midrash halakico.

I seguenti possono essere menzionati qui come Midrashim halakici originati nella scuola di Akiva: la Mekilta di Rabbi Simon (solo in manoscritto) sull’Esodo; Sifra sul Levitico; Sifre Zuṭṭa sul Libro dei Numeri (estratti in YalḲ. Shim’oni, e un manoscritto in Midrash ha-Gadol, (edito per la prima volta da B. Koenigsberger, 1894); e la Sifre al Deuteronomio, la cui parte halakica appartiene alla scuola di Akiva.

Com’era Rabbi Akiva? – Un lavoratore che esce con la sua cesta. Trova il grano – lo mette dentro, l’orzo – lo mette dentro, il farro – lo mette dentro, i fagioli – lo mette dentro, le lenticchie – lo mette dentro. Quando arriva a casa, separa il grano da solo, l’orzo da solo, il farro da solo, i fagioli da solo, le lenticchie da solo. Così ha fatto Rabbi Akiva; ha sistemato la Torah anelli per anelli.
– Avot deRabbi Natan cap. 18; vedi anche Gittin, 67a

L’Halakha di Akiva

Per quanto ammirevole sia la sistematizzazione della Halakha da parte di Akiva, la sua ermeneutica e l’esegesi halachica – che costituiscono il fondamento di tutto l’apprendimento talmudico – la superano.

L’enorme differenza tra la Halacha prima e dopo Akiva può essere brevemente descritta come segue: La vecchia Halacha era, come indica il suo nome, la pratica religiosa sancita come vincolante dalla tradizione, alla quale venivano aggiunte estensioni e, in alcuni casi, limitazioni della Torah, alle quali si arrivava per rigorosa deduzione logica. L’opposizione dei Sadducei – che divenne particolarmente strenua nell’ultimo secolo a.C. – originò il Midrash halakhico, la cui missione era quella di dedurre queste amplificazioni della Legge, per tradizione e logica, dalla Legge stessa.

Si potrebbe pensare che con la distruzione del Tempio di Gerusalemme – evento che mise fine al sadduceismo – anche il Midrash halakhico sarebbe scomparso, visto che la Halacha poteva ormai fare a meno del Midrash. Questo probabilmente sarebbe stato il caso se Akiva non avesse creato il proprio Midrash, per mezzo del quale fu in grado di “scoprire cose che erano sconosciute persino a Mosè” (PesiḲ., Parah, ed. S. Buber, 39b). Akiva fece del tesoro accumulato della legge orale – che fino al suo tempo era solo una materia di conoscenza, e non una scienza – una miniera inesauribile dalla quale, con i mezzi da lui forniti, si potevano estrarre continuamente nuovi tesori.

Se la Halacha più antica deve essere considerata come il prodotto della lotta interna tra fariseismo e sadduceismo, la Halacha di Akiva deve essere concepita come il risultato di una lotta esterna tra il giudaismo da un lato e l’ellenismo e il cristianesimo ellenistico dall’altro. Akiva percepì senza dubbio che il legame intellettuale che univa gli ebrei – lungi dal poter scomparire con la distruzione dello stato ebraico – doveva essere fatto in modo da avvicinarli più di prima. Egli rifletté anche sulla natura di questo legame. La Bibbia non potrebbe mai più riempire il posto da sola, perché anche i cristiani la consideravano come una rivelazione divina. Ancor meno il dogma poteva servire allo scopo, perché i dogmi erano sempre repellenti per il giudaismo rabbinico, la cui essenza stessa è lo sviluppo e la suscettibilità allo sviluppo. È già stato menzionato il fatto che Akiva fu il creatore di una versione rabbinica della Bibbia elaborata con l’aiuto del suo allievo, Aquila (anche se questo è tradizionalmente discusso), e progettata per diventare proprietà comune di tutti gli ebrei.

Ma questo non era sufficiente per ovviare ad ogni pericolo minaccioso. C’era da temere che gli ebrei, per la loro facilità di adattarsi all’ambiente circostante – anche allora una caratteristica marcata – potessero rimanere impigliati nella rete della filosofia greca, e persino in quella dello gnosticismo. L’esempio dei suoi colleghi e amici, Elisha ben Abuyah, Ben Azzai e Ben Zoma, lo rafforzò ancora di più nella sua convinzione della necessità di fornire un contrappeso all’influenza intellettuale del mondo non ebraico.

RABBI-AKIVAIl sistema ermeneutico di Akiva

Akiva cercò di applicare il sistema di isolamento seguito dai farisei (פרושים = coloro che si “separano”) alla dottrina come loro alla pratica, alla vita intellettuale come loro a quella del discorso quotidiano, e riuscì a fornire una solida base al suo sistema. Come principio fondamentale del suo sistema, Akiva enuncia la sua convinzione che il modo di espressione usato dalla Torah è abbastanza diverso da quello di ogni altro libro. Nel linguaggio della Torah nulla è mera forma; tutto è essenza. Non ha nulla di superfluo; non una parola, non una sillaba, nemmeno una lettera. Ogni particolarità di dizione, ogni particella, ogni segno, è da considerare come di maggiore importanza, come avente una relazione più ampia e un significato più profondo di quello che sembra avere. Come Filone (vedi Siegfried, Philo, p. 168), che vide nella costruzione ebraica dell’infinito con la forma finita dello stesso verbo e in certe particelle (avverbi, preposizioni, ecc.) qualche profondo riferimento a dottrine filosofiche ed etiche, Akiva percepì in esse indicazioni di molte importanti leggi cerimoniali, statuti legali e insegnamenti etici (confronta D. Hoffmann, Zur Einleitung, pp. 5-12, e H. Grätz, Gesch. iv. 427).

Egli diede così alla mente ebraica non solo un nuovo campo per il proprio impiego, ma, convinto sia dell’immutabilità della Sacra Scrittura che della necessità di sviluppo nel giudaismo, riuscì a conciliare questi due opposti apparentemente senza speranza per mezzo del suo notevole metodo. Le due illustrazioni seguenti serviranno a renderlo chiaro:

L’alta concezione della dignità della donna, che Akiva condivideva con la maggior parte degli altri farisei, lo indusse ad abolire l’usanza orientale che bandiva le donne ritualmente impure da ogni rapporto sociale. Egli riuscì, inoltre, a giustificare pienamente la sua interpretazione di quei passi scritturali su cui questo ostracismo era stato fondato dai più antichi esponenti della Torah (Sifra, Meẓora, fine, e Shab. 64b).
La legislazione biblica in Ex. xxi. 7 non poteva essere conciliata da Akiba con la sua visione dell’etica ebraica: per lui uno “schiavo ebreo” è una contraddizione in termini, poiché ogni ebreo deve essere considerato come un principe (B. M. 113b). Akiba insegna quindi, in opposizione alla vecchia Halakah, che la vendita di una figlia minorenne da parte di suo padre non trasmette al suo acquirente alcun titolo legale per sposarsi con lei, ma, al contrario, porta con sé il dovere di mantenere la schiava femmina fino alla maggiore età, e poi di sposarla (Mek., Mishpaṭim, 3). Come Akiba si sforzi di dimostrare questo dal testo ebraico è mostrato da A. Geiger (Urschrift, p. 187).

La sua ermeneutica lo mise spesso in contrasto con la lettera della legge, come dimostra in particolare il suo atteggiamento verso i Samaritani. Egli considerava i rapporti amichevoli con questi semi-ebrei desiderabili sia per motivi politici che religiosi, e permetteva – in opposizione alla tradizione – non solo di mangiare il loro pane (Sheb. viii. 10), ma anche eventuali matrimoni (ḳid. 75b). Questo è abbastanza notevole, visto che nella legislazione matrimoniale arrivò a dichiarare ogni unione proibita come assolutamente nulla (Yeb. 92a) e la prole come illegittima (ḳid. 68a). Per ragioni simili Akiba arriva vicino ad abolire l’ordinanza biblica del Kil’ayim; quasi ogni capitolo del trattato con quel nome contiene una mitigazione di Akiba.

L’amore per la Terra Santa, che egli, da autentico nazionalista, esprimeva frequentemente e calorosamente (vedi Ab. R. N. xxvi.), era così forte in lui che avrebbe esentato l’agricoltura da gran parte del rigore della Legge. Questi esempi basteranno a giustificare l’opinione che Akiba fu l’uomo al quale il giudaismo deve in modo preminente la sua attività e la sua capacità di sviluppo.

Filosofia religiosa

Una tradizione tannaitica (Ḥag. 14b; Tosef., Ḥag. ii. 3) menziona che dei quattro che entrarono in paradiso, Akiva fu l’unico a tornare indenne. Questo serve almeno a mostrare quanto fosse forte in epoche successive il ricordo della speculazione filosofica di Akiva (vedi Elisha b. Abuya).

I discorsi di Akiva (Abot, iii. 14, 15) possono servire a presentare l’essenza della sua convinzione religiosa. Esse corrono:

Quanto è favorito l’uomo, perché è stato creato secondo un’immagine; come dice la Scrittura, “perché in un’immagine, Elohim fece l’uomo” (Gen. ix. 6).
Tutto è previsto; ma la libertà [di volontà] è data ad ogni uomo.
Il mondo è governato dalla misericordia… ma la decisione divina è presa dalla preponderanza del bene o del male nelle azioni di uno.

L’antropologia di Akiva si basa sul principio che l’uomo fu creato בצלם, cioè non a immagine di Dio – che sarebbe בצלם אלהים – ma dopo un’immagine, dopo un tipo primordiale; o, filosoficamente parlando, dopo un’Idea – ciò che Filone chiama, in accordo con la teologia giudea, “il primo uomo celeste” (vedi Adamo ḳadmon). Akiba, che era un rigoroso monoteista, protestò contro ogni paragone di Dio con gli angeli, e dichiarò che la chiara interpretazione di כאחד ממנו (Gen. iii. 22), che significa “come uno di noi”, era una palese blasfemia (Mek., Beshallaḥ, 6). È abbastanza istruttivo leggere come un cristiano della generazione di Akiba, Giustino Martire, chiami l’interpretazione letterale – così contestata da Akiba – “eretica giudaica” (Dial. cum Tryph. lxii.). Nei suoi seri tentativi di insistere il più fortemente possibile sulla natura incomparabile di Dio, Akiba abbassa effettivamente gli angeli un po’ ai regni dei mortali, e, alludendo ai Salmi lxxviii 25, sostiene che la manna è l’attuale cibo degli angeli (Yoma, 75b). Questo punto di vista di Akiba, nonostante le energiche proteste del suo collega Rabbi Ishmael, divenne quello generalmente accettato dai suoi contemporanei, come indica Justin Martyr, l.c., lvii.

I due attributi di DIO

Ma egli è lontano dal rappresentare la stretta giustizia come l’unico attributo di Dio: in accordo con l’antica teologia israeliana del מדת הדין, “l’attributo della giustizia”, e מדת הרחמים, “l’attributo della misericordia” (Gen. R. xii, fine; i χαριστική e κολαστική di Philo, Quis Rer. Div. Heres, 34 Mangey, i. 496), egli insegna che Dio combina la bontà e la misericordia con una rigorosa giustizia (Ḥag. 14a). Da qui la sua massima, citata sopra: “Dio governa il mondo nella misericordia, ma secondo la preponderanza del bene o del male negli atti umani”.

Escatologia ed etica

Per quanto riguarda la questione delle frequenti sofferenze dei pii e della prosperità dei malvagi – davvero scottante al tempo di Akiba – si risponde con la spiegazione che i pii sono puniti in questa vita per i loro pochi peccati, in modo che nella prossima possano ricevere solo la ricompensa; mentre i malvagi ottengono in questo mondo tutta la ricompensa per il poco bene che hanno fatto, e nel prossimo mondo riceveranno solo la punizione per i loro misfatti (Gen. R. xxxiii.; PesiḲ. ed. S. Buber, ix. 73a). Per quanto Akiba sia sempre stato coerente, la sua etica e la sua visione della giustizia erano solo le strette conseguenze del suo sistema filosofico. La giustizia come attributo di Dio deve essere esemplare anche per l’uomo. “Nessuna pietà nella giustizia [civile]!” è il suo principio fondamentale nella dottrina riguardante la legge (Ket. ix. 3), ed egli non nasconde la sua opinione che l’azione degli ebrei nel prendere il bottino degli egiziani sia da condannare (Gen. R. xxviii. 7).

Dalle sue opinioni sulla relazione tra Dio e l’uomo, egli deduce che chi versa il sangue di un suo simile è da considerarsi come colui che commette il crimine contro l’archetipo divino (דמות) dell’uomo (Gen. R. xxxiv. 14). Egli riconosce quindi come principio principale e più grande del giudaismo il comando: “Ama il tuo prossimo come te stesso” (Lev. xix. 18; Sifra, ḳedoshim, iv.). Egli non sostiene, infatti, che l’esecuzione di questo comando sia equivalente all’adempimento dell’intera Legge; e in una delle sue interpretazioni polemiche delle Scritture protesta fortemente contro un’opinione contraria che si presume sia stata tenuta dai cristiani, e da altri non ebrei dopo la diaspora, secondo la quale il giudaismo è al massimo “semplicemente morale” (Mek., Shirah, 3, 44a, ed. I.H. Weiss). Infatti, nonostante la sua filosofia, Akiba era un ebreo estremamente rigoroso e nazionale.

 

 

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